martedì 29 luglio 2008

Segreti

Sam Kieth è un autore straordinario. Non solo dal punto di vista stilistico, né per il fatto che è uno dei pochi autori occidentali che è sia scrittore che disegnatore delle sue storie. Lo è anche come professionista. Critico fino all’inverosimile sul suo stesso lavoro, ogni frase che scrive, ogni linea che traccia, ogni macchia di colore, è volta alla costante ricerca della perfezione. Kieth inizia la sua carriera come disegnatore, affiancandosi a sceneggiatori del calibro di Neil Gaiman sul primo ciclo di storie di “The Sandman”. Però, proprio per quel senso di professionalità che lo contraddistingue, di sua volontà rompe questa collaborazione dopo soli cinque numeri, e quindi un contratto con uno dei più grossi editori di fumetti al mondo, perché si rende conto che il suo tratto non riesce ad armonizzarsi con le sceneggiature e i dialoghi di Gaiman. Basta solo questo per essere ammirato. Però è vero che uno stile personalissimo come quello di Kieth può non piacere. Io personalmente lo adoro. Per mia formazione, sono molto legato al fumetto americano ‘vecchio stile’, quello degli anni Ottanta, per capirci, con i personaggi che dal punto di vista fisico non avevano il minimo difetto. All’opposto, gli avanguardisti mi lasciano spesso perplesso, in particolare quelli che utilizzano tratti troppo squadrati o stilizzati. È il caso, ad esempio, del Chris Bachalo degli ultimi tempi. Allo stesso modo non mi piacciono quelli per cui il disegno si è ridotto ad un semplice contorno sul quale gli studi di colorazione digitale si sbizzarriscono a creare effetti cromatici, impoverendo il tratto, come succede con Larroca o con Andy Kubert nel suo ultimo periodo alla Marvel comics. Anche Sam Kieth fa parte delle avanguardie del fumetto, come pure Dave McKean. Però questi due mi piacciono molto. Kieth ha un modo di disegnare le figure che ti costringe a soffermarti su ogni dettaglio. Non si può guardare un suo personaggio con la coda dell’occhio, mentre si è concentrati sul dialogo. Bisogna analizzarlo attentamente per scoprire ogni sfumatura. Inoltre, le figure non sono per nulla idealizzate, anzi sono strettamente realistiche, e a volte quasi caricaturali (penso alla miniserie di Wolverine e Hulk intitolata “La storia di Po”), e proprio in questo posseggono un fascino indiscutibile. Ma il contesto non è da meno. E accanto a scenografie degne di un fotografo per la minuziosità dei dettagli, si notano fondali psichedelici dove i colori non sono altro che lampi di luce che si fondono come in un caleidoscopio, per poi lasciare il posto, magari nella tavola successiva, a un fondale nero sul quale si stagliano solo i volti dei personaggi. Ma tutto questo risulterebbe in una caotica accozzaglia di effetti grafici, se non fosse sostenuto da una impostazione di tavole davvero magistrale. I tagli in diagonale, le andature curvilinee, i piccoli riquadri che si inseriscono in illustrazioni a tutta pagina, sono tutti accorgimenti minuziosamente studiati che riescono ad amalgamare il disegno al testo, creando un tutt’uno di meravigliosa fattura.

Tutto questo, e molto altro, è presente in “Segreti”, miniserie in cinque parti raccolta nella collana “Le leggende di Batman”. Finora ho parlato solo di aspetti grafici. Ma c’è anche molto contenuto nella storia, cosa che la rende una di quelle per cui una sola lettura non può certo bastare. Un buon metodo è: leggere una prima volta, cercando di cogliere l’insieme. Poi una seconda e una terza, dedicandosi in una solo al testo, nell’altra solo al disegno. Infine, una quarta lettura mette insieme tutti i dettagli della seconda e della terza, facendo finalmente acquisire il vero significato dell’opera. Cercherò di schematizzare qualche concetto importante, ma su quest’opera si potrebbe benissimo fare una tesi di laurea analizzando almeno una decina di tematiche di profondo valore. Un primo tema è quello del giornalismo. Kieth dedica molto spazio alla critica al giornalismo truffa, a quella stampa che pubblica notizie non vere solo perché vendono, e a quei giornalisti che non si scandalizzano a costruire una carriera su delle menzogne. Viene spontaneo un paragone con “Quarto potere” di Orson Welles, di cui cito solo la frase dell’editore Kane “Tu pensa a fare le foto, che io penso a fare la guerra”.
Altro tema interessante è quello dell’amore folle. In questo caso, folle è l’aggettivo giusto, visto che uno dei membri del binomio è il Joker, il folle per eccellenza dell’universo DC. Una giovane procuratrice distrettuale perde la testa per il pagliaccio del crimine, al punto da farsi complice dei suoi omicidi, convinta che lui ricambierà il suo amore. Ma con il Joker di mezzo, niente può essere così scontato.
Infine, un ultimo (non perché non ce ne siano altri) motivo importante è quello che dà il nome alla storia, cioè il segreto. È questo che accomuna tutti i personaggi coinvolti nella storia: ognuno ha un segreto che non vuole venga scoperto. Ma, come accade anche nella vita reale, non sono i grandi segreti quelli che ci tormentano. L’angoscioso segreto che Batman protegge non è la sua vera identità, così come quello del Joker non è la sua origine. Sono i piccoli segreti della vita di tutti noi, che ci vengono a trovare la notte, a tenerci svegli. E insieme ai due protagonisti, anche il giornalista Mooley e la procuratrice distrettuale hanno il loro segreto da nascondere, perché rivelarlo significherebbe mostrarsi nudi al mondo. Una cosa che pochi riescono ad accettare. Molto bella, in questo senso, è la reciproca confessione di questi segreti tra Batman e il Joker, che dimostra l’intimità stabilitasi tra i due personaggi nel corso di tanti anni di battaglie. Forse, il Joker è l’unico che conosce veramente Batman, molto più dei suoi stessi alleati. Perché, con la sua follia, è in grado di entrare in una dimensione interiore che a tutti gli altri è vietata.

Per questi aspetti, e per molti altri, la storia di Kieth merita di essere letta con attenzione, sperando che in futuro ci delizi con altre opere dello stesso calibro.

In memoria 55 - Consiglieri fraudolenti

Di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi,
tosto ch’io fui là ‘ve il fondo parea.
E qual colui che si vengiò con gli orsi
vide il carro D’elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levarsi,
che nol potea sì con gli occhi seguire,
che vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in su salire;
tal si movea ciascuna per la gola
del fosso, che nessuna mostra il furto,
ed ogni fiamma un peccator invola.

Inferno, canto XXVI versi 31-42

mercoledì 23 luglio 2008

Nessun dove

Una graphic novel di quelle che avvalorano la mia teoria che, dopo la saga di Sandman, ben poco di quello che ha scritto Neil Gaiman è di qualità eccelsa. In realtà, questa non è nemmeno una graphic novel di Gaiman, ma un adattamento a fumetti del suo romanzo, che porta lo stesso titolo. Romanzo che non ho letto e di cui quindi non posso parlare. parlerò un po’ del fumetto. Scrive Mike Carey nella sua introduzione che il suo lavoro di adattamento non è stato facile, soprattutto perché il libro e il fumetto parlano due linguaggi completamente diversi. Da quanto leggo, nel romanzo c’è il classico narratore impersonale e onnisciente, che in un fumetto proprio non ci sta, a meno di non volerlo far sembrare una parodia di quelli degli anni Settanta, in cui un narratore invisibile spiegava passo passo nelle didascalie quello che succedeva nelle varie tavole, aggiungendoci anche qualche commento di colore, del tipo “Nella notte oscura una figura sinistra avanza spedita…” ecc. Per questo motivo, Carey sceglie di far narrare la storia al protagonista, in una sorta di ricordo verbale di quello che le immagini stanno raccontando nel presente. Il che non è niente male, come espediente narrativo. Altra cosa che vale la pena di segnalare sono le tavole di Glenn Fabry, che si armonizza bene sia con la storia di Gaiman che con l’adattamento di Carey, deliziandoci con minuziosi particolari, soprattutto nei variegati personaggi che si incontrano nella storia. Purtroppo però, per quanto io mi sforzi di allungare il sugo, mi devo fermare qui. Sono costretto a confessare che questa prima parte è il risultato di una spremitura in cui ho cercato di tirare fuori tutto il buono di questa opera. Il resto, ahimé, non è niente di che. Per chi non conosce il fumetto fantasy, è una storia graziosa, ricca di personaggi interessanti, alcuni dei quali divertenti citazioni da altre opere letterarie. Anche la città di Londra è ben caratterizzata, e mostra degli aspetti particolari. Ma chi sa cosa siano altre opere di Gaiman, arriva alla fine aspettandosi ancora quell’exploit che invece non ci sarà. È questo il guaio di chi arriva lassù in cima: vuoi o non vuoi, quello che c’è attorno sarà sempre più basso, da ora in poi. Ne ho lette parecchie, di storie di Gaiman, ma oltre Sandman, e le due miniserie di Death che ne sono parenti strette, solo “Mistero celeste” l’ho trovata veramente all’altezza. Chissà, magari prima o poi ritroveremo quel Neil Gaiman che ha raccontato la storia di Sogno e della famiglia degli Eterni. C’è sempre speranza.

sabato 19 luglio 2008

Ricordi

È notte, ormai. Alcuni la chiamano sera tardi, altri mattina presto. Secondo me si chiama solo notte, che tu stia uscendo o rientrando, non cambia il colore del cielo scuro, la luce dei lampioni, il silenzio. Ho appena finito di rivedere un film in dvd, anzi due, veramente. Non avevo sonno, come capita troppo spesso, e non ne ho neanche adesso. Alcuni pensieri si scontrano all’interno della mia testa, cozzando tra di loro e contro le pareti. Ricordi, per lo più. Ricordi scatenati da questi due film, soprattutto dal secondo. Il titolo, dite? Beh, se ve lo dico dovrete avere la pazienza di alcune spiegazioni. In fondo, ho una reputazione da difendere. Il film in originale si intitola “The eternal sunshine of the spotless mind”, ma nella versione italiana gli è stato dato un titolo del tutto diverso, che preferisco evitare di dire. La traduzione letterale è molto più interessante: ‘La luce eterna della mente immacolata’. Com’è possibile che io abbia un dvd del genere? Beh, mi è capitato di passare dal negozio di dischi e di vedere un’offerta molto conveniente se si acquistavano tre dvd della stessa casa di produzione, e tra i titoli che c’erano ne ho scelti due che mi interessavano di più, e come terzo ho preso questo, per riempire il buco. Sapevo in partenza che non doveva essere niente di che, una commediola all’americana buona per passare un’ora e mezza quando non hai proprio nient’altro da fare. Stasera l’ho rivisto. Non so cosa mi abbia portato a farlo. In fondo, è sempre stato lì, insieme a tutti gli altri, e guardo un dvd praticamente ogni sera. Il film era lo stesso di come lo ricordavo. Ma stavolta mi ha fatto pensare. Erano le stesse immagini, gli stessi attori, le stesse parole, la stessa musica. Cavolo, erano perfino lo stesso televisore, la stessa poltrona e la stessa stanza. Quindi, l’unica soluzione è che quello diverso ero io. Già. A volte rimaniamo uguali per anni interi, altre cambiamo parecchie volte al giorno. Ma tutti, anche quando non sembra, cambiamo. La storia del film non è niente di che. Cosa puoi fare quando la persona con cui stai ti lascia? La “Lacuna” ha la risposta: la puoi cancellare dalla tua mente. Vai da loro, gli porti ogni oggetto che ti ricorda di lei o di lui, ti fanno una mappa del cervello, poi torni a casa, ti addormenti, e la mattina dopo ti svegli senza che quella persona esista più, per te. Può sembrare un’idea geniale, no? Hai la possibilità di una nuova vita, di superare la separazione senza sofferenza. Puoi liberarti letteralmente della persona che ti è diventata antipatica, ostile, insopportabile, odiosa. Molti pagherebbero per avere questa opportunità. Ma è davvero così? È tutto così semplice? No, io credo di no. La conclusione del film (banale, se vogliamo) è che è facile cancellare una persona dalla propria mente, ma non lo è altrettanto cancellarlo dal cuore. Potrei essere d’accordo. Lo sarei se fossi convinto che il depositario dei sentimenti è il cuore. Nella nostra cultura (nostra nel senso umana), chissà per quali antiche credenze, siamo portati a identificare alcune qualità con degli organi interni. Mi sono sempre chiesto, durante i miei studi, perché alcuni organi siano stati scelti per questa identificazione e altri no. È facile capire perché il cervello rappresenti l’intelligenza. Posso anche capire perché il cuore sarebbe il depositario dei sentimenti, visto che questi, in genere, influenzano la frequenza cardiaca. Non ho mai capito perché il coraggio dovrebbe stare nel fegato e l’indifferenza nello stomaco, ma non è questo il punto. Si diceva come sarebbe difficile cancellare una persona dal proprio cuore. In realtà, anche i sentimenti sono manifestazioni del pensiero, e quindi stanno nel sistema nervoso centrale. In altre parole, si ama con il cervello, non con il cuore. Ma se fosse davvero possibile eliminare ogni traccia di una persona dal proprio cervello, sarebbe davvero un bene farlo? Mentre guardavo il film, mi sono tornate in mente delle persone che avrei potuto ‘cancellare’, e dopo un po’ che ci pensavo, mi sono reso conto che non l’avrei fatto. Mai, in nessun caso. Perché sarebbe un male ancora più grande. Una persona può ferirti, farti del male, spingerti ad odiarla. Ma se nel contatto con quella persona c’è stato anche solo un momento felice, allora valeva la pena di incontrarla. Vale la pena custodire questo ricordo. Troppo spesso siamo portati a isolare i momenti difficili, le esperienze brutte e le azioni cattive. Questo perché tutti noi crediamo di avere diritto al meglio, nella nostra vita. E queste cose le vediamo come un’ingiustizia subita. Ma è sbagliato. Dovremmo essere capaci di vedere anche le cose positive, anzi soprattutto quelle. Un sorriso regalato, una carezza sul viso, un bacio, anche solo accennato, anche solo rubato. Sono cose di un valore inestimabile. Cose preziose. Dovremmo saper riconoscere la vita in ogni respiro, in ogni gesto, in ogni parola. Anche quando tutto ci sembra andare male, non dovremmo mai farci pena. Perché tutto sommato, poteva andare molto, ma molto, peggio di com’è andata. Ricordo una frase: “Esiste anche un modo di amare in cui è sufficiente restare a contemplare il proprio amore”. Essere capaci di gioire per aver provato qualcosa di così grande, grazie a quella persona. Non importa se ci ha rifiutato, se stava con un altro, se ci ha preso in giro e poi ci ha lasciato. Ci ha fatto provare questo sentimento, e di questo dovremmo essere grati. Questi ricordi vanno custoditi e protetti come un tesoro, insieme a tutti quegli altri che sono spiacevoli. Perché anche questi ultimi servono. A rafforzarci, a farci maturare, a farci crescere. A farci cambiare. A volte in meglio, altre in peggio. No, il buio, il vuoto, il nulla, non saranno mai una buona soluzione.

In memoria 54 - Contro Firenze

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo Inferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadin, onde mi vien vergogna,
e tu in grande onoranza non le sali.

Inferno, canto XXVI versi 1-6

giovedì 17 luglio 2008

Donna per caso

Quando vai in libreria con l’intento di comprare qualcosa, ma non sai affatto cosa, ti può capitare di portare con te una cifra tonda, tipo venti euro. Capita raramente, ma capita. Altrettanto raramente, ma anche questo capita, di tutti i libri che sfogli e tocchi e guardi e assapori, quello che ti attrae di più (dovendo per forza sceglierne uno e uno solo), ti lascia una piccola somma di resto. Però c’è qualcosa di maleducato nel riportare a casa e riporre nel salvadanaio parte di quella somma che era stata destinata nelle intenzioni interamente all’acquisto di un libro. È come se si offendesse in qualche modo il concetto stesso di libro. Quindi cosa si può fare? Capita (lo so, il mio sta diventando abuso di vocabolo, ma capirete in seguito perché lo faccio) che guardando un ripiano in cui sono esposte alcune decine di edizioni economiche, l’occhio cada su un nome in particolare. Là sopra c’era di tutto: Agnello Hornby, Allende, Benni, Vonnegut, Wilde... e nella fila in alto a sinistra, Jonathan Coe. Un solo titolo, quasi fosse finito lì per caso. È piccolo di spessore... potrebbe essere una buona risposta al problema del resto. No, è un po’ di più, proprio di un niente... Però... per caso, c’è uno sconto per chi ha la tessera della libreria. Per caso, io ce l’ho. Il conto è giusto. Non resta che pagare, tornare a casa, mettere le copertine a entrambi, e iniziare a leggere. Il caso vuole che questo sia il secondo. È più piccolo, e aspetterà, e poi la prima scelta era l’altro. Per caso, il primo libro è agli sgoccioli quando sono in procinto di tornare in paese per il fine settimana. Così, per caso, il libro finisce insieme al fratello maggiore, nello zaino. Il sabato sera a Cefalù si legge, di solito, chiuso in una stanza blindata di zanzariere. Di solito. Però, quella sera, per caso, i miei genitori sono invitati a cena fuori, e, per caso, in TV c’è un film che mi fa piacere rivedere. L’inizio del nuovo libro è rimandato a domenica, nel viaggio di ritorno in treno. Però, di solito, il treno delle 17.04 è strapieno quando passa da Cefalù, quindi spesso si sta in piedi davanti alla porta, ed è difficile leggere, figurarsi cominciare un libro nuovo, cosa che richiede molta concentrazione e dedizione. Stavolta, per caso, il treno delle 16.20 ha venticinque minuti di ritardo, si è appena fermato quando entro in stazione. Mi informo, oblitero, salgo e trovo una carrozza quasi vuota. Per caso, in un pomeriggio di scirocco pazzesco, c’è pure l’aria condizionata che funziona. Non ci può essere condizione migliore per cominciare a leggere “Donna per caso”.

Non sono impazzito (beh, tanto normale non sono stato mai, in realtà), ma c’è un motivo se ho usato tante volte la parola caso. Non era per creare quello che in gergo si definisce col diminutivo di questa parola, ma perché il caso è il vero protagonista della storia. D’altronde, lo dichiara il titolo stesso. Per caso parliamo di Maria, ma avremmo potuto scegliere anche un’altra donna. La sua storia non è più interessante di quella di altri esseri umani, anche perché bisognerebbe conoscere una grossa quota degli altri essere umani per stilare una classifica. Maria potrebbe eccellere, nella sua vita. Potrebbe. È brava a scuola, ha una buona famiglia, è molto carina e diventerà molto bella. Ma c’è qualcosa che non quadra. Maria vive perché è successo così. Per quanto possa fare delle scelte nel suo percorso esistenziale, è stranamente consapevole che il caso è più forte della volontà umana. Sarà il caso a metterle accanto certe persone, con le quali condividerà una casa a Oxford, durante gli studi. Sarà il caso a far sì che un ragazzo si innamori di lei al punto da chiederle di sposarla ogni volta che la incontra, per dieci anni. Sarà il caso a decidere che lei non debba provare per lui niente più che un leggero fastidio all’inizio e una specie di amicizia alla fine. Né tanto meno potranno essere considerate sue scelte in senso stretto il suo matrimonio, il suo divorzio, la sua solitudine... la sua vita. Una vita di cui vediamo solo alcune parti. In realtà, non stiamo vedendo un bel niente. C’è qualcuno che ci parla, da quelle pagine. Sì, sta parlando proprio a te, a te che adesso leggi queste righe, e anche a quell’altro, dietro di te, che fa finta di non essere interessato ma sta leggendo tutto, e non capisce perché diavolo sei così lenta a leggere e non fai scorrere quella dannata rotellina per andare avanti. È lui che decide cosa è importante, che cosa vale la pena di sapere della vita di Maria e che cosa no. Ma come, non succedeva tutto per caso, in questo post? E ora c’è uno che decide? Beh, in realtà è un caso che lui abbia deciso di parlarci. In fondo, se avessi avuto quindici euro in tasca invece di venti, non sarebbe successo niente di tutto questo. Ma torniamo al romanzo. Anche se, guarda caso, c’è poco altro da dire. Potrei dire che è una splendida narrazione. Potrei dire che rivaleggia con opere filosofiche in quanto a caratterizzazione intimistica dell’animo umano. Potrei dire che lascia l’amaro in bocca la sua conclusione, come uno starnuto che non riesci a fare. Come se, per caso, all’autore fosse finita la penna mentre lo scriveva, e per caso non ne aveva altre in casa, e per caso era domenica sera e non c’era nessun negozio aperto per comprarne una nuova, e quindi l’ha lasciato così. Potrei dire tutte queste cose, ma non credo che lo farò. In effetti, non voglio farlo. E se dovesse succedere che io le dica, sarà successo solo per caso. Perché, ancora una volta, il caso ha vinto sulla volontà. Si potrebbe parlare di tante altre cose. Però si correrebbe il rischio che tutti quelli che per caso hanno letto queste righe si annoino. E difficilmente il caso concede una seconda occasione. Maria lo sa bene. Si è sposata la prima volta con un uomo crudele che dopo qualche anno ha chiesto il divorzio e l’ha ottenuto, e quando ha detto sì all’uomo che l’ha corteggiata per dieci anni, lui ci ha ripensato. Meglio lasciarci con una citazione in proposito. Sempre che, per caso, abbiate avuto la bontà di arrivare fino in fondo.

“E così tu credi che il matrimonio sia con ogni probabilità la risposta a tutti i miei problemi e a quelli di chiunque altro?”.
“Non è così semplice, ovviamente, Maria,” rispose Sarah con un sorriso dolce. “ ‘Il matrimonio ha molti dolori, ma il celibato non ha piaceri’, come disse qualcuno uno volta”.

In memoria 53 - Caco

El si fuggì, che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: “Ov’è, ov’è l’acerbo?”
Maremma non cred’io che tante n’abbia
Quante bisce egli avea su per la groppa,
infin dove comincia nostra labbia.
Sopra le spalle, dietro dalla coppa,
con l’ali aperte gli giacea un draco;
e quello affoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
che sotto il sasso di monte Aventino
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furor frodolente che fece
del grande armento ch’egli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercole che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece.”

Inferno, canto XXV versi 16-33

lunedì 14 luglio 2008

Le donne dei comics - Batgirl

Quello delle bat-amazzoni è un gruppo che riconosce molti elementi, alcuni più carismatici, altri più di contorno. Ma sono comunque personaggi interessanti. In un mondo solare e positivo come quello in cui si inserisce la vita di Superman, tanto per fare l’esempio più classico, è più facile che i personaggi femminili siano solo un di più, un ornamento alle avventure del supereroe. E, sebbene Lois Lane abbia degli aspetti interessanti, bisogna ammettere che gran parte del suo ruolo consiste nell’affiancare Clark Kent nella sua vita privata e lavorativa. Allo stesso modo, non mi tornano alla memoria personaggi femminili del mondo dell’uomo d’acciaio degni di nota, se non quelli che fanno anche parte di altri gruppi, come Powergirl nella Società della Giustizia d’America o Wonder Woman nella Lega della Giustizia d’America. A mio parere, questo succede perché le donne, nelle storie di Superman, non trovano grande spazio, e quindi non vengono caratterizzate come dei bei personaggi.

Discorso diverso vale per l’universo di Batman. Questo è un luogo oscuro e tenebroso, che fisicamente si individua in Gotham city, ma che in realtà è un concetto più esteso. Quello in cui vive Batman è una sorta di condizione umana, molto particolare, ma sostanzialmente opprimente. Atmosfere tetre, sentimenti malvagi, scontri spietati. La paura è il concetto preponderante, e non a caso questa è la vera e più potente arma di cui dispone l’uomo pipistrello. Insinuare il terrore nell’animo dei criminali è sempre stato il suo obiettivo primario, forse ancora più importante che fermarli fisicamente. Tra l’altro, è un mondo in cui la dimensione dei personaggi è sostanzialmente umana, anche se alcuni di essi hanno superpoteri. Per chiarire il concetto, Superman affronta supercriminali indistruttibili e sovrumani tanto quanto lui, a colpi di soffio congelante e vista calorifica, oltre che con la sua forza incommensurabile. Batman invece, sebbene sia agilissimo, molto forte, esperto in tutte le tecniche di combattimento, uno stratega sopraffino e il miglior detective del mondo, rimane pur sempre un umano. È una letale macchina da combattimento, che potrebbe uccidere decine di avversari in pochi secondi usando una sola mano, e non ha problemi a lanciarsi da grattacieli di centinaia di piani, ma di fatto, suda, sanguina e si frattura le ossa. I proiettili non gli rimbalzano addosso, non può volare, non può sollevare montagne. Insomma, ha dei limiti. E così anche la maggior parte dei personaggi che popolano il suo mondo, sia gli aiutanti che gli avversari.

Ed eccoci al punto: per emergere in questo mondo, un personaggio femminile deve avere una personalità e un carisma che altre non hanno perché non è per loro necessario. In questo senso, Batgirl è un bel personaggio. Così come per Robin, non è una sola la donna che ha vestito i panni della spalla femminile del cavaliere oscuro, ma senza dubbio la prima ha lasciato un segno indelebile. Barbara Gordon era brava. Forse spinta dal desiderio di eguagliare la sua controparte maschile, quel Dick Grayson che per anni era stato l’unico aiutante di Batman e suo indiscusso pupillo, Barbara non perdeva mai un’occasione per migliorarsi, sia nelle sue doti fisiche che in quelle mentali. Astuta e agile, ma anche forte e senza scrupoli, era perfetta per ricoprire il ruolo di Batgirl, soprattutto al fianco di quel Robin verso il quale nutriva ben più che una stima amichevole. Sotto lo sguardo severo del pipistrello, Barbara cresceva nel suo ruolo, sia come Batgirl che come donna. Ma il destino aveva altri piani per lei, manifestandosi nella mente perversa di Alan Moore. In una storia memorabile (“The killing Joke”), un proiettile sparato dal Joker le toglie per sempre l’uso delle gambe. Batgirl non esiste più, adesso c’è solo Barbara, paralizzata su una sedia a rotelle. Un’altra avrebbe mollato. Non era facile sopportare lo sguardo pietoso di Dick o quello grondante vendetta di Batman. Ma, come ho detto, a Gotham non c’è posto per le sciacquette con un bel sederino da agitare e nient’altro. Non sarebbe stata una vera Batgirl se non avesse saputo reagire anche a questo evento con la forza che solo i membri della famiglia del pipistrello riescono a trovare. Batgirl non era morta per lasciare un posto vacante, Batgirl era morta per far nascere Oracolo. Con la tecnologia che le mette a disposizione Bruce, Barbara diviene la mente pensante della macchina della giustizia di Gotham, raccogliendo e catalogando informazioni, gestendo le comunicazioni tra i singoli elementi, organizzando le operazioni nelle situazioni di crisi. Ne è un esempio il ciclo di storie “Giochi di guerra”, in cui dà prova di grande freddezza in situazioni che anche Batman ha difficoltà a gestire. Ecco perché la vera Batgirl è comunque Barbara Gordon. Cassandra Cain, la sua sostituta, ha anche lei degli aspetti interessanti, ma a mio parere non è all’altezza di chi l’ha preceduta, sebbene sia molto meglio di tante altre bamboline che agitano i fianchi nel mondo dei fumetti. Per i veri appassionati del mondo del pipistrello, quindi, Batgirl è e sarà sempre Barbara. Perché è un ruolo che si è conquistata, senza regali o sconti da parte di nessuno, a cominciare dal suo maestro, che non dismette mai il mantello della paura, neanche con i suoi alleati.

In memoria 52 - Vanni Fucci

Quando si leva, che intorno si mira
tutto smarrito dalla grande angoscia
ch’egli ha sofferta, e guardando sospira;
tal era il peccator levato poscia.
O potenza di Dio, quanto severa!
Chè cotai colpi per vendetta croscia.
Lo duca il dimandò poi chi elli era:
per ch’ei rispose: “Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’io fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.”
E io al duca: “Digli che non mucci,
e dimanda qual colpa quaggiù il pinse;
ch’io lo vidi uom di sangue e di crucci.”
E il peccator, che intese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e il volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: “Più mi duol che tu mi hai colto
nella miseria dove tu mi vedi,
che quando fui dell’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi:
in giù son messo tanto, perch’io fui
ladro alla sacrestia de’ belli arredi;
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma, perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor de’ lochi bui,
apri gli orecchi al mio annunzio, e odi:
Pistoia in pria di Negri si dimagra,
poi Fiorenza rimuove genti e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetuosa ed agra
sopra campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì c’ogni Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ho perché doler ti debbia!”

Inferno, canto XXIV versi 115-151

giovedì 10 luglio 2008

Gli interessi in comune

Faceva un caldo micidiale, quel giorno, per essere inizio giugno. Ero reduce da un’ora buona di coda alla posta centrale per pagare una bolletta scaduta da tre giorni, ero dovuto andare al bancomat a prendere i soldi, poi tornare un po’ indietro fino alla posta, e lì scoprire la fila che arrivava quasi alla porta d’ingresso. Tutto questo, cinque giorni prima di un esame, per cui una mattinata persa non era cosa da poco. Infastidito dalla snervante attesa e dal caldo torrido di quella mattina, avevo bisogno di rilassarmi un po’, e di godermi un po’ di fresco, e il luogo ideale per fare entrambe le cose era la libreria. Tra l’altro avevo ritirato un po’ di soldi in più, quindi potevo anche permettermi un acquisto. Mi rigirai tutta la libreria da cima a fondo, non c’era quasi nessuno, il che per me è sempre un grosso vantaggio in un negozio. Infatti, la direttrice era in vena di chiacchiere, e attaccava bottone con tutti, ma senza infastidire. Quando mi vide in mano questo libro, mi disse “Sa che ospiteremo questo autore, qui da noi?”. Mi fece molto piacere saperlo, conto di andarci, quando succederà. È bello vedere che dei giovani autori hanno anche loro un po’ di attenzione, secondo me è un buon mezzo di incoraggiamento. Vanni Santoni compirà trent’anni nel 2008, non so quando di preciso, forse li ha già compiuti, poco importa. Quello che importa è che già a questa età pubblicha su una dozzina di testate giornalistiche, tra cui c’è la pagina fiorentina del Corriere della sera, con una sua rubrica quotidiana. Roba da poco, insomma.

“Gli interessi in comune” è un libro generazionale. In realtà, non rappresenta un’intera generazione, ma una fettina di una generazione, una piccola quota di individui che si distinguono per un particolare interesse. La generazione è quella degli adolescenti di metà anni Novanta, la fettina è quella dei tipi un po’ sbandati, seguiti per dieci anni della loro vita, l’interesse in comune è il sistematico, metodico, scientifico uso di ogni tipo di sostanza stupefacente. Però loro non sono i tossici, quelli sono quelli che ci restano, e nemmeno gli strafattoni o i ravettari. No, loro sono gli psiconauti. La loro non è dipendenza (?) ma desiderio, non tanto di farlo, ma di farlo sempre in modo diverso. E così eccoli lì, in una provincia toscana che più immobile non si può, dove il centro del mondo è il bar Miro, dove nessuno ha un vero nome, ma solo un soprannome, dove nel gruppo non c’è posto per le ragazze, la scuola, il lavoro, la famiglia, l’università. Nel gruppo ci sono solo le sostanze. Si esce per provarle, si va alle feste per provarle, si conosce gente per provarle. E quando lo scenario si allarga, è sempre e solo per quelle. A Firenze per trovare altra roba, a Pistoia per un rave all’insegna delle paste, perfino in Europa, ad Amsterdam, dove c’è solo l’imbarazzo della scelta. E così, gli antieroi di Santoni crescono solo anagraficamente, ma rimangono sempre adolescenti, che vogliono scappare ma che non ci riescono e rimangono, anche quelli che si allontanano alla fine ritornano, sempre in cerca di quell’unico, solito, interesse in comune.

Un romanzo interessante, questo, soprattutto per il suo studio delle dinamiche del gruppo, e dei rapporti tra questo e il resto del mondo. Forse, se un difetto gli si deve proprio trovare, è quello di essere un po’ troppo calato nell’ambiente giovanile, tanto che credo non potrebbe piacere molto ad un adulto. Raramente, infatti, fanno capolino la famiglia, il lavoro, le responsabilità, che nelle storie dei ragazzi sono praticamente assenti. A mio parere, proprio questa potrebbe essere vista come un’operazione letteraria di alto livello,: Santoni decontestualizza i suoi eroi, li trasforma in sagome di carta ritagliate dal loro foglio e messe insieme a comporre un teatrino tutto loro. E in questo modo, quelle presenze evanescenti, come la preoccupazione di una madre, acquistano molto più vigore in quei brevissimi frammenti in cui compaiono di quanto non farebbero se fossero protagoniste insieme alle storie dei ragazzi e dei loro abusi.

“Vai a prendere un caffé?” chiede il Malpa, quasi mimando l’idea di accompagnarlo.
“No. Vado via.”
“Via dove? Ma vien via!”
“Vado a casa.”
A quel punto anche Sandrone si scuote. “Ma dai, Mella! Tra qualche ora, appena ci riprendiamo, partiamo pure noi!”
“No. Vado via ora.”
È irremovibile. Per un attimo il Paride, il Malpa e Sandrone si rendono conto di avere di fronte un perfetto sconosciuto, una persona finita insieme a loro solo per un interesse in comune.
Il gruppo, col Mella, aveva condiviso tanto, e allo stesso tempo nulla. Al Paride viene in mente una frase storica dello stesso Mella e gli scappa un sorriso.
“Dicono che dalle droghe leggere si passa a quelle pesanti... Nel mio caso è vero, ma io volevo fin dall’inizio arrivare a quelle pesanti... è che mi è toccato passare da quelle leggere!”

In memoria 51 - Ladri

Noi discendemmo il ponte dalla testa,
dove s’aggiunge con l’ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta;
e vidivi entro temibile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena,
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
[...]
Tra questa cruda e tristissima copia
correvan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia.
Con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ‘l capo, ed eran dinanzi aggrappate.
Ed ecco ad un, ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente, che ‘l trafisse
là dove ‘l collo alle spalle s’annoda.
Né ‘o’ sì tosto mai, né ‘i’ si scrisse,
com’el s’accese ed arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per se stessa,
e in quel medesimo ritornò di brutto.

Inferno, canto XXIV versi 79-84 e 91-105

lunedì 7 luglio 2008

Confini

Nel meme mandatomi da Veronica, dicevo che non avevo voglia di spiegare, uno per uno, i motivi delle mie quattro scelte, e mi ripromettevo di riparlarne in seguito. Voglio parlare adesso del personaggio del telefilm, la dottoressa Meredith Grey, protagonista di “Grey’s anatomy”, interpretata magistralmente da Ellen Pompeo. Un’altra serie sui medici, direte voi, non se ne può più, si è perso il conto! In effetti è un po’ così, ma questa devo dire che si merita un secondo posto di tutto rispetto nella mia personale classifica di gradimento, dietro l’invincibile “Scrubs” e davanti al “Dr. House” che nelle ultime due stagioni ha perso parecchi punti. “Grey’s anatomy” è molto incentrato sulle vicende personali dei protagonisti, prima tra tutte Meredith, piuttosto che sulla medicina vera e propria. Questa è più che altro un sottofondo, e spesso un pretesto per fare delle riflessioni e trarre degli insegnamenti. Inoltre, è carino il fatto che i protagonisti siano specializzandi alle prime armi, che si confrontano per la prima volta con una realtà molto più grande di loro.

Ma parliamo di Meredith. Contrariamente ad altre serie televisive, la protagonista non è l’unica a interpretare il ruolo di bella della situazione, anzi. A contenderle questo primato, da un punto di vista strettamente estetico, ci sono due pezzi da novanta del calibro di Kate Walsh e Katherine Heigl. Tempo fa parlavo con una ragazza di questo argomento, e lei sosteneva che Meredith delle tre era proprio la meno interessante. “È scipita”, mi ha detto, usando un termine che di solito si usa per indicare una pietanza poco saporita. E a onor del vero va detto che le altre due sono molto più appariscenti. In effetti, non mi hanno mai attirato le donne troppo appariscenti. E nemmeno quelle troppo esuberanti. A me piacciono le figure semplici, magari quelle con qualche piccolo difetto, o comunque... non so come dirlo in maniera precisa... la parola migliore che mi viene è ‘piccoline’. Niente tette enormi, niente labbra carnose, niente fianchi larghi. Il mio ideale di ragazza, dal punto di vista dell’aspetto, è proprio lei.

Ma non è certo questo, da solo, che può far nascere un interesse. È il carattere, il modo di pensare, l’intimità di una Meredith Grey che mi attirano da morire. Anche adesso, non so se riuscirò a spiegarmi bene, e proprio per questo alla fine ho inserito questo breve filmato. Come dice lei stessa in una puntata della seconda stagione, rivolta ad un ragazzo, “Se fossi in te, io proprio... mi eviterei”. Avete presente il personaggio sempre allegro e sorridente, che non si scoraggia mai, che affronta tutto nella maniera migliore? Ecco, Meredith è tutta l’opposto. Incasinata da morire nella vita familiare, non le riesce di trovare pace nemmeno nei rapporti con i suoi amici e colleghi, con i quali spesso sorgono contrasti e incomprensioni. Tra l’altro, si incasina ancora di più la vita andando a letto prima, e innamorandosi poi, di uno dei suoi capi in ospedale. Lei ci prova ad evitare i guai, ma molto spesso non ci riesce. Quindi, fino a qui, può sembrare un personaggio nichilista, cupo e triste, incapace di rapporti sociali sani. Come si può essere attratti da qualcuno fatto in questo modo? E poi, ecco la magia. Meredith ha una incredibile capacità, che io adoro: riesce a tirare fuori il meglio da tutto e da tutti. A volte basta un attimo, altre volte ci vuole tempo, ma alla fine, tutti le vogliono bene perché lei trova il buono in tutti. La giornata può andare male fino all’inverosimile, ma se a casa ci sono due amici e un barattolo di gelato, ecco che ritorna il sorriso. E qui veniamo al filmato qui sotto. È lo spezzone finale del secondo episodio della prima stagione, e mi capita spesso di rivederlo, perché mi era piaciuto talmente tanto la prima volta che ho voluto isolarlo per assaporarlo per bene fino in fondo. In questo frammento, forse più che in altri, Meredith dà prova di quella qualità di cui dicevo. Alla fine di una giornata pesante in ospedale, Meredith si accorge che nella vita ci si trova di fronte a dei limiti, come delle linee invisibili tra le quali dobbiamo districarci. Questi limiti esistono per un motivo, ma qual è questo motivo? Spingerci a rispettarli, imparando a fare delle scelte, o piuttosto tentarci a oltrepassarli? Ci sono dei rischi in questi due diversi modi di fare? E che cosa si ottiene nell’uno e nell’altro caso? La risposta di Meredith la trovate qui sotto, ed è proprio quest’ultima frase che mi farebbe innamorare di lei, se esistesse realmente.

In memoria 50 - L'oscurità dei gironi

Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscio dall’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sopra il dosso
fossi dell’arco che già varca quivi;
ma chi parlava, ad ira parea mosso.
Io era volto in giù, ma gli occhi vivi
non poteano ire al fondo per l’oscuro;
per ch’io: “Maestro, fa’ che tu arrivi
dall’altro ciglio, e dismontiam lo muro;
chè, com’i’ odo quinci, e non intendo,
così giù veggio e niente raffiguro.”
“Altra risposta” disse “non ti rendo,
se non lo far; chè la dimanda onesta
si dee seguir con l’opera tacendo.”


Inferno, canto XXIV versi 64-78

sabato 5 luglio 2008

Il fascino del male - Poison Ivy

Bella. E folle. Non ci sono altre parole per descriverla. O meglio, ci sono, ma tutte rimandano a questi due concetti cardine. Sensuale. Accattivante. Instabile. Sociopatica. E potrei continuare. Mai titolo fu più azzeccato. Se i precedenti personaggi della galleria dell’Arkham asylum affascinavano per il loro lato oscuro, Poison Ivy lo fa anche con il suo aspetto. Non è un caso se in un’antologia di dodici volumi, ognuno dedicato ad un personaggio criminale del mondo di Batman, è l’unica donna che si è meritata un posto. Qualcuno obietterà che anche altre donne sarebbero degnissime di ricoprire questo ruolo, come Catwoman, o Thalia al Ghul, o Lady Shiva. Eppure, secondo me, nessuna incarna il lato bello del male come Ivy.

Pamela Isley è una brillante botanica, dedita alla cura e alla salvaguardia delle specie vegetali, di cui è profonda conoscitrice. In seguito ad un incidente (nel più classico stile dei criminali dei fumetti), viene a contatto con delle sostanze chimiche che alterano la sua fisiologia, rendendola praticamente un ibrido tra uomo e pianta. Il suo corpo è in grado di produrre e rilasciare sostanze chimiche dalle più svariate proprietà, che nella maggior parte dei casi utilizza per manipolare o uccidere uomini. Anche Ivy, come molti altri criminali, ha attraversato diverse fasi evolutive nella cronologia delle sue storie, passando da semplice ladruncola che controlla le piante, a paladina senza scrupoli della difesa delle specie vegetali.

Un elemento però è rimasto costante: l’irresistibile fascino che esercita sugli uomini. È ovvio che, con un personaggio del genere, il rischio di cadere in un’accozzaglia di luoghi comuni è grande. In fondo, Ivy va in giro con un costumino che la copre appena, fatto di foglie di edera, e che lascia ben poco all’immaginazione, si muove sinuosamente, ha uno sguardo accattivante, e quando scuote la sua lunga chioma di capelli rossi non lascia scampo a chiunque abbia davanti. Se ci aggiungiamo che la sua arma preferita è il bacio, ecco che tutto sembra ricondurla ad uno stereotipo di bambolina tutta curve e con poco cervello, inventata solo per abbellire le storie a fumetti ed eccitare la fantasia dei ragazzini. A mio modo di vedere, c’è di più in Pamela Isley. Molto dipende anche dagli sceneggiatori, è chiaro, ma credo che ormai chiunque sia chiamato a scrivere una storia di Batman in cui compaia Poison Ivy si prenda il giusto tempo per non banalizzarla. Perché Ivy è una di quelle con cui non puoi sbagliare, non ti puoi permettere di scrivere una brutta storia che la riguarda, altrimenti verresti guardato in cagnesco da tutti i suoi fan, che non sono pochi.

Per quanto tutte le storie raccolte nel volume siano belle, una in particolare colpisce il lettore, e guarda caso è l’unica scritta da una donna. Ann Nocenti ha il merito di entrare in perfetta sintonia con il personaggio, tirandone fuori un aspetto molto interessante e in certi tratti poetico. Mi riferisco alla necessità di Ivy di godere della luce del sole. Rinchiusa in una cella di Arkham, la sua sola consolazione è allevare le sue creature vegetali in quel minimo spiraglio di luce che filtra attraverso le sbarre di quell’unica finestra. Quando anche quella piccola gioia le viene portata via, impazzisce. Ma questa volta non è lei in prima persona a commettere i delitti, a vendicarsi di quel sopruso che le è stato inferto. Un uomo, il suo psichiatra, stregato dal suo fascino, crede che se si fosse eretto a paladino della sua causa, avrebbe potuto ottenere la sua gratitudine in forma, diciamo così, tangibile. Ma Poison Ivy non è una donna che ha bisogno di paladini. È perfettamente in grado di ottenere da sola ciò che vuole. Con ogni mezzo. Ed è con una punta di rammarico che ogni volta Batman la riporta nelle celle di Arkham, perché ogni volta sa che quello che vuole non è sbagliato, è sbagliato il modo con cui lo vuole. Perché in fondo, sotto quel nero mantello e quel cappuccio, anche se il suo cuore è quello di un pipistrello, non può non sentire un battito molto umano pulsargli nel petto ogni volta che la vede.

In memoria 49 - L'esortazione di Virgilio

“Omai convien che tu così ti spoltre,”
disse il maestro; “chè, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere ed in acqua la schiuma.
E però leva su! Vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogni battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia!
Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costor esser partito:
se tu m’intendi, or fa’ sì che ti vaglia.”

Inferno, canto XXIV versi 46-57

mercoledì 2 luglio 2008

Meme amoroso cine-letterario

Questo è il secondo meme a cui Veronica mi invita a partecipare e lo faccio con piacere, ma stavolta voglio ampliarlo un tantino. L'originale consiste nell'indicare di quale personaggio di un libro e di un film ci si innamorerebbe se lo si conoscesse. Mi piace estendere questo concetto a due altri generi strettamente corrrelati a questi, vale a dire il fumetto e i telefilm. Chi volesse partecipare, oltre gli invitati dal sottoscritto, è liberissimo di farlo, e leggerò le vostre risposte con piacere. Detto questo...



Personaggio di un libro: Giulia, protagonista di "Io sono di legno" di Giulia Carcasi.

Personaggio di un film: Raimunda, protagonista di "Volver" di Pedro Almodòvar.

Personaggio di un fumetto: Barbara Gordon - Batgirl/Oracolo creata da Gardner Fox e Carmine Infantino.

Personaggio di un telefilm: Meredith, protagonista di "Grey's anatomy" creato da Shonda Rhimes.

Come vedete, stavolta non mi dilungo in spiegazioni sofisticate del perchè mi innamorerei di queste quattro donne. Ognuna ha una sua ragione, naturalmente, ma non la dirò qui. Se capiterà, ne parlerò in futuro. E per finire, invito a partecipare Valentina, Alice, Fra e Angela. Ma chiunque volesse partecipare, come dicevo sopra, è il benvenuto.

In memoria 48 - Caiafas

Io cominciai: “O frati, i vostri mali...”
Ma più non dissi, chè all’occhio mi corse
un, crocifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando nella barba co’ sospiri:
e il frate Catalan, che a ciò s’accorse,
mi disse: “Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei, che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martiri.
Attraversato e nudo è nella via,
come tu vedi, ed è mestier ch’ei senta
qualunque passa, com’e’ pesa, pria.
E a tal modo il suocero si stenta
in questa fossa, e gli altri dal concilio
che fu per gli Giudei mala sementa.”

Inferno, canto XXIII versi 109-123