Ho letto “Non ti muovere” per sbaglio, come mi succede con la maggior parte dei libri. Non avevo idea di chi fosse l’autrice, né che di lì a poco sarebbe diventato un best seller, che ci avrebbero fatto un film. Ma mi era piaciuto molto, non solo la storia, ma il modo in cui era narrata. Era la prima volta che leggevo un libro in cui l’io narrante è un uomo ma l’autore una donna, cosa che mi sembrò molto particolare. Quando, nelle ultima vacanze di natale, mi sono accorto in libreria che era uscito un nuovo libro di Margaret Mazzantini, ho deciso subito di comprarlo, anche se avrebbe aspettato parecchio prima di essere letto. Qualche giorno fa ho visto che adesso ne fanno anche la pubblicità in televisione.
“Venuto al mondo” è un libro che parla di molte cose. Di pace e di guerra. Di Italia e di Bosnia. Di amore e di violenza. Di vita e di morte. Si potrebbero isolare molti motivi narrativi nella storia, che però resta una e indivisibile, perché proprio come ogni momento della vita di una persona contribuisce a renderla quello che è, così ogni pagina di questa storia ha reso Gemma, Diego e Gojko quello che sono. Ma il vero protagonista è Pietro, per quanto lui stesso sia inconsapevole di ciò, di quanto e di come la sua vita abbia condizionato quella degli altri. È lui quello che è venuto al mondo, come tutti i bambini del mondo, del resto, ma con una storia diversa. Una storia che sua madre ripercorre per noi in un viaggio nella Bosnia martoriata dalla guerra civile. Un viaggio nello spazio, da Roma a Sarajevo, accompagnato da uno nel tempo, nei ricordi di una donna che tutto avrebbe pensato nella vita tranne che di finire in un luogo simile e soprattutto in una situazione simile. Ogni personaggio, ogni persona è descritta con una nitidezza che la rende reale, sentiamo l’odore, il colore, la voce che si liberano da quei corpi fatti di carta, di parole. Sentiamo il sangue. Sentiamo il dolore. Sentiamo la paura. La paura per un mondo che troppo spesso percepiamo come troppo lontano da noi, come troppo estraneo per poterlo comprendere. Un odio e un male da cui forse è meglio tenersi il più possibile alla larga, perché è troppo facile da imparare e troppo difficile da dimenticare. Per fortuna, c’è una speranza, e questa speranza sta nelle cose che... crescono.
Sebina si spense all’alba, la scarpa le sopravvisse qualche ora.
“E dopo sono andato”.
Era andato a combattere prima a Dobrinja, poi sullo Zuc. Era un poeta, un venditore ambulante, un radioamatore, una guida per turisti, uno stupido che non aveva mai tirato nemmeno a un piccione. Invece imparò subito, perché l’odio si impara in una notte.
Mesi nel fango, la schiena carica del suo rotolo di cartucce.
“Ma potevo combattere anche con il coltello, o a mani nude...”
Si ferma. Incendiarono anche un villaggio. Contadini serbi, civili che non avevano fatto male a nessuno. Lui non partecipò. Però non disse niente. rimase su un cocuzzolo a fumare.
“Venuto al mondo” è un libro che parla di molte cose. Di pace e di guerra. Di Italia e di Bosnia. Di amore e di violenza. Di vita e di morte. Si potrebbero isolare molti motivi narrativi nella storia, che però resta una e indivisibile, perché proprio come ogni momento della vita di una persona contribuisce a renderla quello che è, così ogni pagina di questa storia ha reso Gemma, Diego e Gojko quello che sono. Ma il vero protagonista è Pietro, per quanto lui stesso sia inconsapevole di ciò, di quanto e di come la sua vita abbia condizionato quella degli altri. È lui quello che è venuto al mondo, come tutti i bambini del mondo, del resto, ma con una storia diversa. Una storia che sua madre ripercorre per noi in un viaggio nella Bosnia martoriata dalla guerra civile. Un viaggio nello spazio, da Roma a Sarajevo, accompagnato da uno nel tempo, nei ricordi di una donna che tutto avrebbe pensato nella vita tranne che di finire in un luogo simile e soprattutto in una situazione simile. Ogni personaggio, ogni persona è descritta con una nitidezza che la rende reale, sentiamo l’odore, il colore, la voce che si liberano da quei corpi fatti di carta, di parole. Sentiamo il sangue. Sentiamo il dolore. Sentiamo la paura. La paura per un mondo che troppo spesso percepiamo come troppo lontano da noi, come troppo estraneo per poterlo comprendere. Un odio e un male da cui forse è meglio tenersi il più possibile alla larga, perché è troppo facile da imparare e troppo difficile da dimenticare. Per fortuna, c’è una speranza, e questa speranza sta nelle cose che... crescono.
Sebina si spense all’alba, la scarpa le sopravvisse qualche ora.
“E dopo sono andato”.
Era andato a combattere prima a Dobrinja, poi sullo Zuc. Era un poeta, un venditore ambulante, un radioamatore, una guida per turisti, uno stupido che non aveva mai tirato nemmeno a un piccione. Invece imparò subito, perché l’odio si impara in una notte.
Mesi nel fango, la schiena carica del suo rotolo di cartucce.
“Ma potevo combattere anche con il coltello, o a mani nude...”
Si ferma. Incendiarono anche un villaggio. Contadini serbi, civili che non avevano fatto male a nessuno. Lui non partecipò. Però non disse niente. rimase su un cocuzzolo a fumare.