mercoledì 30 dicembre 2009

Sette missionari

Il quarto volume della collezione dei sette ci regala una storia davvero particolare, ad opera degli autori Alain Ayroles e Luigi Critone. Una storia che è difficile inquadrare in un genere preciso, in quanto la si potrebbe definire comica, satirica e grottesca allo stesso tempo, pur conservando un alone di avventura tipico di alcuni romanzi fantasy. Tuttavia, se dovessi scegliere un attributo, la definirei una satira religiosa.

Siamo in Irlanda, nel IX secolo, e le coste dell’isola sono tormentate dalle scorribande dei navigatori vichinghi, che saccheggiano, incendiano e uccidono ogni cosa e persona che incontrano sul loro cammino. I nobili irlandesi sono alle prese con una situazione politica interna molto instabile, e poco si curano di qualche monastero della costa dato alle fiamme. L’abate invece è seriamente preoccupato, ma, incurante dei suggerimenti dei suoi consiglieri, invece che una soluzione di forza ne sceglie una di astuzia. L’unico modo sicuro per liberarsi delle scorribande dei barbari sarebbe convertirli al cristianesimo. Compito tutt’altro che facile, perché comporterebbe il sacrificio di devoti missionari che sono una risorsa per la chiesa non facilmente rimpiazzabile, tra l’altro senza alcuna garanzia di successo. Ma se i migliori e più devoti uomini di chiesa non hanno possibilità di riuscire in tale impresa, forse i peggiori... È secondo questa teoria che sette monaci che si sono lasciati alle spalle i sacri principi della Chiesa, ognuno rappresentante di uno dei sette peccati capitali, vengono reclutati per la missione. Proprio quest’ultima trovata narrativa è forse l’espediente più riuscito e divertente della storia. Dove la devozione e gli alti valori morali non hanno potuto nulla per far abbandonare ai pagani i loro costumi, riusciranno i più bassi comportamenti portati avanti dai sette monaci a farli integrare nella società dei vichinghi, fino a rendere questi ultimi veri e propri seguaci della Chiesa cristiana. E poco importa se a stimolare questa conversione siano quegli stessi peccati che dai barbari vengono visti come pregi dell’intelletto. In fondo, per i vertici della Chiesa, e per i sovrani irlandesi, quello che conta è avere assicurato le loro coste dalla scorribande vichinghe. Se questo vuol dire aver vestito di porpora sette monaci rinnegati, la cui unica ambizione di vescovi sarà quella di soddisfare i propri desideri personali, pazienza.

mercoledì 23 dicembre 2009

The best is yet to come - Original main theme of Metal Gear Solid Twin Snakes














Versione gaelica

An cuimhin leat an grá
Crá croí an ghrá
Níl anois ach ceol na h-oíche
Táim sioraí i ngrá
Leannáin le smál
Leannáin le smál
Lig leis agus beidh leat
Lig leis agus beidh grá

Cuimhne leat an t-am
Nuair a bhí tú sásta
An cuimhne leat an t-am
Nuair a bhí tú ag gáire

Tá an saol iontach
Má chreideann tú ann
Tug aghaidi ar an
saol is sonas sioraí inár measc

Céard a tharla do na laethanta sin
Céard a tharla do na h-oícheanta sin
An cuimhin leat an t-am
Nuair a bhí tú faol bhrón

An cuimhin leat an t-am
Go sioraí sileadh na ndeor an ormsa nó orainne a bhí an locht

Ag mothú caiite s'ar fán
Cén fáth an t-achrann is sileadh na ndeor
Tá áilleacht sa saol
Má chuardaíonn tú e
Tá gliondar sa saol
Cuardaimís e...



















Traduzione inglese

Do you remember the time when little things made you happy
Do you remember the time when simple things made you smile
Life can be wonderful if you let it be
Life can be simple if you try
What happened to those days?
What happened to those nights?
Do you remember the time when little things made you so sad
Do you remember the time when simple things made you cry
Is it just me, or is it just us
Feeling lost in this world?
Why do we have to hurt each other?
Why do we have to shed tears?
Life can be beautiful if you try
Life can be joyful if we try
Tell me I am not alone
Tell me we are not alone in this world fighting against the wind
Do you remember the time when simple things made you happy
Do you remember the time when simple things made you laugh
You know life can be simple
You know life is simple
Because the best thing in life is yet to come
Because the best is yet to come...


















Traduzione italiana

Ti ricordi il tempo in cui piccole cose ti rendevano felici?
Ti ricordi il tempo in cui le piccole cose di facevano sorridere?
La vita può essere meravigliosa se lasci che lo sia
La vità può essere semplice se ci provi
Cos'è successo a quei giorni?
Cos'è successo a quelle notti?
Ti ricordi il tempo in cui quelle piccole cose ti rendevano triste?
Ti ricordi il tempo in cui quelle piccole cose ti facevano piangere?
È proprio come me, o è proprio come noi
sentendoci persi in questo mondo?
Perchè dobbiamo ferirci ancora?
Perchè dobbiamo versare altre lacrime?
La vita può essere meravigliosa se ci provi
La vita può essere gioiosa se ci proviamo
Dimmi che non sono solo
Dimmi che non siamo soli che combattiamo contro il vento in questo mondo
Ti ricordi il tempo in cui le cose ti rendevano felice?
Ti ricordi il tempo in cui le cose ti facevano ridere?
Sai che la vita può essere semplice
Sai che la vità è semplice
Perchè le cose migliori della vita devono ancora venire
Perchè il meglio deve ancora venire...






lunedì 21 dicembre 2009

Team medical dragon

Per chi è abituato, anzi per meglio dire costretto, ad accontentarsi delle pubblicazioni manga in Italia, questo fumetto sembrerà la proverbiale mosca bianca. Ma con qualche piccola ricerca si può facilmente scoprire che in realtà non è questa opera così inconsueta come molti mangofili italiani potrebbero pensare. Il motivo è che nel nostro paese arriva forse il dieci percento della produzione fumettistica d’estremo oriente, e solo negli ultimi anni si è cominciato ad aprire il mercato anche ad opere che non fossero esclusivamente giapponesi, imparando a conoscere fumetti coreani, cinesi e tailandesi.

Prima di questo, l’unico altro esemplare di manga medico che riesco a ricordare è “Black Jack” di Osamu Tezuka. Volendo forzare un po’ la mano, potremmo includere nel genere anche “Monster” di Naoki Urasawa, che sebbene non abbia come argomento la medicina, ha per protagonista un chirurgo e sulle sue pagine si vedono non pochi episodi di vita medica. E qui ci fermiamo. Mentre proliferano a dismisura film e telefilm ambientati in ospedali e dintorni, nel mondo del fumetto poco si muove. E dire che in Giappone già da diversi anni il manga medico rappresenta un genere a sé stante. Negli anni 1970 – 1971, proprio Tezuka realizza il primo manga di argomento medico, “Kirihito Sanka”, per poi dedicarsi, a partire dal 1973, a “Black Jack”, considerato uno dei manga migliori della storia del fumetto. Negli anni Ottanta, ancora il maestro Tezuka scrive “Hidamari no ki” (L’albero al sole), che ha come protagonista il suo bisnonno, un medico vissuto a metà Ottocento. “Black Jack” è da considerare il principale responsabile della esplosione dei manga ambientati in sale operatorie, cliniche e ospedali, che, specialmente a partire dagli anni Novanta, ha generato una vastissima serie di opere di questa impostazione. Esistono manga medici di tutti i generi, dal drammatico al comico, dal giallo al thriller. Ma non sto parlando solo di un fenomeno quantitativo, ma anche culturale. Ben lontano dalla interpretazione occidentalista, in cui tutto quello che viene scritto è in qualche modo considerato, con pochissime eccezioni, fuori dalla realtà e quindi irrilevante ai fini pratici, in Giappone un manga come “Say hello to Black Jack” fece scandalo agli inizi del 2000 denunciando le precarie condizioni in cui lavoravano i medici di diverse strutture assistenziali, riuscendo addirittura a far cambiare alcune leggi per migliorare la situazione. “Team medical dragon” si inserisce proprio in questo filone che potremmo definire socialmente coinvolto, in quanto il contesto della storia è rappresentata dall’ambiente degli ospedali universitari.

Il giovane dottor Asada è un genio della chirurgia, uno per cui quasi niente è impossibile, e proprio per queste sue strabilianti qualità viene reclutato dalla dottoressa Kato nello staff dell’ospedale universitario Meishin, con lo scopo di dirigere il team che dovrà portare a termine una difficilissima operazione sperimentale da inserire in un progetto di ricerca. Ma Asada unisce alla sua capacità medica fuori dal comune una innata intolleranza alle logiche affaristiche e manageriali che attanagliano gli ospedali universitari, luoghi dove la corruzione e l’opportunismo fanno a pezzi qualsiasi principio etico, al punto che si operano solo pazienti che possono affrontare bene gli interventi per non abbassare la media delle operazioni portate a termine con successo, o che i chirurghi accettino “regali” in denaro per far sì che tutto vada per il meglio. Ovviamente Asada, forte delle sue capacità e della fiducia in se stesso, fa di tutto per opporsi a questo regime corrotto, scegliendo di non scendere mai a compromessi e di cambiare le cose per quanto può. In particolare saranno proprio la dottoressa Kato e il giovane assistente Ijuin a sperimentare la prorompente forza di carattere di Asada, che riuscirà a poco a poco a sradicare le deviate convinzioni inculcate nei colleghi da anni e anni di quel regime. Scontrandosi spesso con la collega Kato, che invece ritiene che l’unico modo per cambiare qualcosa sia infiltrarsi all’interno del sistema universitario scendendo a compromessi e agendo con osservanza delle regole fino a che non si avrà un potere sufficiente per cambiarle.

Un’opera che, a dispetto di quanti considerano il fumetto come un mero passatempo privo di valore culturale, si pone come strumento di denuncia del pessimo ambiente medico universitario, che andrebbe letto anche solo per rendersi conto che certe cose accadono senza che gli stessi interessati si pongano il problema di considerarne la correttezza, e che dovrebbe spingere ad una profonda riflessione non solo culturale e sociale, ma anche economica e politica tutti coloro che sono responsabili di questo andazzo. E mi rivolgo in particolare ai giovani medici come me che conosco il serio rischio di lasciarsi impantanare in queste logiche solo perché il contrastarle può portare non pochi svantaggi. Perché, contrariamente a quanto ci dice la pubblicità, non è così divertente vincere facile, c’è molta più soddisfazione a vincere difficile.

venerdì 18 dicembre 2009

American Gods

Conoscevo Neil Gaiman solo per le sue opere a fumetti, come credo lo conosca la maggior parte della gente, ma sapevo che aveva scritto anche parecchi romanzi di genere fantasy. In realtà, gli unici di cui avevo sentito parlare erano “Stardust”, perché ne è stato tratto un film, e “Nessundove”, perché ho letto la graphic novel che Mike Carey e Glenn Fabry hanno realizzato sulla base del romanzo. Poi un giorno, avendo la possibilità di fare una grossa spesa in libreria come regalo di alcune mie cugine, ho deciso che nel cestino avrei messo anche alcuni dei suoi romanzi. Non c’è un motivo preciso per cui ho letto questo prima degli altri. Semplicemente, era il primo della fila quando li ho messi in ordine nello scaffale.

Chissà perché (dovremmo chiederlo direttamente a lui), Gaiman ha sempre avuto molta affinità con il concetto di divinità (giuro che non volevo affatto fare la rima!). In quella che è universalmente riconosciuta come la sua più grande opera, la saga di “Sandman”, compaiono a più riprese decine di dei più o meno noti, e gli stessi Eterni, sebbene per sua stessa precisazione non siano degli dei, hanno caratteristiche che li avvicinano molto a entità divine. Ma anche in altre sue opere, come “Mistero celeste”, c’è una vicinanza con i temi del divino che non può essere casuale. E la stessa cosa accade in “American Gods”.

Appena uscito di prigione, senza più famiglia né lavoro, Shadow deve trovare un modo per sopravvivere. Il caso, o almeno così lui crede, gli fa incontrare il misterioso signor Wednesday, che gli propone di lavorare per lui. Non sapendo cos’altro fare, e incuriosito piuttosto che spaventato dalle inquietanti stravaganze dell’uomo, Shadow accetta. Ma all’inizio non si rende conto che il suo nuovo datore di lavoro altri non è che il signore degli Asi, il dio delle forche, Odino, il padre universale della mitologia nordica, arrivato in America secoli prima su una nave vichinga e adesso costretto a rimediare da vivere come può. Odino non è certo l’unico dio ad essere approdato nel Nuovo Mondo, lo hanno fatto anche molte altre divinità di religioni originarie di altre terre, giunte in America con i loro popoli, che per scelta o per costrizione sono emigrati in questo paese. Infatti, perché esista un dio, è sufficiente un uomo che ci creda, che lo invochi e che lo preghi, e così fanno la loro comparsa in America la celtica Easter, l’africano Anansi, lo slavo Cernobog e molti altri. Ma, col passare del tempo, sempre meno uomini credono in questi antichi dei, cosa che affievolisce il loro potere, e sempre di più prendono campo i nuovi dei del mondo, il Denaro, i Media, la Finanza, le Patatine fritte, e così via. Per questo, il signor Wednesday vuole reclutare quanti più antichi dei è possibile, per muovere guerra ai nuovi e riconquistare il posto che ritiene gli spetti nel Nuovo Mondo. Per questo scopo, ha bisogno di Shadow, che da semplice autista e guardia del corpo diventerà lo strumento di persuasione per tutti gli altri dei. Ma quale prezzo dovrà pagare Shadow per compiere questa missione? E quale sarà il vero scopo di Wednesday? Tutto questo lo si potrà scoprire solo mettendosi in viaggio sulle strade d’America, la profonda e sconfinata America, deserta e solitaria come il deserto e le montagne, non quella piccola e affollata di metropoli e grattacieli.

Un romanzo che può essere visto in molti modi: enciclopedia degli dei delle principali religioni del mondo, road story sulle strade della profonda America, scoperta di se stessi e delle proprie motivazioni, intricato complotto per la conquista dell’animo umano. C’è spazio perfino per i sentimenti, per la tormentata storia tra Shadow e la defunta moglie Laura. Più di questo, non so proprio cosa altro il buon Neil potesse scrivere, in un solo libro!

“Pensavo di essere già nel regno dei morti” disse Shadow.
“No. Non ancora. Siamo in una fase preliminare”.
L’imbarcazione scivolava sulla superficie immobile dell’acqua sotterranea. Poi, senza muovere il becco, il signor Ibis continuò: “Voi parlate di vivi e morti come se si trattasse di due categorie che si escludono a vicenda, come se non si potesse avere un fiume che è anche strada, o una canzone che è anche colore”.
“Infatti non si può” disse Shadow. “Vero?”. Dall’altra sponda l’eco rimandava le sue parole in un sussurro.
“Devi ricordare” riprese il puntiglioso signor Ibis “che la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia. Come testa e croce sulla moneta”.
“E se avessi una moneta truccata?”.
“Non ce l’hai”.

lunedì 14 dicembre 2009

Sette pirati

Ricordo di aver visto “L’isola del tesoro” almeno una decina di volte, anche se purtroppo non ho mai avuto l’occasione di leggere il romanzo. Sarà stato per la passione per il mare o per l’avventura, ma da piccolo era uno dei miei film preferiti. Ricordo ancora le mappe del tesoro disegnate su fogli di carta bruciacchiati, e le X rosse ad indicare posti dove erano state sepolte scatole di metallo o conchiglie. E così, leggere questo terzo volume della serie dei sette mi ha riportato alla mente quei ricordi e quelle emozioni di bambino, quando la vita doveva essere un’avventura, quando guardare al futuro significava vedere mete lontane e sogni da realizzare. Quando ci si divertiva per ore con una corda appesa a un ramo.

“Sette pirati” è una rivisitazione del famoso romanzo “L’isola del tesoro” di Robert Luis Stevenson, e dell’opera originale riprende molti dei temi narrativi. Jim Howkins è cresciuto, e sono passati già quindici anni da quando è tornato dalla spedizione che per la prima volta era partita alla ricerca del famigerato tesoro del capitano Flint. Ora Jim è un commerciante coperto di debiti e costretto a vendere la sua nave e a rinunciare ai suoi sogni di uomo di mare. Ma quando un notaio gli propone di far parte di una spedizione di sette uomini per tornare sull’isola di Flint a cercare il secondo dei suoi nascondigli del tesoro, Jim non solo vede l’occasione per riconsolidare le sue finanze traballanti, ma sente anche il prepotente richiamo dell’avventura, al quale non sa resistere. Con alcuni componenti della vecchia ciurma, Jim parte alla volta dei Carabi, alla ricerca di un nuovo tesoro. Ma anche stavolta, intrighi e tradimenti, nonché le ambizioni di un pirata ossessionato dal mito di Flint, si opporranno alla sua ricerca. Se Jim e i suoi compagni riusciranno a cavarsela e a trovare il tesoro, nonché a scoprire il misterioso committente che li ha ingaggiati, lo sapremo solo leggendo il bel racconto di Pascal Bertho e Tim McBurnie.

Un volume ricco di citazioni dell’opera originale, che suscita non poca nostalgia in chi si era appassionato tanto a quelle storie da sperare un giorno di viverle realmente. Molto carina, in questo senso, la scena in cui il giovane mozzo della spedizione, Bjorn, finisce nel barile delle mele e così viene a conoscenza del complotto che si sta tramando alle spalle del gruppo, proprio come Jim, quindici anni prima, aveva scoperto nello stesso modo le trame di Long John Silver. Un gioco di citazioni che è tutto un omaggio da parte degli autori al romanzo dello scrittore inglese, ma anche un invito a non perdere mai di vista i propri sogni.

“Ognuno cerca il suo tesoro, Jim... Qual è il vostro? L’avventura, forse? Avete ragione. Buona o cattiva, l’avventura è la vita!”.

martedì 1 dicembre 2009

The Brave and the Bold - Il libro del destino

L’universo DC è qualcosa di enormemente vasto, dal punto di vista narrativo, tanto quanto e forse più di quello Marvel. Tuttavia, a mio modo di vedere, c’è una differenza sostanziale tra i due principali rappresentanti del fumetto supereroistico. Entrambi vedono muoversi al loro interno migliaia di personaggi tra grandi protagonisti e piccole comparse, e entrambi hanno le caratteristiche tipiche delle cosiddette soap opera, quelle cioè di portare avanti lunghe sottotrame che fanno da sfondo alle singole storie, e di considerare i singoli eventi come parte di un unicum, in quella che viene classicamente chiamata continuty. Tuttavia, è proprio in questo concetto che si manifesta l’elemento di diversità principale: la continuty DC è sempre stata qualcosa di più malleabile e sfumato rispetto a quella Marvel, molto più rigida e schematica. Per semplificare, si può dire che la DC prevede dei grandi eventi unificatori in cui le azioni e le storie della gran parte dei suoi personaggi confluiscono in un’unica narrazione, ma al di fuori di questi eventi, le singole serie mantengono un sufficiente grado di autonomia. Invece nell’universo Marvel questa autonomia è quasi assente, e tutte le serie e i loro personaggi si trovano ingabbiati in strette regole temporali. Tutto questo ha delle conseguenze secondo me deleterie per la qualità delle storie. Da un lato, gli autori si trovano costretti a fare i conti con regole narrative piuttosto rigide, e inoltre per coordinare le loro opere in modo che non ci siano contraddizioni devono limitare grandemente la loro creatività. Dall’altro, i lettori sono costretti a seguire storie e personaggi che magari suscitano poco i loro interessi, solo perché le azioni di questi hanno ripercussioni decisive sulle altre serie che seguono. Nel mondo della DC Comics, invece, questo modo di concepire il fumetto è solo una possibilità lasciata al lettore, non un obbligo. Chi vuole seguire tutte le serie degli eroi DC, noterà che vi sono dei punti di contatto, ad esempio la presenza di un personaggio nella serie di un altro, o un particolare atteggiamento dovuto a qualcosa successo in un’altra storia. Ma chi vuole seguire le avventure di un solo personaggio, è perfettamente in condizione di godersi quelle storie senza buchi neri o contraddizioni. Gli elementi narrativi fondamentali vengono spiegati nelle singole storie, le sottigliezze sono lasciate ai lettori più appassionati. In altre parole, nessuno si pone il problema se Batman è sul satellite della Lega in una storia di JLA e contemporaneamente sta picchiando Killer Croc nelle fogne di Gotham sulla sua serie personale. Così come è ovvio che se muore il padre di Robin in una storia fuori collana, questo avrà delle ripercussioni sul suo comportamento quando è con i Giovani Titani.

Proprio questo è l’atteggiamento narrativo che ispira le storie di “The Brave and the Bold”, serie che prende in prestito un classico titolo dell’età dell’oro dell’universo DC. In questo secondo volume, leggiamo un arco narrativo che si riallaccia al primo, ma perfettamente godibile anche da chi non l’ha letto. Così, un lettore assiduo di tutte le serie DC coglierà qualche riferimento alla imminente crisi che incombe sull’universo, ma il non sapere che esiste un progetto chiamato “Crisi finale” che sta vedendo la luce in questo periodo non penalizza la lettura. È proprio questo il motivo per cui questa serie è così ambita dagli autori, perché dà modo di spaziare con la creatività e inoltre permette di utilizzare più di un protagonista, senza preoccuparsi di fastidiosi legami con altre testate. Se ci aggiungiamo il carattere tipicamente avventuroso, nel puro stile dei supereroi di qualche decennio fa, abbiamo un’opera divertente e rilassante, da godersi appieno, che ci fa conoscere meglio personaggi che abbiamo già visto all’opera e ce ne mostra lati interessanti e unici per il contesto in cui si trovano ad agire. Non dico nulla volutamente sulla storia, preferisco lasciarla a quanti vorranno godersi una piacevole lettura.