giovedì 29 novembre 2007

The Maxx - Si fa presto a dire 'Supereroi'

È capitato spesso di parlarne con degli amici che, oltre ad essere colpevoli della inconsistenza delle mie finanze, sono anche appassionati di fumetti (sarà per questo che li vendono. Quasi tutti a me, tra l’altro…). Che cosa rimane, oggi, dei cari, buoni, vecchi supereroi? In effetti, siamo un po’ tutti costretti ad assistere ad un costante declino delle produzioni di questi personaggi, sempre più invischiati in maxi-saghe complicatissime, in cui decine e decine di personaggi, sia ‘buoni’ che ‘cattivi’, fanno la loro comparsa, spesso solo per una manciata di vignette, quasi che il filo guida di tutto sia un banale “più siamo, meglio stiamo”. Anche solo da un punto di vista pratico e materiale, queste operazioni non funzionano: i lettori occasionali non possono appassionarsi ad una storia che non capiscono per mancanza di un adeguato bagaglio di nozioni, i collezionisti sono costretti ad acquistare decine di albi in più per avere la saga completa, i venditori devono barcamenarsi tra titoli, sottotitoli e speciali talvolta di non facile individuazione, anche per gli addetti ai lavori. Come esempi di questo discorso iniziale (e per fare onore a quella par condicio che qualcuno vorrebbe abolita perché “illiberale”!) cito le ultime nate nelle due più grosse case editrici americane: “Guerra civile” per la Marvel, e “Crisi infinita” per la DC. Entrambe esprimono perfettamente quanto ho detto finora. Anzi, ad essere sincero, forse delude più la seconda che la prima. Se infatti Guerra civile era contraddistinta fin dall’inizio dalla pochezza della storia e da una serie di incongruenze logiche, culminate in un finale su cui non voglio fare commenti, Crisi infinita aveva tutte le premesse per svilupparsi in modo interessante. Purtroppo però si è persa in una miriade di sottotrame a volte oscure, situazioni complicate e personaggi a mai finire, tanto che anche il lettore più ostinato non poteva non desiderare la fine dell’albo per riposare gli occhi e la mente.

Che cosa salvare, quindi, dei supereroi di oggi? Chi far emergere dal mucchio, chi consigliare agli amici o ai neofiti? Indubbiamente, quelle due o tre produzioni che guardano alla figura del supereroe in modo veramente innovativo e dinamico. Una di queste è certamente “The Maxx”, di Sam Kieth.
Come lui stesso ebbe a scrivere nel 2003, in occasione della raccolta in volume delle prime storie, a dieci anni dalla loro pubblicazione, “Alcuni lo comprarono durante il boom della Image e furono delusi o sollevati nello scoprire che Maxx aveva ben poco a che fare con gli albi di supereroi”. Un po’ di storia.


Maxx è un barbone senza tetto, che vive in uno scatolone di cartone, e che gode spesso dell’aiuto e forse anche dell’amicizia di Julie, assistente sociale, eccentrica e piena di complessi. Ma, da un’altra parte, Maxx è un supereroe, uno di quelli veri, che salva la sua bella, Julie, cattura i criminali e vive avventure straordinarie. Fin qui tutto già visto (scatolone a parte). Solo che questo posto, l’Outback, è nella sua mente. Ed ecco che, con un semplice espediente, Sam Kieth ci conduce per mano in un caleidoscopio onirico, psicologico, allucinato, psichedelico, fantastico. Un caleidoscopio creato dalle fantastiche immagini che si armonizzano perfettamente ai dialoghi e alla storia in generale.

Ma se si riesce a non perdere la lucidità, a non farsi trascinare da quei tratti pastosi, a guardare alla vicenda nel suo insieme, si può scorgere il tema centrale della storia: la crescita. O meglio, la paura della crescita. In fondo, i personaggi non fanno altro che compiangersi, parlare da soli ad alta voce, pensare che tutto quello che accade loro sia molto importante. Stronzate adolescenziali (parole di Sam Kieth). Ma utili a farci capire che tutto quello che accade in quegli anni è davvero importante, e per questo i personaggi rimangono imprigionati in una eterna adolescenza. Così, Julie, piuttosto che dedicarsi al suo lavoro e ai problemi concreti della vita, preferisce idealizzare Maxx trasformandolo in un cucciolo bisognoso d’affetto, un principe azzurro, un fidanzato, tutto in una sola persona. Maxx, dal canto suo, non fa altro che rimuginare sui suoi deliri e allucinazioni di avventure fantastiche e principesse/padroncine da salvare (Julie), piuttosto che volgere lo sguardo alla realtà che lo circonda. E a chi è affidato il compito di mostrare a Maxx la dura realtà, a distoglierlo dai suoi sogni? A mr. Gone, guarda caso il cattivo della situazione, l’arcinemico, la nemesi di Maxx. Perché forse sarebbe più bello poter vivere per sempre in un mondo di sogni, di desideri esauditi, di illusioni. Quindi chi fa il cattivo cerca di riportarci alla realtà. Come ho letto da qualche parte parecchio tempo fa, “Il nostro mondo vive di sogni. E sta morendo di realtà”.

Purtroppo però, crescere non è solo un dovere, è anche un passo importante e necessario. Chi si trova a confrontarsi da poco con le responsabilità di ‘essere grande’, forse preferirebbe tornare indietro di qualche anno, quando gli unici pensieri erano giocare a pallone e guardare i cartoni. Però quello che si guadagna a scoprire i primi capelli bianchi, quando ci si guarda allo specchio, è la maturità per apprezzare cose come il vero amore o la vera amicizia, per prendere decisioni importanti e a volte gravi, per affrontare le conseguenze di queste decisioni. Onestamente, credo che pochi di quelli che lo dicono vorrebbero veramente tornare indietro.

lunedì 26 novembre 2007

Io sono di legno

Luglio faceva sentire grandemente tutta la sua potenza di mese estivo, e io ero chino sui libri a studiare, mentre le polvere si accumulava sulle mie mensole, sui miei fumetti e sui miei libri, sprofondando la casa in una trasandatezza che non aveva mai conosciuto. Ma finalmente venne il 13, sostenni l’esame, e andò bene. A prescindere dal risultato, mi ero ripromesso che durante le vacanze estive (farei meglio a chiamarle ferie) avrei recuperato le letture arretrate, e per questo il mio bagaglio, al ritorno verso Cefalù, consisteva esclusivamente in vestiti sporchi, fumetti e libri.
“Io sono di legno” faceva parte del gruppo di questi ultimi. Comprato insieme ad altri due libri, più che altro perché il prezzo coincideva con quello che mi rimaneva da spendere, l’avevo mentalmente etichettato come un romanzetto buono per passare il tempo, senza troppe pretese. Mi sono dovuto ricredere. L’ho cominciato per noia, in un pomeriggio talmente afoso che anche prendere la macchina per andare a mare era una scocciatura. Senza che me ne rendessi conto, attorno a me si era fatto il crepuscolo, i miei occhi cominciavano a stancarsi per il buio imminente, ed ero arrivato a metà libro. Tutto attorno a me era cambiato: animaletti che si muovevano per la campagna, insetti che martoriavano l’aria con il loro canto stridulo, perfino l’hibiscus giallo che si vede dal terrazzino in cui ero seduto aveva deciso che era arrivata l’ora di socchiudere i suoi fiori. E io avevo ancora appiccicate sulle labbra quelle parole scritte che non volevano saperne di staccarsi. Mi è bastata la sera per finirlo, neanche dodici ore per centoquaranta pagine. Chissà se Giulia Carcasi (non chiedetemi dove sta l’accento, perché non ne ho la minima idea) è consapevole che c’è un suo lettore così entusiasta del suo romanzo. Giulia Carcasi, classe 1984, studentessa romana di medicina: una collega, una coetanea (due anni meno di me), eppure lei ce l’ha fatta. Ha scritto un romanzo, e l’hanno pubblicato, ne ha scritto un altro, e l’hanno pubblicato. Meritatamente, devo ammettere, con una punta di invidia. E non uno qualunque, ma Giangiacomo Feltrinelli, o chi propaga il di lui nome. Vorrà pur dire qualcosa, no?

“Io sono di legno” è un dialogo, o meglio, è due monologhi che procedono paralleli, e tuttavia si parlano uno all’altro. Il primo è Giulia: madre, x, moglie, medico, amica, sorella, figlia. L’ordine non è casuale, è lei stessa che lo ripercorre, raccontando la sua vita in una famiglia con una madre che non vuole liti, con una sorella che non vuole scandali, con una identità ancora da rivelarsi. L’amica è una suora peruviana, che di Dio sa poco, dell’amore ancora meno, ma del secondo è molto curiosa, del primo per nulla. Giulia percorre i viali di un lavoro misogino, in cui una donna deve nascondere di esserlo per dimostrare il suo valore, di un matrimonio insidioso, con il suo primario, di una maternità desiderata, spasimata, sofferta e solo molto tardi raggiunta. Quella ‘x’ non è casuale, c’è un’altra parola nell’elenco, ma non l’ho inserita apposta: deve essere Giulia a raccontare quella parola che la riguarda, con la sua voce, a chi vorrà leggere, non io con la mia.
Il secondo monologo, la seconda voce, è Mia. Figlia di Giulia, piena crisi adolescenziale, non le si può parlare, non le si può chiedere niente, risponderà ringhiando, mordendo, schizzando veleno. Mia, incazzata col mondo, con sua madre, con i ragazzi. Mia, cinica, anaffettiva, egoista come il suo nome, che le ha messo sua madre, che non le piace, che vorrebbe cambiare, anche se non lo ammetterà mai che vorrebbe essere ‘Tua’. Mia, che scrive di sé e della sua vita nel diario, e che è la causa dello scrivere di Giulia. Giulia scrive a Mia, perché lei non le parla. Legge il suo diario, perché lei non le parla. Le confida un segreto, sperando che non ne parli. Perché Mia ha i piedi strani, quei passi spericolati non tornano nell’equazione della sua famiglia. Quei passi vengono da qualcos’altro.
Senza mezzi termini, senza compromessi, senza moralismi, un romanzo che lascia molto poco spazio ai giri di parole, alle sfumature, alle interpretazioni. Un romanzo intenso, un romanzo nudo, che non ha bisogno di vestirsi, sta bene così com’è, come un albero non ha bisogno di coperte. Perché non solo Giulia, non solo Mia, ma anche il loro romanzo è di legno.

La verità è bicolore.
Non ci stanno tinte di mezzo, non ci stanno i compromessi del grigio, il carnevale del blu, del rosso e del giallo.
L’ho imparato quando ho messo a stendere le parole nere sul foglio bianco e la verità le ha asciugate.

Fathom

Mi è necessaria una precisazione, prima di parlare di quest’opera a fumetti. Necessaria perché non voglio rischiare un’accusa di plagio, necessaria perché rappresenta un minimo, anche se a mio modo di vedere giusto, sfogo. Necessaria perché tengo all’opinione di chi legge quello che scrivo in questo spazio.
Qualche anno fa iniziai una collaborazione con un sito (del quale preferisco non fare il nome), che partiva da una mia idea. Nelle mie allora frequenti scorribande tra le maglie della rete, mi ero imbattuto in questo sito, che si occupava principalmente di sovrannaturale, e nel quale pubblicavano i loro articoli anche persone esterne allo staff. Contattai il webmaster, e gli esposi la mia idea di una rubrica che parlasse di fumetti di argomento affine. Ne fu entusiasta, e molto disponibile, in un primo tempo, tanto che nel giro di qualche mese vidi pubblicati una presentazione, una pubblicità di vetrina e cinque articoli (tra l’altro, uno di questi mi costò molto impegno e fatica nella raccolta delle fonti bibliografiche e nella loro sintesi in circa quaranta pagine word). Purtroppo però, quando ebbi pronto un sesto articolo, la risposta al mio invio fu che adesso il sito aveva fondato una associazione privata, che solo gli iscritti potevano pubblicare, e che l’iscrizione comportava una spesa di quindici euro, un abbonamento alla rivista pubblicata dall’associazione, e una presenza annuale alle riunioni. Per questi motivi, decisi unilateralmente di non avere più nessun contatto con queste persone. Non ho idea di che fine abbia fatto il sito, ma i miei articoli vi erano pubblicati, e anche se comparivano con il mio nome, qualcuno potrebbe pensare ad un omonimo. Per questo, ci tengo a precisare che tutto quello che si legge su questo blog è frutto esclusivo del mio lavoro, della mia fantasia, della mia pazzia, e forse di qualcos’altro che mi porto appresso, ma certamente non del furto del lavoro altrui. E a scanso di equivoci, dato che mi ripropongo di recuperare questo materiale per successivi post, vi dico che gli articoli pubblicati riguardavano: “Fathom”, “The Coven”, “Soul saga”, “Jonathan Steele” e “Neon Genesis Evangelion”. Di questi, il primo lo leggerete, con qualche piccola modifica, qui di seguito, il secondo e il terzo sono di prossima pubblicazione, gli ultimi due non credo che li utilizzerò mai. Il sesto invio, di cui parlavo, è “Arrowsmith”, del quale avete già letto in questa sede. A questo punto, non mi resta che augurarvi…Buona immersione!

Fathom
Ad ogni essere umano è capitato almeno una volta di guardare in cielo e porsi la fatidica domanda: ‘Ma siamo davvero soli nell'universo?’. Alla ricerca di un'altra forma di vita intelligente (ponendo come prima quella umana, cosa tutt’altro che scontata) si sono dedicati molti uomini per molte generazioni. Chiunque di quelli che hanno scrutato l’universo ha sperato, almeno per un istante, di vedere a un certo punto materializzarsi davanti ai suoi occhi una creatura aliena, a bordo della sua astronave. La letteratura, la cinematografia e l'arte in generale hanno sin dalle loro prime forme dato sfogo e voce a questa curiosità connaturata nell'uomo, molto spesso esasperandola e facendo passare per banali eventi e situazioni che in realtà non lo sono. Una delle più grosse banalità, che solo negli ultimi anni è stata finalmente abbandonata, era quella che gli alieni venissero da Marte, da cui il termine marziani.

Qualche anno fa ho avuto occasione di leggere qualcosa di veramente interessante riguardo a questa tematica: gli alieni. Si diceva di come sia banale la concezione che gli alieni vengano da Marte. In “Fathom”, lo sceneggiatore e disegnatore Michael Turner porta l'attenzione su questo concetto e lo amplifica al punto da mostrare una banalità ancor più grande, e tuttavia più celata: perché gli alieni devono venire per forza dallo spazio? Con una sapiente operazione letteraria, l'autore porta a riflettere sul significato intrinseco della parola alieno, che etimologicamente deriva dal latino alius - alia - aliud, cioè ‘altro, estraneo, diverso’. Diverso da cosa? Ma naturalmente dalla natura intrinseca dell'osservatore, che è inevitabilmente un rappresentante del genere umano.
Ma torniamo alla domanda: perché per forza dallo spazio? Utile risulta, per spiegare il rivoluzionario punto di vista di Turner, citare le battute iniziali della sua opera:

“Terra. Strano nome per un pianeta la cui superficie è coperta per più di due terzi da oceani, laghi e fiumi. “Acqua” sarebbe stato più corretto. Le montagne più alte... le depressioni più profonde... la maggior parte delle specie di vita... dei pericoli... e dei misteri... sono tutti sotto la superficie. L’uomo ha sempre avuto foga di guardare le stelle per trovare risposte... o una guida... o il vero motivo per cui siamo su questo pianeta... e ha dimenticato di guardare nel luogo più ovvio... sotto i suoi piedi. Nel mondo sotterraneo.”


Già questo basta a far intuire al lettore che aprendo il primo albo di Fathom si trova alle prese con un’opera rivoluzionaria e innovativa. Ma, proprio per quella sinergia tra parole e disegni che si deve realizzare in un fumetto, solo guardando la sequenza delle tavole che ripercorre e integra quella delle didascalie ci si rende conto del valore intrinseco dell’opera.
Questo tuttavia è solo il primo di una serie di spunti interessantissimi che Turner ci mostra. Sempre riguardo al tema della diversità, egli ci spinge a riflettere su come questa vada sempre ricercata all’interno delle cose e non sulla loro superficie. Proprio per questo i suoi alieni hanno un aspetto esteriore assolutamente assimilabile a quello della specie umana, tanto assimilabile che la protagonista, ovviamente un’aliena, vive per circa tredici anni in mezzo agli umani senza rendersi conto della sua vera natura e senza che altri notino la differenza. Una razza aliena che quindi potrebbe perfettamente vivere in mezzo a noi.

Altro tema interessante è quello dell’evoluzione. Evidentemente, per essere alieni, questi esseri devono avere delle caratteristiche peculiari. Gli alieni di Turner vivono nell'acqua. Di più, sono fatti di acqua, o meglio ancora sono in grado di trasformarsi in acqua. E dall’acqua sono in grado di sviluppare un'energia devastante, di molto superiore a quella delle armi costruite dall'uomo. Oltretutto sono creature estremamente intelligenti ed evolute, tanto da sviluppare una tecnologia largamente superiore a quella degli umani.
Inoltre, a differenza degli umani, che per quanto evoluti riescono ad essere alquanto stupidi, essi hanno capito che i rapporti con la razza umana sarebbero estremamente difficili. In questo si può cogliere un'ulteriore critica di Turner alla nostra specie. Nel corso dei secoli l’uomo ha preso coscienza della sua evoluzione e si è convinto, sbagliando, di occupare il gradino più alto della scala filogenetica. Da questa consapevolezza è scaturita l’arroganza di dover dominare su tutto quello che lo circonda. La razza degli acquatici, consapevole della sua superiorità evolutiva quanto della sua inferiorità numerica, ha deciso quindi di estraniarsi dalle faccende degli umani, limitandosi ad osservare senza mai mostrarsi. L'uomo ha però commesso l'inconsapevole quanto imperdonabile errore di violare e profanare l'habitat naturale di queste creature. I test per gli ordigni nucleari sono stati la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso, soprattutto quando hanno distrutto una città sottomarina e ucciso migliaia di esseri viventi. Alcuni sono rimasti dell’avviso di non intervenire, cautelandosi in altro modo, altri hanno deciso che la superiorità della loro razza doveva ormai venire alla luce per portare al dominio sul genere umano. Lo scontro è a questo punto inevitabile.

Molti possono essere i messaggi da isolare in questo opera: guerra, evoluzione, terrorismo, complotti militari, coraggio individuale. Tra tutti ne voglio scegliere uno: qualunque azione ci accingiamo a compiere, dobbiamo sempre pensare che avrà delle conseguenze su quanto ci circonda, e inoltre non possiamo mai sapere che cosa c’è nell’ignoto del nostro pianeta. Una cosa è certa: per quanti sforzi facciamo, nel singolo come nel collettivo, ci sarà sempre prima o poi qualcuno che ci supererà. Giudicarsi al di sopra di qualsiasi altra cosa è solo la manifestazione di una cieca arroganza che purtroppo ci portiamo dentro fin dalle nostre prime generazioni.

domenica 18 novembre 2007

Fahrenheit 451

Qualcuno l’avrà già letto, qualcuno avrà visto il film che ne è stato tratto, qualcuno ne avrà almeno sentito parlare. Quello che più mi rammarica è quando qualcuno mi dice che non ha idea di cosa sia. Proviamo a parlarne.

Le mie smisurate manie di grandezza e di protagonismo (sto scherzando, non sono così folle) in questo momento mi fanno immaginare me stesso su un palco, con un leggio e un microfono davanti, mentre parlo di questo libro ad una platea, che per comodità è composta da cento persone, prese a caso nel mondo.
“Fahrenheit 451 è un romanzo di fantascienza…”, e non ho ancora finito di pronunciare la frase che una buona cinquantina di quei cento che mi stavano a sentire si alza e guadagna l’uscita in tutta fretta. Di sicuro, quei cinquanta sono quelli che si ritengono veri lettori di veri libri, e non possono perdere tempo con la fantascienza. Di quelli che sono rimasti, almeno trenta sono ragazzini in crisi d’astinenza da Star wars, o Star trek, o Star qualcos’altro, disposti a tutto, anche a leggere, pur di avere la loro dose quotidiana di effetti speciali. Gli ultimi venti, infine, sono persone di tutte le età, ma con la mente abbastanza aperta da capire che il grande libro è fuori dal genere.
Uscendo dallo scenario ipotetico, mi amareggia il fatto che capolavori della letteratura vengano inquadrati come libri di serie B, per non dire F o Z, solo perché, in una classificazione rigida e scolastica, devono rientrare nel genere fantascienza. Su questo discorso avrò occasione di tornare altre volte, adesso parliamo di Fahrenheit 451 (scritto da Ray Bradbury, avevo dimenticato di dirlo).

Quei trenta che si aspettavano gli alieni, le astronavi e le spade laser resteranno delusi: non c’è niente di tutto questo. Pubblicato nel 1953, racconta di una supertecnologica ma temporalmente non collocata civiltà del futuro, in cui un regime totalitario fascistoide, a suo dire per mantenere il benessere e la felicità dei sudditi, vieta categoricamente di possedere o leggere libri. Allo scopo di debellare la piaga della cultura, esiste un apposito corpo di vigili del fuoco, che, a differenza dei nostri, tengono fede al loro nome: non spengono gli incendi, ma li appiccano, ai libri e alle case di chi li possiede.
Montag è uno di questi vigili, il 451, come sta scritto sul suo elmetto, e armato del suo eroico tubo al cherosene, compie il suo lavoro con scrupoloso zelo. Non potrebbe mai dubitare della giustezza delle sue azioni, e degli ordini dai quali derivano. Poi qualcosa si spezza in questo incanto. Qualcuno è cosciente dell’orrenda realtà, un depositario della verità, una persona speciale: un folle. Anzi, una folle, che Montag incontra per caso, e che turba profondamente le sue convinzioni. Da distruttore di libri, a poco a poco Montag si trasforma in loro salvatore, conosce persone che nell’ombra si ribellano al regime, elabora un piano per rovesciarlo. Ovviamente, il piano è destinato a fallire, e parte la caccia all’uomo. Montag però, spinto dalla più assoluta disperazione, riesce a fuggire, e assiste impotente, davanti ad uno schermo televisivo, all’assassinio di un innocente, spacciato per lui dal regime. Perché il regime non può perdere, non può fallire, il regime vince sempre. Almeno, così deve sembrare agli occhi di migliaia di spettatori, che assistono quasi lobotomizzati al crudele spettacolo.
Allora Montag non ha più niente? Quell’unico libro che era riuscito a salvare è andato distrutto, e lui si ritrova in un accampamento di barboni, a guardare una fiamma, di cui fino a poco prima era padrone, che adesso benignamente gli concede di scaldarsi. In realtà, qualcosa rimane: tutti quei barboni non sono altro che ex incendiari, che sono riusciti a salvare dei libri e a fuggire. Li hanno nascosti nell’unico luogo sicuro sulla Terra dove nessuno li troverà mai, se loro non vorranno: nelle loro memorie. E anche Montag diventa il depositario di una parte di quel tesoro:

“E quando ci domanderanno cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere: Ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra”.



Ecco cosa rimane: il sogno, la speranza, e soprattutto, la memoria. Per cui, invece di annaspare incoscienti in un mondo di frenesie e scadenze, forse è il caso che tutti noi, anche solo pochi minuti al giorno, ci fermiamo un attimo a guardare qualcosa, a leggere qualcosa, a imprimerla nella nostra memoria, e se qualcuno ci chiede cosa stiamo facendo, risponderemo: Ricordiamo.

Arrowsmith - Il fascino della divisa

Guerra. Ci coinvolge tutti, siamo noi uomini, animali o piante. Tutto ciò che tocca viene segnato, distrutto o trasformato in quanto di peggio ci possa essere.
La storia che Kurt Busiek e Carlos Pacheco ci narrano è una storia vecchia come la vita sulla Terra, ma non manca di spunti originali e di quel tocco di fantasy che la rende interessante. Siamo nel 1915, la Prima Guerra Mondiale è nel pieno del suo svolgimento nella vecchia Europa, ma non manca di far parlare di sé anche nel nuovo continente. È però una guerra diversa da quella di cui tutti abbiamo letto nei libri di storia. In questa guerra, al fianco degli uomini, combattono esseri magici, folletti, draghi, troll, nani, zombie, vampiri e altri ancora. E anche gli uomini fanno uso delle arti magiche, da una parte e dall’altra. Arti che nelle mani dei generali e dei soldati si trasformano in armi di distruzione, non molto diverse da quelle che le attuali tecnologie hanno messo (purtroppo) a nostra disposizione in tempi recenti.

L’animo delle persone però, sia che vivano nel nostro mondo o in uno permeato dalla magia, rimane sempre lo stesso. Sogni, desideri, illusioni, paure, sono tutti presenti allo stesso modo, sia che teniamo in mano un fucile che una balestra con dardi infuocati. È soprattutto la storia di questi sentimenti quella che ci viene raccontata dagli autori, attraverso il personaggio del giovane Fletcher Arrowsmith, un ragazzo di campagna, nato e cresciuto nel Connecticut, dove le giornate trascorrono tutte uguali, tra una battuta di pesca sul lago vicino casa e un carico di materiale da scaricare nell’officina del padre fabbro. A turbare questa monotonia e a risvegliare i sogni nella mente del ragazzo arriva un gruppo di soldati appartenente ai C.A.O., i Corpi Aerei d’Oltremare, un sorta di aviazione in cui non sono gli aerei a portare in cielo gli uomini, ma dei piccoli draghi magici. Per Fletcher è praticamente impossibile resistere al fascino della divisa di quelli che per lui sono eroi, volontari che vanno a combattere oltreoceano, in Gallia, contro le forze nemiche prussiane. E a nulla valgono le lamentele e i rimproveri del padre, diffidente verso la magia di cui questi soldati si servono e della guerra in genere. Dopo aver parlato con Rocky, il troll che lavora con il padre, scappato dalla sua terra devastata dalla guerra, e dopo avergli dato del codardo, il giovane Fletcher scappa di casa una notte, per andare ad arruolarsi, intenzionato a fare qualcosa che sente di dover fare, perché qualcuno deve farlo, perché è giusto combattere chi minaccia la libertà degli altri popoli, e perché deve essere bellissimo volare nei cieli. L’addestramento è duro, ma Fletcher mostra subito di avere talento e una naturale predisposizione per il volo, tanto da guadagnarsi la stima dei suoi istruttori, e le invidie di alcuni compagni di addestramento. A sostenerlo c’è però il suo migliore amico, Jonathan, che era scappato di casa anche lui quella notte, perché volevano cambiare il mondo insieme, e la sua ragazza, Grace, contagiata anche lei dalla voglia di aiutare gli altri. Purtroppo però il sostegno dell’amico è il primo a venire meno, e la sua morte il primo giorno di battaglia in Europa è il primo muro contro cui i suoi sogni vanno a sbattere. Con la ragazza lontana, anche lei volontaria come guidatrice di ambulanze al fronte, Fletcher sembra essere più morto che vivo, combatte nelle battaglie con grande determinazione, ma poi non festeggia le vittorie con i compagni, non esce dalla caserma, non gioca a carte, non fa nulla per allentare la tensione che lo opprime. Festeggiare gli sembra ingiusto nei confronti dell’amico morto, e si sente responsabile per averlo in qualche modo convinto a seguirlo in quello che voleva fare. Una chiacchierata sotto la pioggia con il suo comandante riesce a tirarlo fuori da questa apatia, e a risvegliare in lui il desiderio di vivere normalmente.
Su una cosa Fletcher non ha alcun dubbio: quello che stanno facendo è giusto, lui e i suoi compagni sono dalla parte del bene, e a dimostrarlo sono le azioni tremende che i nemici attuano. Massacrano civili con magie oscure, stringono patti con i demoni per accrescere il loro potere, sguinzagliano ogni genere di creatura contro di loro, profanano i morti facendone dei soldati che anche se deboli sono molti e pericolosi. Si ripete quindi l’eterno dilemma del Bene e del Male. Il Male può utilizzare qualunque mezzo per perseguire i suoi scopi, mentre il Bene è vincolato da principi morali, dal rispetto per gli altri individui, anche se sono nemici, e anche se non mostrano gli stessi scrupoli.

Uno a uno, Fletcher vede cadere tutti i suoi compagni, gli amici, il bullo grande e grosso che lo tormentava durante l’addestramento, i comandanti. Nessuno sfugge alla distruzione della guerra, e il ragazzo sa che prima o poi potrebbe capitare a lui. Man mano che la guerra continua, si assottigliano sempre di più le sue certezze, i suoi punti fermi si allontanano. Solo la stima e il rispetto del suo comandante lo sostengono. Fino a quando il suo gruppo non deve partire per una missione segreta. Hanno una nuova arma, messa a punto dai maghi ricercatori che perfezionano sempre più le tecnologie per la guerra, e devono distruggere la fabbrica di armi dei nemici, in una città vicina. Ma ovviamente nessuno sa che cosa sia la nuova arma che gli è stata data. Quando sganciano i primi contenitori rimangono sgomenti: delle creature spaventose, non molto diverse da quelle utilizzate dai nemici, distruggono in pochi minuti l’intera città, straziando tutta la popolazione, le donne, i bambini. Nessuno si salva, e anche il ragazzo è in pericolo, e viene salvato dal comandante. Solo loro due faranno ritorno. Nel campo in cui viene curato ritrova Grace e Rocky, che si è deciso a combattere anche lui in memoria della sua famiglia distrutta dalla guerra tempo prima. Fletcher a questo punto è totalmente distrutto. Distrutto dal senso di colpa per aver spinto tante persone a far parte di quell’orrore, Grace, nei campi a guidare le ambulanze e a raccogliere corpi smembrati, Rocky, giudicato da lui un codardo perché non aveva reagito alla morte dei suoi familiari, Jonathan, che lo aveva seguito per condividere insieme un sogno, un sogno che si era trasformato in un incubo ad occhi aperti, e dal quale non è possibile svegliarsi. E distrutto dal vedersi crollare davanti agli occhi tutte le sue certezze. Era convinto che la sua fosse la parte giusta, che anche se i loro maghi avessero avuto a disposizione le magie oscure dei nemici non le avrebbero mai usate, che nessun innocente avrebbe mai perso la vita per mano sua. E invece tutto questo è accaduto, e Fletcher si rende conto che in una guerra non c’è mai una parte giusta, che non c’è un buono e un cattivo, che non ci sono colpevoli e innocenti, che tutti loro cono colpevoli. Le azioni eroiche non possono cancellare le atrocità di cui tutti loro si sono macchiati combattendo. E per quanto credano di combattere per la libertà, non ci può essere libertà se la gente muore.

Troppi morti da entrambe le parti, morti per ciò in cui credevano. Morti facendo cose che mai avrebbero creduto possibili, prima. E quelli che pensiamo comandino, non comandano davvero. È la guerra che comanda. Noi combattiamo, e gli innocenti muoiono. Ma se smettiamo, muoiono altri innocenti. E la cosa peggiore è che anche i Prussiano direbbero la stessa cosa. Anche loro fanno quello che devono. Resistono. Rispondono agli attacchi. L’unica cosa che possiamo fare è tirare avanti. Cercare di contenere l’incendio finché non si spegne. Sperando che rimanga qualcosa, dopo.

Tecnicamente il lavoro è molto ben fatto, e i disegni pastosi e lineari di Pacheco si armonizzano molto bene con la trama scorrevole e di facile lettura di Busiek. L’essenzialità e l’impatto sono le caratteristiche di quest’opera, volontariamente ricercati per dare più risalto al significato profondo del grande tema che ci sta dietro. L’unica cosa che forse si può trovare come difetto è quella di aver lasciato poco spazio all’approfondimento dell’elemento fantasy, che risulta solo un abbellimento piuttosto che un vero contenuto. Personalmente non mi sarebbe dispiaciuto vedere il punto di vista di una delle creature utilizzate come armi nella guerra. In fondo, anche se Rochy, l’amico di Fletcher, è un troll di roccia, il suo personaggio di fatto è un comune essere umano, e rappresenta solamente il concetto del profugo di guerra costretto ad abbandonare la sua terra. E anche i maghi, pur avendo un ruolo fondamentale nelle vicende, non vengono caratterizzati più dell’essenziale, e sembrano ricordare le figure dei vecchi generali seduti ai tavoli che ragionano con il cinismo e la freddezza che deve avere chi prende decisioni che coinvolgeranno le vite di molti esseri umani, da una parte e dall’altra.La storia che ci narrano Busiek e Pacheco potrebbe sembrare banale e già raccontata, e forse in alcune parti lo è, ma sono convinto che, oggi più che in altri tempi, non basta mai ripetere quali orrori porti la guerra. Fortunatamente molti di noi non vi sono mai stati coinvolti direttamente, ma basta parlare con i nostri nonni, e guardarli negli occhi mentre ci raccontano le loro storie, per vedere come quegli orrori sono ancora impressi dentro di loro, e come niente potrà mai cancellarli. Alla frase “Sto cercando un grande guerriero”, il maestro Yoda ribatté “Grande guerrirero? Guerra non fa nessuno grande”. Niente di più vero, oggi come tanto tempo fa, in un mondo fantastico così come in uno reale come il nostro. Che poi, chi l’ha detto che quello reale è il nostro? Magari da qualche parte c’è davvero un soldato che vola con il suo draghetto sulla spalla, e un autore di fumetti sta scrivendo una storia che parla di un soldato con una strana arma di ferro che spara piccoli oggetti metallici. Di una cosa possiamo essere sicuri: sia il soldato che vola nel cieli che quello con il fucile in mano si porteranno dentro le stesse angosce, le stesse paure, e lo stesso destino: imprimere agli altri lo stesso marchio d’odio che portano. Il giorno in cui saremo in grado di cambiare questo destino, il mondo sarà un posto migliore. E forse l’opera di alcuni artisti ci può guidare in questo senso.

Le Rragioni della forma


Doveroso, oltre che piacevole, e per me particolarmente importante, mi sembra l’omaggio ad un libro che potrei definire di nicchia. Non è un bestseller, non è di un autore famoso, non è narrativo. Parlando superficialmente, si potrebbe dire che “Le Rragioni della forma” è un libro di architettura, e che Filippo Raimondo è l‘architetto che l’ha scritto. In fondo, Monet è quello che ha dipinto il quadro con il sole, e il quadro con il sole è quello dipinto da Monet. Forse il paragone è un po’ eccessivo, ma mi serve a far notare come parlare in questi termini si può considerare non solo riduttivo, ma anche ingiusto, e forse pure offensivo.

Qualche nota biografica. Filippo Raimondo nasce a Cefalù nel 1953, come dice il risvolto della copertina. Quello che non dice è che Filippo nasce al numero 23 di piazza duomo, in una casa cui si accede attraverso un cortile interno acciottolato, da cui parte una scala che conduce ad un portone col batacchio. Non dice che a soli quattro anni Filippo subisce una grave perdita, che per rispetto a lui e a tutti coloro che l’hanno vissuta non approfondirò. Non dice che Filippo, finito il liceo (siamo nei primissimi anni settanta), esprime il desiderio di studiare architettura a Roma, e che sua madre gli risponde “Vai, figlio mio, non posso imprigionarti qui con me”.

Parte perché la provincia gli sta stretta, perché ha bisogno di vedere il mondo, di parlare con chi l’ha visto, e soprattutto, di posizionare sul mondo i suoi giocattoli. Come un bambino curioso e intelligente che gioca con le costruzioni, così Filippo gioca con le forme dell’architettura, armonizzandole, fondendole, facendole collidere, facendole esplodere, per poi mischiare i frammenti e ricominciare. E mentre il cuore batte in Sicilia, dove ci sono sua madre e il ramo materno della sua famiglia, il cervello schizza lontano: l’Italia non basta (Roma, Milano, Venezia, Perugia, Pescara…), l’Europa è lì a due passi (Colonia, Vienna, Francoforte, Helsinki…), ed è un’ottima rampa di lancio per il resto del mondo (Tokio, New York, Il Cairo…).

Tutto questo, e qualcosa d’altro, è contenuto ne “Le Rragioni della forma”. Non ho sbagliato a scrivere, né la prima né la seconda né la terza volta. Quella doppia R non fa altro che sottolineare la sua sicilianità, il suo essere irrimediabilmente legato a questa terra, la nostra terra, e ne sono prova i primi capitoli del libro, in cui chi legge può ripercorrere, passo dopo passo, il suo processo di crescita mentale e professionale, dalle 'sciare' del Fannaco, tra cui giocava da bambino, alle processioni religiose dei paesi dell’entroterra. Poi, ecco che spunta, come un 'funciu', quel capitolo astratto, bizzarro, quasi surreale, che chi scrive di tecnica raramente è capace di realizzare. Ne “Il cerchio interrotto” si manifesta tutta la brillantezza, tutto l’ingegno e tutta la cultura di Filippo, un capitolo in cui elabora una teoria (o quantomeno ne getta le basi) che ha l’ambizione di dare un senso universale alle cose dell’arte.

Ma la cosa che più mi ha stupito nel leggere questo libro è la seguente. Leggendo il solo testo, si ha la sensazione di avere a che fare con qualcosa che, pur affondando profondamente le sue unghie nella carne della realtà e della materialità, conserva tuttavia un alone di mistero, una sensazione di etereo distacco dal quotidiano lavoro materiale di chi si siede ad un tavolo e disegna linee. Guardando le sole immagini che accompagnano gli scritti, invece, si viene investiti, quasi con violenza, dalla materia, dalla brutale crudeltà di ore e ore di lavoro, non sempre coronate dal raggiungimento di un risultato gratificante e remunerativo, che Filippo ha dovuto sopportare in ventisette anni di vita professionale. E poi, ecco il tocco di magia: scritto in piccolo, alla fine di ogni capitolo, un po’ in disparte, quasi fosse un sussurro che vuole precisare appena quello che l’imponente voce ha scandito finora con forza, ecco che si legge: “Riflessioni a margine del progetto tale”, oppure “Riflessioni sulla contemporaneità fatte in occasione del progetto talaltro”. Ed ecco che capisci tutto. Capisci come le mani non sanno far nulla senza la testa, e come una testa senza mani non produrrà mai niente. Capisci che la costruzione materiale non potrebbe avvenire senza un percorso mentale, filologico e filosofico, e come delle semplici speculazioni astratte non avrebbero molto più valore di deliri allucinatori senza la capacità di concretizzarli materialmente. Filippo Raimondo c’è riuscito, e a mio modesto parere meriterebbe un giusto riconoscimento di pubblico. Non lo dico tanto perché è mio cugino, quanto perché è il mio architetto, perché so quanto vale e perché so che dà un senso al suo lavoro.

sabato 17 novembre 2007

Presentazione

Sì, lo ammetto, il titolo non è una mia invenzione. Forse non si può pensare a un inizio peggiore di una scopiazzatura, qualunque sia la cosa che ci si appresta a presentare. Tuttavia non mi pento di questa scelta, e spero nelle prossime righe di riuscire a spiegare il perché.

Prima di ogni cosa, quando si parla a qualcuno sarebbe educato presentarsi, e ho già tardato un po’ nel farlo, ma ho preferito un incipit un po’ più d’effetto. Ritengo che quando si scrive la prima cosa da fare sia catturare l’attenzione, coinvolgere chi sta dall’altro lato della pagina, o dello schermo, in quelli che sono i propri pensieri nel momento in cui vengono fissati sul supporto che li conserverà. Ed è probabile che dopo questa prime centotrenta parole io abbia già fallito in questo intento, comunque…
Salve a tutti, benvenuti, e qualunque sia stata la strada che vi ha condotto qui, vi ringrazio per esservi soffermati a leggere queste parole. Per i miei dati personali, rimando al profilo qui accanto, perché mi preme parlare di quello che leggerete su queste pagine se avrete la sfortuna di capitarci ancora.

“Cose preziose” è il titolo di un libro, o meglio, la traduzione italiana dell’originale “Needful things” di Stephen King. Non parlerò qui di questo libro, spero di farlo in seguito, ma ne ho usato il titolo perché quando lo lessi mi piacque molto, ne rimasi affascinato, colpito e un po’ inquietato, e nelle stramberie della mia mente ho sempre desiderato avere qualcosa di mio che si chiamasse così (in realtà avevo pensato che, una volta raggiunta l’età della pensione, avrei aperto una piccola libreria di paese, e l’avrei chiamata “Cose preziose”, ma ho optato per un più ‘realistico’, e più rapidamente realizzabile, blog).

Cose preziose parlerà di quelle cose che io ritengo essere ‘preziose’. Non sto soltanto esibendomi in futili giochi di parole, ma vorrei sottolineare un concetto: viviamo in un mondo pieno di spazzatura, che ci viene riversata addosso da un curioso elettrodomestico chiamato televisione. Già nel nome si manifesta uno dei più grandi orrori del nostro mondo: la perdita della cultura, parlata e scritta. Quella scatola che negli ultimi decenni ha invaso le nostre case, infatti, dovrebbe chiamarsi “televisore”, non “televisione”. Quest’ultima, più esattamente, è la trasmissione che l’oggetto si limita a fornirci. Basta solo questo esempio per dimostrare come tutti noi, me compreso, stiamo scivolando lungo una pericolosa china che è quella della perdita della cultura. Storpiamo parole di uso comune, utilizziamo frasi sgrammaticate, e ci irritiamo quando qualcuno ci corregge, cavalcando l’onda dei programmi contenitore e dei varietà, in cui tutto si mostra, tranne che cultura, in cui la parola magica per raggiungere il successo è “cioè”, che si sente ripetere come un intercalare martellante, quasi che debba per forza scandire la sequenza di parole di una frase per darne il ritmo, per conferirle significato: “Cioè perché io veramente vorrei che tu cioè facessi quello che mi aspetto, cioè hai capito quello che voglio dire?”. Eccovi un esempio di quello che sento uscire da quegli altoparlanti in un normale primo pomeriggio della mia vita, quando sono appena rientrato a casa dal lavoro (farei meglio a dire università, ma chi mi conosce sa cosa voglio dire, gli altri forse lo capiranno presto).
Perché tutto questo preambolo? Perché vorrei riportare l’attenzione su quegli oggetti preziosi che sempre meno vedo nelle case delle persone che frequento, o in mano alla gente sui treni su cui viaggio: i libri. Ecco le cose preziose di cui vorrei parlare: condividere con voi le sensazioni, le emozioni che provo quando leggo un libro, quello che mi lascia quando lo finisco e lo ripongo al suo posto, nella libreria, quello che dico a qualcuno quando consiglio di leggerlo. Il contatto della carta sui polpastrelli, il profumo della colla da rilegatura che si può scoprire solo infilando il naso tra le pagine di un libro nuovo, e quello del tempo che trascorre tra le pagine di un libro vecchio, il gusto di alcune parole che si imprime sulle labbra quando, dopo aver letto una frase, la si rilegge sottovoce, mormorandola, per assaporarla davvero appieno.

Ma non sarà solo questo. Altre cose preziose mi circondano: i fumetti. Un buon cinquanta percento di quello che troverete qui riguarderà la nona arte, che condivide dei libri tutto quello di cui ho appena parlato, e vi aggiunge le sensazioni visive suscitate, evocate, scolpite sulla retina dalle immagini.
Qualche intrusione a me molto gradita la faranno film, spettacoli, musica, eventi culturali, ai quali parteciperò o avrò partecipato in passato e che vorrò condividere con voi. Infine, qualche essere diabolico, o un arcano sortilegio, potrebbe convincermi a fare una cosa che non ho mai fatto prima: pubblicare (nel senso di far leggere a qualcuno che non sia io stesso) quell’ammasso di parole che ho scritto negli ultimi anni, e che si manifesta in qualche romanzo, qualche racconto, qualche poesia e qualche altra cosa. A questo proposito, urge una precisazione.

Norman Mailer, grande romanziere americano scomparso sette giorni fa alla veneranda età di ottantaquattro anni, in una intervista di qualche anno fa, alla domanda “Lei come si giudica tra gli scrittori americani?”, rispose: “Se mi considero il migliore, oppure no? Non so cosa rispondere. In fondo non mi interessa molto saperlo, poiché non è importante pensare di esserlo. Ci saranno venti scrittori nel nostro paese, ognuno convinto di essere il migliore tra quelli viventi. Io sono uno di quei venti. D’altra parte non sono amico di nessuno di loro perché sono dei bastardi…”. Cinismo e misantropia a parte, una cosa condivido di queste parole: ben pochi di quelli che scrivono possono fregiarsi del titolo di scrittori, e certamente nessuno di quelli che hanno scritto uno o due libri che hanno venduto subito migliaia di copie (ogni riferimento a Federico Moccia è puramente casuale). Un romanzo è come un matrimonio: sai che vale veramente quando festeggi i cinquant’anni, non prima. Se un libro viene letto ancora cinquant’anni dopo che è stato scritto, forse è un buon libro. Tutto quello che viene prima sono solo opinioni. Perciò, non essendo un vanaglorioso, non mi sentirete mai riferirmi a me stesso con il titolo di scrittore. Così come quando qualcuno mi vedeva tempo fa con la chitarra in mano, e mi chiedeva se suonavo, io rispondevo “Non suono, la uso”, allo stesso modo posso dire che non sono uno scrittore, sono uno che scrive. Fino ad ora mi sono sempre rifiutato di condividere con chiunque quello che ho scritto, ma chissà che in un futuro prossimo non troviate in questa sede qualcosa che porta la mia firma e che non sia solo una recensione o un commento a cose scritte da altri.
Bene, a questo punto credo di aver dato uno sfogo materiale sufficiente alla mia logorrea mentale, quindi non mi resta che salutare tutti quelli che non hanno chiuso la pagina prima di arrivare qui e hanno continuato a leggere, dandovi appuntamento al più presto, quando comincerò a inserire su questo mio neonato blog dei post che parlino di qualcosa di più concreto, invece che continuare a sproloquiare. E per chi volesse interagire in qualche modo, spazio aperto a critiche, commenti, insulti, parolacce e quant’altro vogliate inviarmi.