giovedì 4 agosto 2011

L'anima del niente

Per me ci sono due romanzi siciliani. Uno è “Il Gattopardo”, quel capolavoro in cui Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha spiegato non solo la Sicilia all’Italia e l’Italia alla Sicilia, ma anche i siciliani agli italiani e gli italiani ai siciliani. Il secondo non è un singolo romanzo ma è una singola storia, quella che negli ultimi anni ha raccontato Andrea Camilleri con il suo Montalbano, che ha riconsegnato ai lettori quell’intraducibile modo di esistere che abbiamo in quest’isola. Il resto secondo me è poca roba. Con questa frase so di stare disdegnando la stragrande maggioranza dei nostri autori, ma lasciate che vi spieghi, forse non è proprio così. Il problema è che io sono siciliano, e a un siciliano non gli puoi spiegare la Sicilia. Se sei Camilleri, o Tomasi di Lampedusa, forse gliela puoi raccontare. Altrimenti, come diciamo qui, levaci mano. Perché il siciliano è un po’ presuntuoso, quella cosa che sa non la vuole spiegata da nessuno. Ecco, adesso che ci penso, forse me ne sono scordato uno. Leonardo Sciascia è uno che ha scritto la Sicilia in alcuni suoi romanzi. Mi direte: e le novelle di Pirandello dove le metti? Tra le novelle, appunto. I romanzi di Pirandello sono “Uno, nessuno, centomila” o “Il fu Mattia Pascal”. Lì non c’è la Sicilia, c’è la maschera, l’identità, la spersonalizzazione. La Sicilia di Pirandello è ne “La giara” o “La patente”, ma non sono romanzi. Verga? La stessa cosa. Si , va bene, mi hai raccontato la tragedia dei pescatori di Aci Trezza, ma non l’hai raccontata a me, o ai pescatori di Aci Trezza, l’hai raccontata ai raccoglitori di mele della Val di Non. Ecco a chi servono i romanzi siciliani, a chi sta da un’altra parte. A me i pescatori me li ha raccontati un signore un po’ scorbutico e incazzoso che quando ero bambino mi sembrava un mago quando gli vedevo ‘cusiri ‘a rizza’ o ‘tirari ‘u rizzagghiu’. Che me ne frega di Padron ‘Ntoni, il pescatore per me è il signor Marsala, al magazzino con la porta grigia della Giudecca!

Tutto questo casino per cercare di farvi capire la mia ritrosia per i neoromanzieri siciliani. Mai letto niente della Agnello Hornby, mai letto niente della Torregrossa. Per questo non vi parlo del libro che non ho letto. Giuseppina Torregrossa è amica di mio zio Francesco, e l’ultimo suo romanzo, “Manna e miele, ferro e fuoco” (quello di cui non parlo) è nato praticamente a casa nostra. Quella Plaia dove ho trascorso molte estati della mia infanzia con i miei nonni e i miei zii, dove casa era famiglia, erano storie, erano giochi, erano silenzi, erano riti. Una casa dove ora vengono a stare persone che non sanno neanche chi erano quelli che stavano nelle stanze dove ora dormono. Ecco, a loro può servire un romanzo come questo, può servire che qualcuno gli spieghi la Plaia. A me no, io in quelle stanze ci sono stato, ci ho dormito, e so chi ci è stato prima di me anche se non li ho mai conosciuti, so dove si andava a prendere l’acqua, dove si appendevano le banane, dove si stendeva l’estratto. Lo so perché quando ero piccolo non c’erano computer, film, videogiochi e altre cose del genere in quella casa. Lì, la sera si stava al buio, in terrazza sotto le stelle, e si ascoltavano le persone più grandi raccontare, e c’era la fantasia che ti faceva vedere quelle cose.

Ma allora di che cavolo sto parando? Sto parlando del fatto che ieri sera (31 luglio 2011) alla Plaia è stato presentato il romanzo della Torregrossa (quello di cui non parlo) e insieme all’autrice c’erano ospiti due giornalisti di cui non ricordo i nomi e padroni di una dialettica sovrapponibile per intensità a quella dei ‘cuticchi’ del baglio dove erano seduti, un’attrice di teatro che ha letto alcuni brani con grande maestria interpretativa, e che ai complimenti ricevuti, da persona intelligente ha risposto: “ero molto tesa perché dovevo raccontare a voi le vostre cose, la vostra casa, i vostri nomi” (tanto per tornare al discorso che facevo all’inizio!), e infine c’era Giulio. Giulio Gelardi è un amico di mio zio Francesco ed è anche l’ultimo autentico mannarolo vivente. Come lo definisce mio zio, la massima autorità mondiale in fatto di manna. È stato lui una delle fonti di ispirazione del romanzo, spiegare come ci si è arrivati è molto lungo e non mi va di farlo. Parlo di questa persona perché lui è uno di quelli che ha qualcosa da spiegare ai siciliani da siciliano. Perché come dice lui non si tratta solo di fare manna. Ci ha raccontato di come parla con le piante, di come le piante parlano a lui, attraverso le ‘ntacche del coltello, di come quello che fanno lo fanno insieme agli insetti, ai serpenti, agli uccelli, alla pioggia, al vento. Ci ha raccontato l’anima del niente. Io non sono uomo di campagna, anche se la conosco, sono più affascinato dal mare, dalle onde, dai temporali, da quel signore ca cusi ‘a rizza come per magia, intrecciando il filo con il salemastro, creando quella trama che nella sua testa esiste già. Eppure, ascoltando le parole di questo contadino castelbuonese, questo alchimista della manna, sentendolo raccontare della nobiltà vera della terra e di quella finta dei palazzi signorili, mi è venuto il desiderio di leggere questo romanzo. Perché adesso so che forse c’è qualcosa che mi può spiegare. “Manna e miele, ferro e fuoco” è messo in conto per l’inverno, con calma e senza premura, perché i libri hanno pazienza ma sono esigenti, se non gli dai quello che vogliono si vendicano non facendosi apprezzare, bisogna saper scegliere il tempo. Per adesso, per me non è tempo di manna, per questo non ve ne parlo. Quando lo sarà, lo leggerò, così forse ve ne parlerò. Ma questa sarà un’altra storia. Ora, con rispetto parlando, mi va gghiettu a mmari!

giovedì 7 luglio 2011

Le donne dei comics - Nico Robin


Finalmente sono arrivato a leggere la storia di cui avevo visto solo alcuni spezzoni nell’anime, e che mi aveva lasciato l’amaro in bocca per non averla potuta apprezzare nella sua interezza. Nelle storie che ho letto sono sempre stato affascinato dai personaggi che avevano anche lati ambigui del carattere e della personalità, come Wolverine o Gambit, ma anche Batman per molti versi, o Gatsu. I personaggi nettamente positivi mi suscitano un buonismo che dopo un po’ diventa stucchevole, mentre quelli al margine tra bene e male sono certamente più interessanti e complessi. E interessante e complessa è senza ombra di dubbio la figura di Nico Robin.

Per chi non lo sapesse, sto parlando di uno dei personaggi di One Piece, fumetto giapponese scritto e disegnato di Eichiro Oda, che racconta le avventure di una ciurma di pirati guidati da Monkey D. Rufy detto cappello di paglia. Nico Robin è una componente della banda, ma una che si aggiunge piuttosto tardi rispetto alla formazione del gruppo originale, e che esordisce come avversaria dei protagonisti. Una donna estremamente forte, carismatica, bellissima e sicura di sé, determinata a raggiungere i suoi obiettivi. Estremamente intelligente e coltissima studiosa di archeologia, nasconde qualsiasi emozione dietro un sorriso beffardo e dissimulatore, al punto che difficilmente si può dire cosa stia provando realmente. Unitasi alla ciurma di cappello di paglia per sua stessa richiesta, viene accolta da alcuni con entusiasmo, da altri con diffidenza, ma si guadagna presto il rispetto e poi l’affetto dei compagni dimostrandosi una preziosa alleata grazie ai poteri del frutto del diavolo e alle sue enormi conoscenze.

Ma dietro quel sorriso sardonico e quella apparente noncuranza verso gli eventi che la circondano, Robin cela i segni di un tragico passato. Cresciuta come una bambina emarginata a causa dei suoi poteri, fin da piccola si dedica agli studi, nella speranza che questo possa far tornare la sua mamma partita per svelare il mistero meglio custodito della storia degli uomini. Purtroppo, a causa di uno scontro con il governo mondiale, a soli otto anni è costretta ad assistere alla morte di sua madre, allo sterminio della sua gente, alla distruzione della sua isola e della biblioteca dove era praticamente cresciuta, il tutto per opposizione a quella conoscenza della storia che tanto ardentemente aveva desiderato di ottenere. Sfuggita miracolosamente al destino della sua gente, è costretta ad una vita da ricercata, fatta di furti, sotterfugi, fughe e sacrifici, sempre braccata dalla marina e dal governo, inevitabilmente e inesorabilmente sola. Fino a che non si unisce ad una banda di criminali che vede nelle sue conoscenze di archeologa la chiave per risvegliare un’arma distruttiva senza pari. È proprio in questa occasione che avrà l’opportunità prima di scontrarsi e poi di unirsi alla ciurma di Rufy dal cappello di paglia, diventando a tutti gli effetti una pirata.

Quello che coinvolge nella storia contenuta nel quarantunesimo volume della serie è assistere alle emozioni nascoste di una bambina costretta a diventare donna troppo in fretta, privata dell’infanzia, dei suoi sogni, della famiglia, ma soprattutto del diritto ad avere degli amici. Additata come portatrice di sventura oltre che come criminale, veniva sistematicamente emarginata e isolata, senza mai la possibilità di trovare delle persone che la accogliessero come parte di un gruppo e non solo come una risorsa da sfruttare. Fino a che non incontra Rufy e i suoi, per i quali diventa una di famiglia, una compagna e un’amica, una persona per la quale vale la pena lottare, fare sacrifici, anche soffrire. Qualcosa che nessuno le aveva mai dato. E finalmente, al posto del sorriso dissimulatore di chi nasconde le emozioni, vediamo scendere le lacrime della commozione e della gratitudine nei confronti di chi è disposto a combattere e sacrificarsi per il semplice fatto che lei è parte del gruppo.


- Robin! Dimmi che vuoi vivere!
- Vivere? Credevo... di non averne alcun diritto...

sabato 2 luglio 2011

La realtà


È da tanto che volevo scrivere qualcosa di questo tipo, ma chissà perché non c’è mai stata l’occasione. Ultimamente, mi è capitato più di una volta di scrivere durante i turni di guardia di notte in ospedale, e in effetti l’atmosfera concilia la scrittura. E poi, per parlare di questo argomento, non ci può essere contesto migliore. Anche se mi sforzo, difficilmente riesco a pensare a un personaggio complesso come quello di cui vorrei scrivere stasera. E mi rendo anche conto che, ad una occhiata superficiale, può invece sembrare estremamente banale. Mi riferisco a John Dorian, JD, il protagonista principale di “Scrubs”. Una serie che ho imparato ad apprezzare nel corso delle diverse stagioni, della quale ho scoperto molte sfaccettature e ho trovato molti riscontri nella vita reale e nel mio lavoro. Pochi autori di serie televisive hanno saputo rappresentare la vita ospedaliera in maniera realistica come quelli di Scrubs. Per quanti non lo sapessero, il mondo degli ospedali veri non è certo quello di House o Grey’s anatomy. Non abbiamo stanze che sembrano suite d’albergo a cinque stelle, né decine di persone che lavorano per ogni singolo paziente, né la possibilità di fare tutto subito e nello stesso posto. Al contrario, la vita ospedaliera è fatta di compromessi, di nervosismo, di buona volontà, di sostegno reciproco, di conflitti, di fallimenti, di attriti, di collaborazione. Muoversi in questo contesto è una cosa difficile da imparare, ci vuole molta pazienza, spirito di sacrificio, capacità di adattamento, e bisogna aver sviluppato un buon apparato di meccanismi di difesa.

È proprio per questo che JD è reale, molto più di altri personaggi medici che si vedono sugli schermi. Le battute stupide, i pensieri surreali nel bel mezzo di una frase, fare cose assurde sia al lavoro che nel tempo libero... non sono paradossi fatti solo per suscitare la comicità. Sono quello che ci permette di sopravvivere. Tutti noi, chi più chi meno, a qualsiasi livello di responsabilità e di ruolo, in ospedale ironizziamo su tutto. Dai cognomi assurdi dei pazienti, ai loro comportamenti strani, alle domande assurde. Ci prendiamo in giro tra di noi, ci immaginiamo scenari assurdi, ci stupiamo di quelli reali che sembrano ancora più assurdi. La signora con l’ictus che fa il verso del cane e quella del letto accanto che si mette a gridare come una pazza perché ha paura dei cani... Il paziente che quando gli fai la percussione del torace ti dice “avanti” convinto che stiano bussando alla porta. Sembrano cose da Scrubs, vero? Eppure vi assicuro che sono accadute a me!

- Signor XX, ma che si sente?
- Mi sientu curiusu!

Paziente con demenza: - Allora oggi mi mandate a casa?
Medici: - No, signora, perché domani dobbiamo fare un esame di controllo.
Paziente con demenza: - Ah, va bene.
(Tre secondi netti di intervallo)
Paziente con demenza prende la vestaglia e apre la porta.
Medici: - Signora, ma dove sta andando?
Paziente con demenza: - Ovviamente a casa!

Ma dall’altro lato c’è la grande umanità di JD che lo rende reale. Una persona e non un personaggio, uno che si appassiona ai pazienti, alla loro vita, che li assiste mentre li cura, che si arrabbia se qualcosa va male. E uno per cui gli amici vengono sempre al primo posto. Anche nei contrasti, nelle incomprensioni, negli scontri che possono capitare tra colleghi, se una persona è tuo amico ci si ritrova sempre. Magari con una semplice battuta.

- Scusami, amico, non volevo sembrare un idiota.
- Rilassati, JD... tu sei idiota!

mercoledì 22 giugno 2011

La notte del drive-in

Che Lansdale non sia uno scrittore consueto lo sanno tutti quelli che hanno letto almeno uno dei suoi romanzi. Che sappia fotografare in maniera assolutamente personale alcuni spaccati dell’american lifestyle, soprattutto per quanto riguarda il profondo Sud, è anche questo un dato di fatto e non un’opinione. Questa volta però lo scopro alle prese con un genere particolare, difficile, ostico da trattare, soprattutto se si vuole farlo in maniera originale, vale a dire la fantascienza. In un ambito in cui si è visto di tutto e di più, riuscire a trovare spunti originali e ad organizzarli in un ritmo narrativo di buon livello è tutt’altro che facile, eppure l’autore americano non fallisce neanche questa prova.

Siamo nel profondo Texas, dove la vita è scandita da birra e sale da biliardo, grasso per motori e mandrie, cappelli da cowboy e risse. In questo contesto, l’Orbit, uno sterminato drive-in con sei maxischermi che proietta film horror di serie B non può non rappresentare una tappa obbligata per quei giovani i cui interessi si discostano un minimo dalla normale routine. E ovviamente, la grande serata horror, in cui verranno proiettati sei film a ripetizione, è un appuntamento irrinunciabile. Tuttavia, il destino decide di scherzare un po’ con le vite di qualche centinaio di persone, e una cometa si materializza nel cielo sopra l’Orbit, avvolgendolo in una misteriosa nebbia letale per chiunque cerchi di attraversarla. Ha così inizio il dramma umano di cui Jack si farà narratore e spettatore, pur vivendolo dall’interno, costretto in una prima fase a subire gli eventi, per poi riuscire a ribellarvisi e ad agire, insieme al suo amico Bob.

La pubblicazione italiana di quest’opera racchiude i primi due romanzi che hanno per protagonista il drive-in, ma in realtà li potremmo considerare due capitoli di una stessa storia. Nel primo (Il Drive-in I), Lansdale rappresenta in maniera grottesca ma drammatica allo stesso tempo la sensibilità umana nella condizione di assoluta fragilità derivante da un evento che non riesce a capire e tantomeno a controllare. In maniera lenta e graduale, la situazione della piccola comunità che si viene forzatamente a creare nel drive-in degenera dalla razionalità del far fronte come si può ad un problema imprevisto alla totale follia dettata dalla fame e dall’isolamento, che sfocia nella violenza indiscriminata e fine a se stessa, nello sfogo degli istinti più primordiali che emergono prepotentemente nell’animo di tutti e nella sottomissione a chi si dimostra depositario del potere. Ma c’è posto anche per un po’ di sana critica sociale. Uno degli amici di Jack, un ragazzo di colore fanatico degli effetti speciali dei film, e un meccanico giocatore di biliardo con poche capacità comunicative diventano il substrato ideale per creare l’immancabile mostro della storia. Nella situazione critica che si viene a creare nel drive-in, i due si scoprono stranamente legati l’uno all’altro, due emarginati che si sostengono a vicenda e che finiscono per diventare l’uno per l’altro una sorta di distorta famiglia costituita da un solo individuo. Ed ecco che la mente dell’autore, con questi due materiali grezzi, crea un mostro, attraverso la scarica di un fulmine che li fonde in un unico essere deforme, dotato di incredibili poteri, e capace di incantare le masse, abbrutite dalla fame, con la nuova religione dello spettacolo: la realtà è solo quella che viene proiettata sugli schermi dell’Orbit, e in questa realtà lui, che sfama la gente con prodotti di se stesso, è il nuovo dio, il re del popcorn!

Una situazione simile, ma anche qui con spunti molto innovativi, si svolge nel “Drive-in II”, che come dice lo stesso autore nel sottotitolo, non è “un normale seguito”. Non mi dilungherò molto sulla trama, vi dico solo che seguiremo le vicende di Jack e Bob, fuggiti miracolosamente dal drive-in, che si addentrano nel mondo circostante, che non è più il buon vecchio Texas ma qualcosa di molto diverso e più letale. Conosceremo un nuovo personaggio, Grace, che introdurrà l’elemento femminile in chiave non solo erotica ma anche sociale e psicologica (la sua interazione con Jack e Bob sarà tutt’altro che banale), e avremo a che fare con un nuovo mostro, sempre visto in chiave mediatica. Stavolta, l’alienato di turno si fonderà con il mezzo di alienazione per eccellenza dei nostri tempi: la televisione. E non dico altro, così vi potrete gustare appieno la saga del drive-in. Lettura consigliata a tutti quelli che vogliono scoprire un modo diverso di fare fantascienza. Come dice Niccolò Ammaniti nella postfazione, “Io consiglierei a un analfabeta di imparare a leggere solo per poter conoscere Lansdale”.

L’ultima volta che il chiosco venne aperto, per poco non ci arrivai. Era in corso uno di quei temporali elettrici, il più selvaggio di tutti: lampi blu frastagliati che guizzavano in cielo (o almeno in quello che era il nostro cielo), si scontravano, tracciavano nel buio strane forme, che parevano scacchiere al neon.

sabato 4 giugno 2011

La strada che scende nell'ombra

Questa volta, a differenza di quello che accade di solito, a colpirmi è stato il nome dell’autore, anzi in questo caso dell’autrice. Solitamente, questo è l’ultimo degli elementi che considero in una lettura, tanto è vero che la stragrande maggioranza dei miei libri è opera di gente a me del tutto sconosciuta prima di leggerli. Strazzulla è invece un nome che è suonato familiare alle mie orecchie, perché è un nome tipico del paese, e in generale della zona della Sicilia, di cui è originario mio padre, Augusta. Considerato che i miei nonni hanno vissuto lì per molti anni e che io e la mia famiglia vi abbiamo passato alcune occasioni di vacanza, diverse cose si sono impresse nella mia memoria, e i cognomi tipici del posto sono una di queste. Così, suscitata la curiosità, ho dato un’occhiata al risvolto di copertina, e siccome era un po’ di tempo che non leggevo un romanzo fantasy, mi sono convinto. E in effetti non è stata una brutta scelta.

In un mondo che apparentemente può sembrare l’emblema dell’equilibrio e dell’armonia, sta per scatenarsi una terribile minaccia. Questo mondo è diviso in otto Terre, ognuna appartenente ad una delle Genti, create dagli Dei all’alba del mondo. E, nonostante la varietà degli esseri viventi preveda simpatie e antipatie, amicizie e contrasti, interessi e passioni, tutto sommato che otto popolazioni diverse riescano a convivere da buoni vicini è molto più di quanto noi, nel nostro mondo reale, siamo capaci di fare. Ma qualcosa, un terrore oscuro che giaceva silente da innumerevoli anni, sembra essersi svegliato per devastare con violenza e odio questo stato di cose. Loro malgrado, i rappresentanti delle otto Genti sono costretti ad una collaborazione attiva, e per molti di loro ben poco piacevole, per far fronte a questa minaccia, ma anche tali sforzi non sortiscono effetto, anzi sembrano solo capaci di acuire i contrasti interni e le aggressioni esterne alle Genti indifese. Per tale motivo, l’emissario degli Dei nelle Terre, il Magus, giunge in soccorso con una profezia. Dove le forze vacillano, dove le alleanze crollano, dove i migliori falliscono, forse i peggiori riusciranno. Uno per ognuna delle Genti, i criminali più spietati, abietti e senza scrupoli, votati solo all’egoismo e all’interesse materiale e personale, la peggiore feccia delle otto Terre, terranno in mano il destino di tutti. Inizia così il viaggio di una compagnia molto poco ortodossa, che attraverso scontri e peripezie dovrà affrontare un lungo viaggio per dare una speranza alle Genti. Un viaggio che non è solo materiale, fisico, ma prevalentemente spirituale, con il quale poco a poco gli otto compagni scopriranno concetti che alle loro vite fino a quel momento erano stati del tutto estranei. Concetti come amicizia, onore, altruismo, sacrificio, si faranno largo nel loro animo su una strada che li porterà sempre più nelle profondità del mondo, verso la causa di tutti i mali che forse è anche l’unica speranza di debellarli. Una strada che scende nell’ombra.

Una buona prova per questa autrice siciliana diciottenne, che, senza troppe pretese, riesce a costruire un buon intreccio e un buon ritmo narrativo. Qualcuno potrà obiettare che sono molti i richiami alla narrativa fantasy di sapore classico, i riferimenti a “Il Signore degli anelli” sono ben più che accennati, ma questo a mio parere non sminuisce un romanzo di buona fattura, scorrevole e avvincente come deve essere un fantasy, senza la velleità di rappresentare una svolta nel genere ma anche senza deludere o annoiare. L’elemento dei peggiori è sicuramente interessante, la delineazione delle otto razze di esseri viventi è ben caratterizzata anche dal punto di vista sociale, culturale e caratteriale, i personaggi sono ben delineati, le scene d’azione si alternano in modo adeguato ai momenti di riflessione e contemplazione, c’è un buon crescendo e una buona quantità di eventi radicali e di svolte decisive nella trama. Insomma, una buona prova per un secondo romanzo di un’esordiente in un genere complicato da gestire, come lo è il fantasy. Non mancherà molto perché io recuperi la lettura del suo primo romanzo. Nel frattempo, mi sento di consigliare a tutti gli appassionati del genere di fare quattro passi incamminandosi verso “La strada che scende nell’ombra”.

Nadaret si volse verso Anman, lo sgomento negli occhi. – Anman, - chiese, - questo non può essere evitato?
Anman guardò gli altri Undici e il mondo, e il suo viso era serio e malinconico. – No, - disse, - non può.
- E allora, - chiese ancora Nadaret, - se sapevamo questo, perché abbiamo creato il mondo: per farlo soffrire?
- Perché, - rispose Anman, - il mondo doveva esistere; se non esistesse il male, non ci sarebbe senso nel bene futuro. Il giorno in cui tutte le imperfezioni saranno cancellate è segnato da sempre, ma perché possa venire le imperfezioni devono esserci, anche solo per un momento. Il potere che ci è stato assegnato non deve accecarci. Chi non fa nulla temendo di fare un danno fa in questo modo un danno ancora peggiore. Il mondo aveva diritto di esistere; potevamo forse negargli questo diritto?

lunedì 16 maggio 2011

Scrivo

Poco fa ero affacciato alla finestra e guardavo l’ingresso del Pronto Soccorso. È strano come i pensieri ti raggiungano quando non te li aspetti. È notte, sono di guardia in ospedale, tutto tranquillo, ho fatto il giro, controllato i malati, nessuna emergenza. Ripasso qualcosa, poi magari mi metto a leggere. E invece, guardando un’ambulanza entrare con la luce lampeggiante, mi vengono un mare di pensieri in testa. Ricordi del passato, ricordi di un futuro che ancora non si è verificato, ricordi di un futuro che forse, anzi quasi sicuramente, non si verificherà mai. Che diavolo significano queste cose? Parole in disordine senza nessun nesso logico? Ricordare il futuro? Forse sono i miei neuroni svegli dalle 5.30 di mattina, che hanno sostenuto la tensione degli esami di profitto del primo anno di specializzazione, e che dovranno affrontare una notte in ospedale, e poi una mattina, e poi un pomeriggio? Guardo uno schermo, ci sono delle facce. Vedo una donna con la pancia, congratulazioni. Vedo una ragazza con la chitarra, mi fa piacere. Non vedo l’unica cosa che vorrei vedere. Ricordi di quando ero più piccolo. C’erano tante cose in meno, in me, a quel tempo. Ho fatto passi avanti. Ho corso, ho girato angoli, ho salito scale, ho superato ostacoli, sono caduto, mi sono ferito. Ma questa è l’unica cosa che continuo a sentire, che continua a capitare, che continuo a provare, che continuo a incontrare. Che continua. Sono un medico, curo le ferite. Sono bravo. Non è presunzione, e non c’è falsa modestia. Sono bravo. So quello che so fare, so quello che devo fare, so che non posso non farlo, e lo faccio. E lo so fare. Allora perché l’unica altra cosa che mi manca non riesco a farla? Ho imparato a infilare aghi praticamente in ogni vaso sanguigno del corpo umano, ho imparato a prelevare roba praticamente da ogni cavità, e l’ho imparato da solo, guardando, ascoltando, toccando, rubando, provando. Se tremavo dentro, fuori ero di pietra. Ho guardato negli occhi persone alle quali ho detto che sarebbero morte, ho affrontato la paura, la disperazione e l’odio dei familiari. Non mi sono mai tirato indietro di fronte a queste cose. E poi, mi ritrovo a scrivere una mail, anzi un allegato ad una mail, che forse rimarrà senza risposta. Ho la terribile sensazione di stare scappando. Odio scappare. E odio non capire perché scappo. Anche se forse non sto proprio scappando. Semplicemente, questa cosa non sono ancora bravo a farla. Guardo due occhi azzurri ai quali ho cercato di dare, di trasmettere qualcosa, quello che so. Trasmetti ciò che imparato hai. Ho trasmesso quello che non c’è nei libri, quello che ho imparato con il mio sacrificio, con il mio impegno, con la mia passione. Ho cercato di trasmettere il sacrificio, l’impegno, la passione, a quegli occhi azzurri. E poi scrivo.

mercoledì 11 maggio 2011

Enigma



Beh, che dire… niente male come titolo. Niente cattura l’attenzione come qualcosa che non si capisce bene cosa sia. Misteri, indovinelli, rompicapo, enigmi, sono capaci di suscitare una delle sensazioni innate più affascinanti dell’essere umano: la curiosità. Già solo per questo, un’opera che ha un titolo così la comprerei. Ma qualcuno potrebbe volere di più. Che ne dite di una rivisitazione del concetto di supereroe? Lo so, Alan Moore ha fatto scuola in questo senso, e dopo di lui diversi sono gli autori che si sono cimentati con vari tentativi di svecchiare questa icona della cultura pop. Uno dei miei preferiti, per esempio, è Sam Kieth, che con il suo “The Maxx” ha creato un concetto di supereroe nuovo e del tutto calato in una dimensione surreale e metafisica. Un tentativo dello stesso genere, e anche qui secondo me ben riuscito, l’ha fatto proprio Peter Milligan con questo “Enigma”.

Michael Smith è un uomo qualunque, che vive la sua vita in una spirale infinita di monotonia e insoddisfazione. L’ultima cosa che Michael potrebbe aspettarsi è di vedere comparire nella realtà che lo circonda il suo preferito tra i supereroi dei fumetti della sua infanzia. Un misterioso uomo in maschera si trova a scontrarsi con inquietanti, crudeli e del tutto folli criminali, bizzarri non solo nell’aspetto, ma soprattutto nei comportamenti e nelle intenzioni. In qualche modo Michael si rende conto che quegli eventi e quelle apparizioni sono legati a lui, e decide di partire alla ricerca della ragione di questo legame.

Se dovessi applicargli un’etichetta in una ipotetica classificazione, definirei “Enigma” un romanzo di ricerca. Non solo per quello che riguarda la trama, in cui il protagonista si trova a dover cercare il fantomatico supereroe per poter conoscere le ragioni che ne guidano le azioni, ma soprattutto dal punto di vista della ricerca interiore. Di fatto, svelare il mistero che si nasconde dietro la maschera di Enigma (questo è appunto il nome del supereroe) è la metafora del disvelamento della propria identità, sotto tutti i punti di vista dell’essere umano. Dall’identità sessuale alla coscienza sociale, fino alla capacità di progettare un futuro, Michael scopre, dietro la maschera di Enigma, il vero se stesso. Ma non c’è solo questo nell’opera di Peter Milligan e Duncan Fegredo. Senza ombra di dubbio la possiamo considerare un’opera surrealista e psichedelica, merito soprattutto della componente grafica che aggiunge un livello di narrazione ulteriore a quello della semplice parola scritta. Un vortice allucinante di colpi di scena si organizza nelle pagine di questa storia, ad un ritmo talmente incalzante che non permette al lettore di concedersi pause, merito anche di una trama particolarmente ricca di svolte inaspettate e capovolgimenti di fronte. Un ultimo aspetto degno di nota è la tematica di trasgressione che richiama al contesto socio-culturale degli anni Novanta, e che certamente ha contribuito a influenzare almeno una parte dei messaggi trasmessi dall’opera. Un’opera che vale la pena leggere e conservare come esempio di grande romanzo a fumetti.

venerdì 22 aprile 2011

Prima di morire addio

Saper cambiare è importante, soprattutto per chi, per dono, ha il talento di narrare. Così, fare la conoscenza di nuovi personaggi è sempre un’esperienza piacevole per chi legge le opere di un autore a cui è appassionato. Inoltre, in questo modo acquista qualità anche il lavoro precedente, che si capisce essere riuscito non solo per la presenza di quel tale personaggio ma per la caratterizzazione che l’autore ne dà. Con questo suo ultimo romanzo, Fred Vargas rientra appieno in questi concetti. È infatti vero che “Prima di morire addio” introduce un nuovo personaggio, Richard Valence, anche lui un poliziotto, anche lui protagonista di gialli, e un altro bizzarro trio, i tre Imperatori Tiberio, Nerone e Claude. Ma è anche vero che, al di là dei facili parallelismi con le sue opere precedenti (Adamsberg per il primo, i tre Evangelisti per i secondi), abbiamo di fronte un mondo completamente diverso. Quello ce si riconosce prepotentemente nello stile della scrittrice è lo stile lineare e l’attenta e coinvolgente caratterizzazione dei personaggi. Viviamo ancora una volta una attenta e penetrante descrizione degli stati d’animo, un continuo mutamento di interessi e passioni, un accostarsi di personalità contraddittorie che, le une accanto alle altre, formano un mosaico forse poco armonico ma certamente vivace e accattivante.

Il palcoscenico si sposta, in questa avventura, dalla Francia all’Italia, nel contesto di una Roma baluardo della cultura classica, con tutti i suoi tesori e le sue ambiguità. Protagonista tanto quanto i personaggi, la città si dimostra capace di essere teatro di eventi oscuri e misteriosi, e soprattutto mette in luce una delle più grandi anomalie che il nostro paese contiene: la presenza, dentro la città, di uno stato estero. Stato di cui vediamo solo una piccolissima propaggine nel mondo, la biblioteca Vaticana, ma che è sufficiente a mettere in luce alcuni aspetti di questo luogo misterioso e pieno di contraddizioni. In questo scenario si trova a muoversi, all’inizio contro la sua volontà, Richard Valence, investigatore francese inviato nella città eterna per indagare, anzi meglio ancora per insabbiare tutto ciò che scoprirà su uno strano omicidio. L’editore ed esperto di opere d’arte Henri Valhubert, giunto a Roma per indagare sul ritrovamento di un inedito schizzo di Michelangelo, viene trovato morto nel bel mezzo di una festa notturna a piazza Farnese. Arma del delitto, un poetico decotto di cicuta, lasciato cadere nel suo bicchiere da uno dei presenti. Partecipano alla festa anche il figlio di Valhubert, Claude, e i suoi due amici Tiberio e Nerone, che insieme a lui costituiscono il trio degli Imperatori. Su pressione del fratello del morto, nonché ministro francese, il caso va insabbiato per evitare scanali deleteri. Così, Valence si trova immerso nell’afa estiva di Roma, cercando delle risposte agli interrogativi che la storia pone. In questa sua ricerca, dovrà fare i conti con una lunga teoria di personaggi variegati e spesso ben oltre il confine dell’ordinarietà, a cominciare dalla moglie di Valhubert, Laura, passando per i due ragazzi compagni di studi del figlio, arrivando persino ad un vescovo che li tiene sotto la sua ala protettrice. Facendo i conti con l’insofferenza per gli ordini ricevuti da un lato, e il desiderio di mettere tutto a nudo dall’altro, Valence dovrà dare fondo alle sue risorse fisiche e mentali per districare la matassa e trovare il colpevole, confrontandosi non solo con l’ostilità e la reticenza dell’ambiente romano, ma anche con le stranezze di un mondo fatto solo ad uso e consumo di chi ci vive dentro e ben poco accessibile per ci viene da fuori.

Una buona prova, quella della Vargas, che si cimenta dopo un po’ di tempo con nuovi personaggi. Se ci sarà un seguito alle avventure di Richard Valence e dei tre Imperatori sarò ben felice di leggere.

Richard Valence nutriva una certa avversione per le biblioteche perché bisognava astenersi da tutto: far rumore camminando, far rumore parlando, fumare, agitarsi, sospirare, insomma far rumore con la propria vita. Secondo certa gente, quelle costrizioni corporali favorivano la riflessione. In lui la distruggevano immediatamente.

mercoledì 16 marzo 2011

Giù in fondo e ritorno

Silvertown è un distretto industriale a est di Londra. Deve il suo nome a Samuel Winkworth Silver che aprì qui le sue industrie della gomma nel 1852. Oggi invece sono presenti le fabbriche della Tate & Lyle, industria petrolchimica. Questo distretto è stato investito da un forte degrado nella prima metà del '900. Nel 1917 ci fu anche la tragedia della Silvertown explosion: una esplosione di TNT che uccise 73 persone. E' ancora oggi una delle più violente esplosioni avvenute su suolo britannico. Negli anni '40 Silvertown fu pesantemente danneggiato dai bombardamenti tedeschi. A partire dagli anni '70 il distretto è stato in parte riqualificato con l'apertura del London city airport, nuovi edifici abitativi e qualche parco. Il testo di Mark Knopfler racconta proprio l'ultimo periodo vissuto da Silvertown prima della riqualifica. Ad esempio la frase "New circle of cranes and new reason to be here" descrive proprio i cantieri all'inizio degli anni Settanta. Blackwall è un altro distretto nella East End londinese. Da quel che ho capito guardando la cartina di Londra, Blackwall e Silvertown sono seprati dal Tamigi e collegati dal Blackwall Bridge.
















Silvertown blues

On Silvertown way, the cranes stand high
Quiet and grey against the still of the sky
They won't quit and lay down though the action has died
They watch the new game in town on the Blackwall side

From the poisinous drains a vision appear
New circle of cranes and new reason to be here
The big silverdome raising up into the dawn
Above the church and the homes were all the silver is gone gone gone

If I'd a bucket of gold
What would I do
Leave the story untold
Silvertown blues

I'm going down silvertown, down in silverdown
I'm going down in silvertown, down in silvertown

A silver dawn steals over the dust
A truck with no weels upon cinder blocks
Men with no dreams around the fire in the docks
Scrap metal sceams are rusting over the night night night nitgh

If I'd a bucket of gold
Silver would do
Leave the story untold
Silvertown blues

And I'm going down silvertown, down in silverdown
I'm going down in silvertown, down in silvertown

When you're standing on thin and dangerous ice
You could knock and walk in for citizens advice
Tell you the way you can turn, the way you can learn
There's nothing they can tell me I don't allready know

If I'd a bucket of gold
Silver would do
Leave the story untold
Silvertown blues

And I'm going down silvertown, down in silverdown
I'm going down in silvertown, down in silvertown

From the Canning Town train I saw a bill board high
There's a big silverplane raising up into the sky
I can make out the words seven flights every day
Say's six of those birds are bound for JFK

If I'd a bucket of gold
Silver would do
Leave the story untold
Silvertown blues

And I'm going down silvertown, down in silverdown
I'm going down in silvertown, down in silvertown
Going down slivertown, down in silvertown
I'm going down in silvertown, down in silvertown

Down in silvertown
Down in silvertown
Down in silvertown






















A Silvertown le gru rimangono in piedi
Immobili e grigie, rompono la monotonia del cielo
Non vengono rimosse, smontate, anche se l’azione è da un’altra parte
Guardano la partita che si sta giocando a Blackwall

Dagli scarichi velenosi appare una visione
Un nuovo complesso di gru, un motivo per rimanere qui
Una cupola argentea che si erge nell’alba
Sopra la chiesa e le case in cui l’argento non c’è più

Se avessi un secchio pieno d’oro cosa farei
Lascerei la storia senza finale Silvertown Blues
Andrei via da Silvertwon
Via da Silvertown
Andrei via da Silvertown
Via da Silvertown

Un alba metallica ricopre pian piano i moli
Un camion senza ruote, messo su dei mattoni
Uomini senza sogni intorno a un fuoco in un barile
Resti metallici arrugginiscono durante la notte

Se avessi un secchio pieno d’oro cosa farei
Lascerei la storia senza finale Silvertown Blues
Andrei via da Silvertwon
Via da Silvertown
Andrei via da Silvertown
Via da Silvertown

Quando ti trovi su del ghiaccio sottile e pericoloso
Puoi sempre bussare e chiedere aiuto a un passante
Loro ti dirano dove puoi svoltare, dove puoi andare
Ma non c’è niente che possano dirmi, che già non so

Se avessi un secchio pieno d’oro cosa farei
Lascerei la storia senza finale Silvertown Blues
Andrei via da Silvertwon
Via da Silvertown
Andrei via da Silvertown
Via da Silvertown

Dal Canning train vedo un grosso cartello
C’è un aereo che sale in cielo
E a malapena riesco a dire ‘sette voli al giorno’
Si dice che sei di questi aerei vadano al JFK

Se avessi un secchio pieno d’oro cosa farei
Lascerei la storia senza finale Silvertown Blues
Andrei via da Silvertwon
Via da Silvertown
Andrei via da Silvertown
Via da Silvertown


venerdì 11 marzo 2011

Signor nessuno

Quello dell’invisibilità è un tema molto sfruttato dagli scrittori che scelgono come tematiche delle loro storie quelle legate al sovrannaturale. Senza sforzare troppo la memoria, riesco a ricordare H. G. Welles, anche se devo confessare che purtroppo non ho ancora avuto occasione di leggere le sue opere, ma mi riprometto di farlo appena possibile. È proprio al romanzo di Welles che si è ispirato Jeff Lemire nello scrivere questa graphic novel, almeno da quello che si può leggere in quarta di copertina, riprendendone il tema fondamentale e trasponendolo in un’opera a fumetti piuttosto particolare.

Avete presente quelle piccole cittadine della provincia nord americana, quelle immerse nella neve otto mesi all’anno, quelle dove all’ingresso c’è il cartello con scritto ‘Benvenuti a ... Patria del... Abitanti n°...’? Quelle dove tutti conoscono tutti, tutti hanno qualche segreto, e soprattutto dove non succede mai niente, ma proprio niente? Large Mouth è esattamente una di quelle. Figuratevi quello che può succedere quando a suonare il campanello del bancone dell’unico motel si presenta un tizio interamente coperto di bende, che si chiude nella sua camera per interi giorni ed esce solo qualche minuto per procurarsi il cibo. È ovvio che tutti cominciano a parlare. Chi sarà, perché è conciato in quel modo, cosa è venuto a fare... le classiche domande da strano forestiero appena arrivato. Ma insieme a queste comincia a insinuarsi nella mente degli abitanti il tarlo della paranoia, che li porta a pensare che il mite e taciturno John Griffen possa essere un criminale in fuga che cerca di nascondere il suo volto da ricercato. Solo una persona non sembra impaurita dal forestiero, anzi ne è incuriosita, al punto da cercare timidamente di entrare in contatto con lui: la giovane Vickie, una adolescente solitaria e un po’ in contrasto con la mentalità provinciale del padre.

La storia tessuta da Lemire risulta piacevole e piena di spunti di riflessione, in particolare è interessante vedere come un evento del tutto normale come l’arrivo di una persona in un albergo possa, in base ad alcune caratteristiche, arrivare a turbare l’equilibrio sociale di una intera comunità. La paura per il diverso e lo sconosciuto è il tema conduttore di tutta la storia, ma è interessante anche vedere come è composto lo stato d’animo di questo personaggio, palesemente tormentato dai rimorsi e in fuga dal passato, alla spasmodica ricerca non solo di una soluzione per il male che lo affligge, ma soprattutto di un luogo dove essere lasciato in pace.

Molto bello infine il tratto grafico, di cui è autore lo stesso Lemire, che con una piacevole scelta tricromatica (bianco, nero e blu) riesce a rendere alla perfezione le atmosfere ambientali e psicologiche della storia pur mantenendo una impostazione molto classica e equilibrata della tavola. In definitiva, un bel romanzo grafico che merita appieno l’edizione rilegata e cartonata che le è stata data. Speriamo di vedere presto in Italia altre opere dello stesso autore.

giovedì 24 febbraio 2011

Disegnatori a Mantova!

Purtroppo non ci sarò a Mantova comics, perché tra il lavoro che non concede tregue e il fatto che tutte le fiere fumettistiche sono lontane da Palermo, non mi è proprio possibile. Però ho seguito in rete un po’ di annunci sulla manifestazione, e mi fa piacere segnalare la presenza del gruppo di disegnatori che va sotto il nome di Drawers, che ho avuto il piacere di conoscere e apprezzare allo scorso “Lucca comics & games”. Da allora seguo con piacere gli aggiornamenti che i vari disegnatori pubblicano sui profili dei social network o sui blog personali. E con lo stesso piacere voglio comunicare a quegli sventurati che capitano su queste pagine la loro presenza nella fiera mantovana. E lo faccio cun l’ultima trovata che si sono inventati, cioè utilizzare come avatar di Facebook un disegno a sviluppo verticale che pubblicizza l’evento, ognuno con un proprio disegno. Mi scuso in partenza se non li inserisco tutti, ma ci tenevo a rendere omaggio a quelle persone con le quali ho avuto il piacere di scambiare qualche parola tra un disegno e l’altro. E se il mio emissario in terra lombarda riuscirà, anche con l’uso estremo della forza, a strappare un disegno a qualcuno mentre svolge la commissione che gli ho assegnato (l’acquisto del nuovo sketch book), colgo l’occasione per ringraziare in anticipo e pubblicamente! Buon lavoro a tutti i fabbricanti di sogni! E un augurio particolare a D.D.M. per la sua laurea di cui ho avuto recente notizia!





























































domenica 20 febbraio 2011

La famiglia Winshaw

Ho finalmente colmato una delle più grosse lacune della mia storia di lettore, e in questo modo ho anche avuto il piacere di leggere finalmente quello che mi sento tranquillamente di definire il capolavoro di Jonathan Coe. In effetti, avendone letto tutti i romanzi (tranne l’ultimo, uscito qualche mese fa), posso trarre un buon bilancio della produzione di questo scrittore, e confermare che “La famiglia Winshaw” segna la svolta decisiva nella produzione letteraria dell’autore inglese. Da un lato, infatti, dobbiamo collocare i romanzi giovanili, come “L’amore non guasta” e “Donna per caso”. Dall’altro, i romanzi più maturi, sia dal punto di vista dello stile che da quello dei contenuti, rappresentati da “La banda dei brocchi”, “Circolo chiuso”, “La casa del sonno”, e “La pioggia prima che cada”. A fare da spartiacque, ma direi anche da traghettatore da una sponda all’altra, “La famiglia Winshaw”.

Michael Owen è un giovane scrittore che dopo un paio di opere discrete ma senza troppe pretese si trova a fare i conti con la classica crisi di ispirazione. A questo si aggiunga che Michael non è quello che potremmo definire una persona equilibrata ed emotivamente sana, dovendo fare i conti con un vissuto di traumi adolescenziali, illusioni e ambizioni infrante, amori frustrati e conflitti familiari, e si può capire facilmente come non sia affatto strano che trascorra buona parte delle sue giornate chiuso in una stanza a guardare ossessivamente film in videocassetta. Su questa base, si inserisce l’elemento perturbante della storia, vale a dire l’offerta che gli viene fatta di scrivere la cronaca storica di una delle famiglie più note, benestanti ed influenti dell’Inghilterra della seconda metà del Novecento: i Winshaw. Questi, dietro la facciata di rispettabili plasmatori delle sorti economico – sociali del paese, nascondono un comune desiderio di soddisfare i loro più bassi desideri: dalla brama di successo mediatico alla avidità di denaro, dagli istinti sessuali allo sfruttamento delle masse. Inseritisi ognuno in una posizione cardine dei giochi di potere del mondo contemporaneo (la politica, la finanza, il commercio, l’industria, la comunicazione), tessono le loro trame per favorirsi l’un l’altro e trarre sempre più benefici a discapito degli ignari cittadini amministrati. E i pochissimi membri della famiglia meno intaccati da questa pochezza d’animo vengono relegati nel limbo della follia, della solitudine o della morte, a seconda di quale di queste opportunità si presenti più agevole da perseguire. Nel corso della storia, vediamo quindi Michael altalenare tra il suo disagio personale e gli orrori perpetrati dai membri della famiglia Winshaw sotto gli occhi indifferenti o distratti del mondo, ma all’inizio non sembra esserci molto più di una semplice cronaca, nelle sue parole. Tuttavia, ben presto il giovane scrittore (e noi con lui) sarà destinato a scoprire che gran parte, per non dire tutto, di quello che riguarda la sua vita finora e la sua stessa esistenza al mondo è legata alla famiglia di cui sta scrivendo, e che eventi che ha sempre ritenuto frutti del caso potrebbero in realtà essere tessere di un complicato disegno tessuto da qualcuno, e ce potrebbero avere ripercussioni devastanti sul suo futuro.

Come è giustamente esplicitato in quarta di copertina, non è facile attribuire una definizione a questo romanzo capolavoro. Dalla saga familiare al giallo, passando per il romanzo di denuncia e la cronaca storica, Jonathan Coe tesse una trama che fotografa lo spaccato dell’Inghilterra dal secondo dopoguerra agli anni Novanta, intercalandola con elementi autobiografici e di grande slancio sentimentale (è solo una mia opinione, ma ho la sensazione che molto di quello che è Michael Owen sia parte di quello che è stato Jonathan Coe). Un romanzo dove nulla, neanche il più marginale dei paragrafi, è lasciato al caso, e dove realtà e finzione si fondono fino a rendersi indistinguibili l’uno dall’altro. Un romanzo che non dovrebbe mancare nella libreria di ogni appassionato del concetto di ‘narrazione’.

Insolita ed eccitante era la presenza di una persona davanti alla mia porta, ma quel piacere fu temperato non soltanto dall’inopportuno tempismo dell’interruzione ma anche dalla sensazione, caparbia e inquietante, di avere già visto quella donna: tanto che da un momento all’altro avrei potuto riconoscerla e persino rammentarne il nome. Nella mano sinistra stringeva un foglio formato A4, piegato a metà; la destra le ciondolava irrequieta sul fianco, come se stesse cercando una tasca in cui nascondersi.

giovedì 3 febbraio 2011

I giorni nudi

Claudio Piersanti era un nome che suonava familiare quando l’ho letto sul ripiano della libreria, scritto in bianco su quell’oceano blu che è la copertina del suo nuovo romanzo. Qualche tempo fa, invece, era un nome del tutto estraneo e nuovo ai miei occhi. Quella volta, la copertina aveva lo sfondo scuro, e spiccava violento il colore rosso dei capelli di lei, che nella posa china in avanti coprivano quasi interamente il viso. Quel libro era “Il ritorno a casa di Enrico Metz” e devo dire che la mia memoria ha fatto un gradevole salto indietro quando ho riletto il nome dell’autore su un nuovo romanzo, qualche mese fa. Ricordo una piacevole sensazione di leggerezza che ho provato nel leggere quel romanzo, e alcune immagini, ferme nel tempo, che scandivano il ritmo della lettura. In particolare, ho in mente l’immagine autunnale di un parco, con le foglie rosse e marroni che cadono leggere a terra. Anche questo romanzo ha una narrazione molto introspettiva, come lo era stato l’altro, sebbene questa volta ci sia un elemento diverso che mi ha colpito.

Alberto è uno scrittore di sceneggiati televisivi, da anni fa questo lavoro insieme al collega Guido e, sebbene forse ci sia nei suoi pensieri qualche rimpianto per non essersi dedicato di più al mondo del cinema, tutto sommato può ritenersi una persona soddisfatta della propria vita. Tuttavia, le vite equilibrate e regolari esistono proprio per essere perturbate da eventi straordinari, e cosa può esserci di più straordinario, per un uomo, di una donna? In seguito ad un incidente, Alberto conosce nei corridoi di un ospedale la giovane Lucia, praticamente una ragazzina in confronto a lui, con la quale stringe un legame che si capisce subito essere destinato a diventare, di lì a poco, una vera e propria relazione amorosa. Assistiamo così ad una rappresentazione della vita di questo uomo maturo dal momento in cui Lucia entra a farne parte, in cui in una prima fase leggiamo un crescendo di emozioni, mentre in seguito costatiamo il loro declino. Alberto si trova di fronte, forse suo malgrado, a pensieri e sensazioni che da sempre lo accompagnano ma che raramente hanno raggiunto il grado della coscienza, portati alla superficie della sua anima dalla freschezza ed esuberanza di Lucia, che poco alla volta prende campo nel suo piccolo mondo chiuso e angusto, portando con sé la novità. Una novità fatta di corpi che si scoprono e si desiderano, che si congiungono e si separano, che si cercano e che si trovano, ma anche una novità fatta di ciuffetti di fragola e bicchieri di yogurt lasciati in giro per casa. Così, con la ventata portata dalla ragazza, accadono eventi importanti nella vita di Alberto, come la definitiva separazione dal socio di una vita e l’avvio di nuove opportunità lavorative, la ristrutturazione della casa di villeggiatura e la partecipazione ad alcuni eventi mondani, ma Alberto non riesce a mettere da parte una crescente inquietudine: che cosa gli riserva il futuro? E che cosa il futuro si aspetta che lui faccia?

Muovendosi sul difficile confine della analisi introspettiva di un uomo ormai ben dentro i dubbi e i disagi della maturità da un lato, e le ambizioni e le frustrazioni di una donna nel pieno della giovinezza dall’altro, Claudio Piersanti traccia un meraviglioso ritratto di coppia, un dramma in due atti in cui nel primo assistiamo all’esplodere delle emozioni positive, dall’entusiasmo della novità all’esaltazione del rapporto sessuale vissuto attraverso la nudità dei corpi, mentre nel secondo è rappresentato quello che rimane quando sogni e ambizioni cozzano con la realtà e si incrinano, lasciando come traccia alcune crepe indelebili. Il tutto filtrato attraverso la psiche contorta di un uomo isolatosi volontariamente dal mondo, che non sa fare altro che cercare rifugio nel silenzio della sua casa e della sua routine. Ma quando tutto quello che era arrivato a turbare questo equilibrio scompare, ecco che il fantasma della depressione si insinua nell’animo di Alberto, che inconsciamente si punisce per quello che ha o non ha fatto e saputo fare durante quella relazione

“I giorni nudi” è un romanzo intenso, malinconico ma allo stesso tempo allegro, estremamente intimista ed introspettivo ma anche legato a doppio filo alla materialità dei corpi e delle azioni. Un romanzo che va letto con costanza e senza pause, perché solo così se ne può apprezzare appieno il significato profondo e il messaggio positivo che ne esce alla fine.

Dopo un sonno perfetto, Alberto si svegliò eccitato come quando da bambino aveva avuto in regalo la bicicletta da corsa. Suo padre era passato a prendergliela dopo il lavoro e l’aveva portata a casa che era già notte. Non potendo provarla subito si era accontentato di sognarla e al mattino si era svegliato prestissimo per rivederla: la sua stupenda Bianchi! Proprio come allora, i suoi occhi dovevano ancora saziarsi di Lucia. Scostò il lenzuolo e sprofondò nella contemplazione del suo corpo. Quel percorso nella bellezza era appena iniziato e lui capì che lo avrebbe portato lontano. Qualcuno gli aveva spiegato che la perfezione si raggiunge nel momento in cui si ha qualcosa in abbondanza e ci si può assopire sazi e certi di averne ancora al risveglio, a volontà. Facile riconoscere la matrice infantile del desiderio. Come non capire i lattanti, in questa loro passione? In poche ore era già tornato lattante. Il lattante di una donna molto più giovane di lui.

venerdì 14 gennaio 2011

Il buon ladro

Romanzo interessante, comprato per caso, un po’ come quasi tutto quello che compro, del resto, e che mi ha fatto riscoprire un genere di lettura che mi mancava da parecchio tempo. È quel tipo di romanzo che ti piace non tanto per quello che ti lascia alla fine dell’ultima pagina, ma per quello che vai trovando mentre lo leggi. Volendolo inquadrare in un genere, potremmo farlo rientrare tra i romanzi di formazione, quelli che narrano il percorso di crescita di un giovane catapultato nel mondo. In effetti questo aspetto è presente nel romanzo di Hannah Tinti, ma non è certamente l’unico e, forse, nemmeno il più significativo.

Ren, un orfano cresciuto in un convento fuori del quale è stato abbandonato appena nato, vive la sua vita con gli altri orfani, aspettando e sperando che un giorno per miracolo arrivi qualcuno ad adottarlo, prima che giunga l’età in cui potrà essere arruolato nell’esercito. E, proprio quando meno se lo aspetta, quel momento arriva. Un giovane uomo, che dice di essere lo zio del ragazzo, lo porta con sé sostenendo di essere l’unico familiare che gli rimane. Ma, appena portato via il ragazzo, Benjamin Nab si dimostra ben diverso da come si è raccontato ai frati del convento. Di fatto, dietro quella parlantina tagliente e quell’aria di chi conosce bene il mondo, si nasconde un imbroglione patentato, come Ren avrà modo di scoprire non appena avrà modo di vederlo all’opera. Comincia così un tortuoso percorso costellato di loschi affari, infarcito di tonici miracolosi, esibizioni pietose per abbindolare i creduloni, bevute ed espedienti vari per tirare a campare, ben oltre i margini della legalità, un percorso che sarà destinato a portare al ragazzo quello che non ha mai osato chiedere nemmeno nei suoi desideri più segreti.

Il romanzo procede, con una scrittura lineare e pulita, una narrazione impersonale e un ritmo sostenuto, attraverso una sequenza di vicende avventurose, alcune comiche e altre drammatiche, fino a fondersi in qualche caso in un contesto grottesco. Ma non è questo, secondo me, il punto di forza del romanzo. Al di là dello stile dickensiano, degli intermezzi di fantasia e delle pennellate macabre e inquietanti quasi da racconto dell’orrore, quelli che spiccano sono i personaggi.
Tutti quelli che incontriamo seguendo il percorso di Ren sembrano usciti da una galleria di figure ben al di fuori dei canoni della quotidianità. Un imbroglione affabulatore, un ex maestro alcolizzato, un gigantesco assassino in abito viola seppellito vivo e riesumato, una locandiera sorda, un nano che vive sopra un tetto e scende dalla canna fumaria del camino, due gemelli maledetti, un medico che acquista clandestinamente corpi per fare studi di anatomia, un losco industriale con un corteo di delinquenti a fargli da guardie del corpo. Da questo coacervo di personalità assurde, il giovane Ren saprà, con grande fantasia e capacità affabulatorie, ricavare quella famiglia che nella sua visione di orfano non può che costituire la ricchezza più grande. E, ultima ma non ultima, il romanzo ci consegna una grande verità: nei momenti in cui Ren e Benjamin avranno bisogno di trarsi d’impaccio, scopriremo insieme a loro il potere inarrestabile e il fascino irresistibile di una storia ben raccontata.

Si voltò e guardò la cantina dove si faceva il vino, poi la cappella e infine l’orfanotrofio. Era difficile credere che non avrebbe più lavorato, pregato e dormito in quel luogo. Tutto ciò che aveva sempre desiderato era andarsene, ma ora che stava per farlo si sentiva a disagio. Andò fino al muro alto che circondava gli edifici e premette il palmo umido sui mattoni. Aveva la consistenza di sempre.

sabato 8 gennaio 2011

Kill your boyfriend

Stavolta, piuttosto che con il Morrison visionario e allucinato con il quale siamo abituati ad avere a che fare, siamo alle prese con quello cinico e spietatamente critico nei confronti della società. Quello della prima parte di “Animal man”, o delle prime cinque o sei pagine di “The Invisibles”, per intenderci. Non ci sono dialoghi assurdi, non ci sono creature dall’improbabile natura, non ci sono nemmeno supereroi. C’è solo una ragazza adolescente, anonima e annoiata, dalla vita monotona e totalmente prevedibile, immersa nei cliché della società piccolo borghese di un quartiere bene, dove la più grande preoccupazione familiare è cosa potrebbero pensare i vicini. Ad un certo punto questa ragazza vede piombare nella sua vita il classico teppista, selvaggio e irresistibile, che le mette davanti le possibilità di una vita vissuta ben oltre i confini della legalità e del buon costume. Il tipico ragazzo spedito (letteralmente) ad un orfanotrofio appena nato, dentro una scatola di cartone di cui gli hanno consegnato i francobolli, cresciuto poco e male, e per il quale sesso, alcol, droga e armi sono le uniche ragioni di vita. È ovvio che una presenza disturbante come questa non può non avere un qualche effetto sulla vita di una ragazza in un periodo complicato e pericoloso come l’adolescenza. Che fare? Continuare la sua vita di privazioni e banalità come se nulla fosse, o uccidere il proprio ragazzo e darsi alla fuga, senza sapere dove andare, inseguiti dalla polizia, e avendo come unico scopo quello di trascorrere un lampo di pura incoscienza e vitalità?

Spietato e dissacrante come pochi sanno essere, Grant Morrison non perde l’occasione di criticare ogni aspetto ipocrita della società contemporanea, dalla famiglia benpensante e perbenista che ha anche qualche scheletruccio nell’armadio di cui però non si deve parlare, ai finti anarchici e rivoluzionari, che sotto il velo della contestazione artistica nascondono solo un mucchio di parole vuote e la concreta e paralizzante paura che impedisce quasi sempre di agire a coloro che spendono molto tempo a parlare. Alla fine, la vera rivoluzione (se così si può definire il suo atto conclusivo) la farà proprio quel delinquente, con una bomba a mano che era destinata ad essere solo un’immagine simbolica e concettuale. E se dieci anni possono essere sufficienti a trasformare un’adolescente in una brava mammina, non è detto che la lezione insegnatale dal poco di buono di cui si era innamorata, quella del prendere in mano la propria vita e cambiarla, con ogni mezzo, lecito o illecito che sia, non possa ancora dare i suoi frutti.