venerdì 29 febbraio 2008

In memoria 7 - La bella scuola

“Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire.
Quegli è Omero, poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che viene;
Ovidio è il terzo, e ultimo è Lucano,
però che ciascuno meco si conviene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene.”
Così vidi adunar la bella scuola
di quel signor dell’altissimo canto,
che sovra gli altri com’aquila vola.

Inferno, canto IV versi 86-96

mercoledì 27 febbraio 2008

Preghiera in gennaio

Come i pensieri si intrecciano nelle circonvoluzioni cerebrali incrostandole fin nel profondo, è qualcosa di così misterioso da sembrare spesso assurdo. Un’associazione che definirei bislacca è all’origine di queste righe. Il primo membro della coppia è la pubblicità che presenta l’annuale edizione del festival di Sanremo, il secondo è un dato, letto su una dispensa di studio, che dice che ogni anno nell’Unione Europea muoiono cinquantottomila persone per suicidio, più morti di quanti ne causino incidenti stradali, omicidi e AIDS. Da cosa mai potrebbero essere legati i suicidi e il festival di Sanremo, vi chiederete. Nella mia mente, lo sono dal fatto che il 27 gennaio 1967 Luigi Tenco si suicida in una camera dell’Hotel Savoy, dopo aver appreso il risultato del festival a cui aveva partecipato. Non starò qui a parlare delle turbe psichiche che il cantautore doveva certamente avere, né delle circostanze che lo hanno portato a compiere quel gesto. Vorrei invece riflettere un attimo sul fatto che allora, cosa che forse non tutti sanno, ai suicidi veniva negato un funerale cristiano e la sepoltura in terra consacrata, in quanto la privazione volontaria della propria vita era considerata, a prescindere dalle motivazioni, un peccato mortale che non meritava perdono neanche dopo la morte. Non mi va di dilungarmi a dissertare su quanto sia meschina e gretta questa interpretazione, non ancora da tutti abbandonata a tutt’oggi. Preferisco che a parlare siano le strofe di questa canzone, “Preghiera in gennaio”, composta proprio in onore di Tenco da tale Fabrizio de Andrè, che su uomo e spirito una cosetta o due la sapeva.

Preghiera in gennaio

Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero
quando a te la sua anima e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare, quando verrà al tuo cielo
là dove in pieno giorno risplendono le stelle.

Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte
ai suicidi dirà, baciandoli alla fronte,
“Venite in paradiso, là dove vado anch’io
perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”.

Fate che giunga a voi, con le sue ossa stanche,
seguito da migliaia di quelle facce bianche.
Fate che a voi ritorni, fra i morti per oltraggio,
che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio.

Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai santi, Dio tra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte.

Dio di misericordia, il tuo bel paradiso
l’hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso,
per quelli che han vissuto con la coscienza pura:
l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.

Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare
gli errori di noi tutti, che vuoi e puoi salvare.
Ascolta la sua voce, che ormai canta nel vento:
Dio di misericordia, vedrai, sarai contento.

martedì 26 febbraio 2008

In memoria 6 - Il Limbo

“Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta della fede che tu credi;
e se furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio;
e di questi cotai io sono medesmo.
Per tai difetti, e non per maggior rio
semo perduti, e sol di tanto offensi,
che sanza speme vivemo in desio.”

Inferno, canto IV versi 33-42

Un augurio

Oggi è il giorno in cui iniziano i concorsi per l'accesso alle scuole di specializzazione della mia facoltà. Purtroppo io non posso ancora parteciparvi, ma spero che l'anno prossimo in questo periodo sarò anch'io seduto a fare quel compito. Però voglio augurare un grandissimo in bocca al lupo a delle persone che sono certo oggi si faranno onore: Giuseppe, Daniele, Roberta, Cristina C., Alessandra, Marianna, Davide, e a tutti gli altri che conosco e che adesso non mi vengono in mente.
Un pensiero speciale a Maria Antonietta e Cristina L., una per l'affetto che ci lega da ormai dodici anni, l'altra per il sostegno che mi ha dato negli anni di studio. Non importa quanto tempo passa, vi penso sempre.

lunedì 25 febbraio 2008

Disgusto

Riesco a stento a trattenere i conati di vomito mentre le mie dita nervose picchiano sulle lettere della tastiera, intente a dare forma ai pensieri che mi si affollano in mente. Intanto ringrazio l’amica (ormai credo di poterla definire così...) e collega Sara per avermi messo a conoscenza della irragionevole gogna mediatica alla quale sono stati esposti tutti i possessori di blog on line.

In una puntata del programma (mi ripugna definirlo tale, non fosse altro che per il rispetto dovuto a chi fa veri programmi d’informazione) “Porta a porta”, una degli ospiti di Bruno Vespa è la ginecologa e sessuologa medica (?!?) Alessandra Graziottin, la quale, su invito del conduttore, si lancia in una elucubrazione psicologico-sociale sulla presunta necessità per un giovane oggi di avere un blog privato. Ripercorro solo alcuni punti trattati, e rimando chiunque legga a vedere di persona il filmato.

1) Oggi molti giovani e meno giovani esistono in quanto sono visibili su internet; internet è il loro mondo, è la loro piazza, il loro paese [...] e la visibilità oggi è un paradigma di valore più della qualità della persona.

2) Quello che attrae su internet, come su tutti i mezzi visivi, è la possibilità di una attrazione sessuale con un messaggio esplicito o implicito.

3) Questo crea la proliferazione di tutti questi siti di prostituzione virtuale, che inizia virtuale e che poi può andare oltre, autogestiti nel blog personale.

4) Si arriva poi a una esposizione di sé provocatoria, perché in questo provocare si attrae il consenso oggi di un certo tipo di adolescenza che esiste in quanto ha un’identità negativa.

5) C’è tutta una doppia vita segreta che parte dal blog e si esplicita poi per esempio in una sessualità che ha tutta una serie di connotati di promiscuità, di rischio, di prostituzione, di autodistruttività, sulla quale dobbiamo veramente riflettere.

Ho guardato e riguardato il filmato più volte, per cercare di cogliere quale possa essere l’utilità di far passare questo tipo di messaggi, e quali possono essere le motivazioni che stanno alla base di queste affermazioni generaliste e faziose. Vespa dice che il problema fondamentale è che il mondo “adulto” oggi si confronta con la propria incapacità di decifrare il mondo dei giovani. E l’avanguardia del disagio giovanile viene concretizzata nel blog personale su internet, spia di una interiorità violenta e frustrata che inizialmente si esprime in queste forme di comunicazione, per poi sfociare in comportamenti immorali o francamente delittuosi (prostituzione, uso di sostanze stupefacenti, omicidi).

Io ho solo venticinque anni, forse non sono adulto, forse non sono più tanto giovane, e spero che il mio tentativo di dare una risposta alla prima domanda non sia interpretato come presunzione. Perché gli adulti non comprendono i giovani? Secondo me è semplicemente perché gli adulti sono adulti e i giovani sono giovani. Non c’era internet quando i ragazzi si lasciavano crescere i capelli e ascoltavano la musica rock per puro desiderio di ribellione. Quando non c’erano i blog c’erano le sale da biliardo, i club sportivi, gli oratori. Erano tutti luoghi in cui i ragazzi condividevano delle esperienze, si scambiavano opinioni, discutevano, litigavano, si odiavano e si amavano. E i genitori di allora non li conoscevano bene tanto quanto non ci conoscono bene i nostri genitori di oggi. Ed giusto anche questo, in una certa misura. Un genitore deve fare il genitore, non l’amico o il compagno di scuola. Ci devono essere le incomprensioni, i litigi, le punizioni, e tutto quello che contribuisce alla formazione di una persona. Ma c’è di più. Molto spesso manca la reale volontà di conoscere i propri figli, e questa non conoscenza è solo il pretesto buono per lamentarsi con gli amici o i colleghi alle cene di lavoro, perché avere dei figli “difficili” e riuscire a tirarli su è motivo di orgoglio. Tempo fa mi capitò di assistere ad un incontro tra un sociologo contemporaneo (di cui non ricordo il nome) e un gruppo di studenti delle superiori, ed alla domanda di uno di questi sul perché i figli hanno spesso un atteggiamento conflittuale con i genitori, rispose: “I genitori commettono un gravissimo errore: quello di preoccuparsi per i figli. Se fanno tardi la sera, se vanno in discoteca, se non prendono buoni voti a scuola. Dovrebbero una buona volta smettere di preoccuparsi per i figli e imparare ad occuparsi dei figli”.

Prostituzione virtuale che poi può andare oltre? Questa stronza che viene pagata per sedere su quella poltrona e parlare dell’interiorità di una persona come se stesse parlando di cucina non è il miglior esempio di prostituta? E mi vengono a dire che guardare leggere un libro e voler condividere le emozioni che si sono provate con altre persone che grazie a internet, non importa quanto siano lontane, possono entrare in contatto con chi scrive, è prostituzione? E allora che cosa sono i giornalisti che si vendono ai politici per fare propaganda ai loro pseudo-messaggi? Che cosa sono i direttori di rete che danno enormi spazi di trasmissione ad alcuni mentre altri sono relegati in nicchie senza nessuna possibilità di ascolto? Che cosa è Bruno vespa quando per mesi ci martella con i suoi libri pubblicizzati in tutte le reti RAI? A nessuno è venuto in mente che i migliori esempi di puttane erano proprio in quello studio? Personalmente, è stata la prima cosa che ho pensato quando ho visto il filmato. Ma io sono di parte, visto che ho un blog personale, che aggiorno nel tempo libero tra un omicidio, i servizietti ad un cliente e una spada (per chi non lo sapesse, in gergo vuol dire iniezione di eroina). Per questo, la cosa migliore è guardare il filmato e farsi le proprie opinioni. Magari, dopo fate un salto a firmare la petizione contro la presenza in RAI di Bruno Vespa.

Ah, dimenticavo, un ultimo, piccolo appunto: carissima “dottoressa” Graziottin, la parola “autodistruttività” non esiste nel dizionario della lingua italiana aggiornato al 2007, farebbe meglio a frequentare qualche corso serale di grammatica, ma nelle more le suggerisco due sinonimi che può utilizzare: “autodistruzione” e “autolesionismo”, dove il primo rappresenta un elemento di degrado personale a livello interiore, mentre il secondo prevede una componente fisica del danno inferto alla propria persona.

domenica 24 febbraio 2008

In memoria 5 - Caronte

Ed ecco verso di noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo!
I’ vegno per menarvi all’altra riva
nelle tenebre eterne, in caldo e in gelo.
E tu che se’ costì anima viva,
partiti da cotesti che son morti!”
Ma poi ch’ei vide ch’io non mi partiva
disse: “Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare;
più lieve legno convien che ti porti.”
E il duca a lui: “Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.”
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier della livida palude,
che intorno agli occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che inteser le parole cruse.
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
l’umana spezie, il luogo, il tempo e il seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, alla riva malvagia
che attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

Inferno, canto III versi 82-111

giovedì 21 febbraio 2008

Mistero celeste

Ho letto parecchio di Neil Gaiman, anche cose che non hanno ricevuto moltissima pubblicità. Ad essere sincero, dopo il capolavoro della saga di Sandman, poco altro si riesce ad apprezzare con lo stesso entusiasmo. È come quando si raggiunge una vetta: vuoi o non vuoi, il resto sarà sempre discesa, non c’è un posto più alto in cui arrivare. Più o meno la stessa cosa ha scritto Harlan Ellison in quella introduzione a “La stagione delle nebbie” di cui riporterò un passo nel post dedicato a quel volume. Per questo, quando ho comprato “Mr. Punch”, “The books of magic”, “La crociata dei bambini”, l’ho fatto più per collezionismo che per reale curiosità: volevo avere anche le altre opere di Gaiman, ma sapevo che non potevano essere come Sandman. La stessa cosa è successa con “Mistero celeste”. Lo vidi nel mucchio degli arrivi settimanali della fumetteria che frequento, un’unica copia, e lo misi subito tra le cose che ho da parte, per comprarlo e portarlo a casa quella sera stessa, solo per inserirlo nella libreria insieme alle altre ‘cose’ di Gaiman (un po’ quello che succede con le opere di Moore o Morrison), riproponendomi di leggerlo senza troppa premura. Mi sono dovuto ricredere.

Prima ancora della Terra, del Sole, dell’intero universo, c’era la città d’argento, il luogo in cui Dio affidava agli angeli la sua volontà perché portassero avanti il suo progetto di creazione. Perché Dio ha un piano, ha tutto sotto controllo, ha previsto tutto. O forse no? Accade qualcosa, qualcosa di sbagliato, qualcosa che va contro le regole, qualcosa che va punito. Per questo, viene chiamato l’angelo della vendetta, il braccio armato di Dio, e viene incaricato di scoprire chi è il responsabile dell’assassinio di un altro angelo, e di punirlo adeguatamente. Tra gli interpellati c’è anche Lucifero, il primo tra gli angeli, il braccio destro di Dio. Lucifero, che a volte indugia a camminare al di fuori della città, nella zona oscura, dove voci menzognere gli sussurrano le ingiustizie di cui Dio si ammanta ogni giorno. Ma Lucifero le ignora, anche se vuole conoscerle. L’angelo della vendetta scopre il colpevole, e gli impartisce la punizione divina, distruggendolo davanti agli occhi di Lucifero. Ma quell’angelo aveva assassinato il suo simile per amore, perché non poteva più sopportare di non essere corrisposto come era stato un tempo. Secondo Lucifero, questo doveva bastare come attenuante. Ma la volontà di Dio non conosce attenuanti, la sua vendetta non ammette appelli. Resta una sola cosa da fare.

Con una storia mirabilmente intessuta, Gaiman ci spiega come tutto va ricondotto alla volontà del creatore, come il suo disegno rimanga imperscrutabile anche agli occhi delle sue più dirette emanazioni. È la volontà di Dio che fa in modo che Lucifero sia presente all’esecuzione, così come è stata la volontà di Dio che gli ha ordinato di addestrare gli angeli per la guerra. E per la guerra serve un nemico, serve qualcuno che dubiti, qualcuno che si ribelli. Chi meglio del primo tra gli angeli, del portatore della luce divina, potrebbe ricoprire questo ruolo? Un ruolo fondamentale per le sorti dell’intero creato, perché l’unica cosa che dà valore a un’idea è l’esistenza di qualcuno che la contesti, ciò che rende vera la volontà di Dio è il fatto che Lucifero abbia creduto alle parole delle voci nell’oscurità, e messo di fronte alla dimostrazione che Dio non è un essere misericordioso ma spietato, sceglie di opporsi alla sua volontà, sceglie di essere libero. A questo punto non importa quale sia l’esito finale della guerra, l’unica cosa importante era che venisse combattuta, che i due si fronteggiassero, in modo che il vincitore sarebbe stato il vero Dio, e l’altro la concretizzazione del male.
Non so quanto questo possa risultare difforme dalla dottrina ufficiale, ma di sicuro è convincente. A pensarci un attimo, la conclusione è quasi banale: se Dio è un essere onnipotente e onnisciente per definizione, allora chi se non lui stesso può aver creato il male? Non è quindi il male che si oppone a Dio, ma lui stesso che, per legittimarsi, crea la sua antitesi. Sarà veramente così? Ad ognuno la libertà di scegliersi ciò in cui credere.

Sarebbero tanti gli accorgimenti letterari e stilistici da sottolineare nel racconto di Neil Gaiman, adattato a fumetti da P. Craig Russell, ma credo che il modo migliore per coglierli appieno sia quello di leggerlo. Senza premura, senza altro per la testa. In fondo, non gli dispiacerà aspettare qualche altro giorno sullo scaffale della libreria, basta che, quando verrà letto, venga letto veramente.

martedì 19 febbraio 2008

Ricostruzioni

Non è facile scrivere un romanzo psicologico. Il grosso rischio che si corre è quello di annoiare, perdendosi in tecnicismi privi di passione, o in divagazioni troppo poco concrete per essere seguite. E d’altra parte, avendo a che fare con qualcosa di così impalpabile come quel complesso di esperienze emozionali che tutti noi chiamiamo mente, non è possibile neanche essere troppo concreti, o si cade nell’errore opposto, quello di banalizzare aspetti di cui non tutti sappiamo parlare ma che di certo in qualche modo tutti percepiamo come nostri.

Josephine Hart riesce a percorrere questa strettoia tra i due aspetti con la destrezza di un funambolo che volteggia avanti e indietro sulla sua fune sospesa nel vuoto, facendo trattenere il fiato ai suoi spettatori. Spettatori del dramma familiare narrato in “Ricostruzioni” siamo noi lettori. Tre sono i protagonisti. Jack, quarant’anni, borghese benestante, psicanalista di successo, divorziato. Kate, sua sorella minore, modella venerata da tutti come una dea, alle porte del secondo matrimonio. Malamore, la casa della loro infanzia, in Irlanda. Come le capita ogni volta che nella sua vita si avvicina un evento importante, Kate entra in crisi, una crisi che porta il marchio inquietante di una tragedia avvenuta a Malamore negli anni dell’infanzia, che ha coinvolto anche il fratello. Jack, che vive il suo divorzio come un fallimento ed è ossessionato dal rimorso, non può non fare a meno di correre in soccorso della sorella, come ha fatto ogni volta, durante la sua vita , in quei ripetitivi momenti di crisi.
La ricostruzione del titolo è sia fisica che psicologica e storica. Quella fisica è legata ai lavori per il restauro della tenuta di Malamore, e segue passo passo la ricostruzione interiore dell’uomo che, uno ad uno, rimette insieme i frammenti di quell’infanzia, e si costringe a varcare, ancora una volta, quella sottile soglia che separa il legame di sangue di due fratelli da un’unione, una condivisione ben più materiale, concreta e sensuale. Nel contesto di tutto ciò si inseriscono, prima confusi e sfumati, poi sempre più nitidi e devastanti, i ricordi dei genitori, immagini rubate da bambini inconsapevoli del significato di quello che stavano spiando.

Con un periodare scarno, freddo, minimalista, Josephine Hart ci conduce all’interno dell’ossessione e della tragedia, e attraverso un’analisi molto toccante dell’inconscio, delinea il profilo di due vite desolate, tragiche e al tempo stesso seducenti.

domenica 17 febbraio 2008

In memoria 4 - Gli Ignavi

Ed egli a me: “Questo misero modo
tengon l’anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
degli angeli che non furono ribelli,
nel fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
[...]
Fama di loro il mondo esser non lassa,
misericordia e giustizia li sdegna;
non ragioniam di lor, ma guarda e passa!”

Inferno, canto III versi 34-39 e 49-51

sabato 16 febbraio 2008

Delirio

Nessuna storia particolare è legata a questo libro, per quel che mi riguarda, se non che l’ho letto subito dopo un altro che, a dispetto di aspettative brillanti, mi aveva molto deluso. È stato quindi un sorta di ‘rinascimento letterario’, per me, leggere il romanzo di Laura Restrepo.

Mi sembra giusto iniziare riprendendo la citazione, che l’autrice stessa fa, di Gore Vidal, che recita: “Saggiamente, Henry James diffidava sempre gli scrittori dal mettere un pazzo come personaggio centrale di una narrazione, adducendo il fatto che non essendo il pazzo moralmente responsabile, non ci sarebbe una storia vera e propria da raccontare”. Laura Restrepo smentisce questo aforisma. Agustina Londoño è impazzita. Figlia bellissima e ribelle di un possidente terriero colombiano, maga hippy con capacità divinatorie, stravagante, sensuale, affascinante, a volte preda di crisi depressive. Questa è Agustina, questa è la donna sposata da Aguilar, comunista, ex professore di letteratura, sulle spalle un divorzio e forse troppi anni, di sicuro molti più di lei. Aguilar torna da un breve viaggio e trova Augustina in una camera d’albergo, in preda al delirio. Cosa è successo? Perché è impazzita? Quando? Un enigma da risolvere, l’enigma della follia, la cui soluzione è fatta di tanti pezzi, né più né meno che un puzzle, ognuno dei quali è nascosto in un cassetto segreto della memoria della donna, in puro stile Salvador Dalì. La memoria di una famiglia apparentemente impeccabile, ma che nasconde nelle sue maglie drammi inenarrabili. Misteri, brutali passioni, segreti, tradimenti, scandali, incesti non consumati ma non per questo meno devastanti, amori e follia sono il tessuto connettivo di questa saga familiare.
Ma il carisma dei personaggi che si muovono in primo piano non è sufficiente a distogliere l’attenzione dalla scenografia. Una Bogotà marcia e putrida fino al midollo, stretta nel pugno della genialità malefica di Pablo Escobar. Una Colombia afosa, straziata, attanagliata dai drammi che da sempre la affliggono: la guerra, il traffico di stupefacenti, la miseria, il maschilismo patriarcale. Drammi solo a stento mitigati dalla più grande e forse unica risorsa di questa terra: la grande capacità di amare della sua gente.

Josè Saramago (non certo l’ultimo arrivato) ha scritto: “Delirio è un’espressione di tutto ciò che la Colombia ha di affascinante, incluso ciò che è terribilmente affascinante. E quando il livello di scrittura arriva dove lo ha portato Laura Restrepo, bisogna togliersi il cappello”. Lungi da me la presunzione di poter aggiungere altro.

venerdì 15 febbraio 2008

In memoria 3 - La porta dell'Inferno

Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente,
giustizia mosse il mio alto fattore:
facemi la divina potestate,
la somma sapienza e il primo amore.
Dinanzi a me non fur cose create,
se non eterne, ed io eterna duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.

Inferno, canto III versi 1-9

giovedì 14 febbraio 2008

Wolf's rain

Wolf's rain sigla apertura - Stray



Spesso sono stati considerati il prodotto di una subcultura rivolta solo ai ragazzini, come se i ragazzini non fossero capaci di comprendere o interpretare eventi come l’amore, la morte, la solitudine. E visto che è di questo, e di molto altro, che trattano gli anime, perché mai dovrebbero interessare solo ai bambini, e perché un adulto a cui piacciono deve essere per forza superficiale, per non dire stupido? Ovviamente, tutte queste sono solo domande retoriche, nessuna di queste affermazioni può essere accettata come vera. Con questo non voglio dire che tutti gli anime hanno lo stesso valore, così come non ce l’hanno tutti i film o tutti i libri indistintamente. Ci sono opere che meritano di essere viste o lette e altre che sarebbe meglio non fossero mai state prodotte.

Per chi non lo sapesse, gli anime sono i cosiddetti cartoni animati, termine che a me non piace affatto. Sarebbe meglio chiamarli film d’animazione, quando si tratta dei lungometraggi, e semplicemente anime quando si tratta delle serie.
“Wolf’s rain” è un anime particolare. Condensandolo e stringendolo il più possibile, o semplicemente affidandolo alle mani di altri autori, il soggetto potrebbe essere ridotto ad un’ora, massimo due, mentre in questa opera gli eventi si dilatano in maniera quasi opprimente. I silenzi, più che le parole, sono protagonisti degli episodi, insieme ai paesaggi surreali e metafisici. E tutto questo è funzionale al messaggio che l’intera opera si propone di manifestare, ma di cui parlerò in seguito.

La storia può sembrare semplice, almeno ad una prima occhiata. Kiba è uno degli ormai pochi rappresentanti della razza dei lupi, che, seguendo un’irresistibile odore di fiori, giunge in una città in cui incontra altri della sua stessa razza. Tre in particolare sono i lupi che entreranno a far parte della sua avventura: Hige, un bonaccione che preferisce non rischiare e vivere alla giornata, Tsume, un teppista che si dedica al furto e sfrutta gli umani per i suoi comodi, e Toboe, un cucciolo un po’ ingenuo e indifeso. È strano che tanti lupi, che tutti credono estinti, si siano radunati nello stesso posto. E infatti non è per niente un caso. In questa città di trova Cheza, la fanciulla del fiore, un essere molto particolare, che è sottoposta a studi scientifici di cui è responsabile la dottoressa Cher Degre. Cheza è stata creata dai nobili del casato dei Darcia per i loro scopi, rimasti oscuri a tutti, ma, per un motivo particolare, la fanciulla del fiore e i lupi si attraggono a vicenda. Ma anche l’ultimo dei Darcia è interessato a Cheza, così come i funzionari del governo responsabili degli studi su di lei. Tutto questo costringerà Kiba e il suo gruppo a un continuo inseguimento alla ricerca della fanciulla. Ma perché Cheza è così importante? Nel libro della luna, testo antico che solo pochi eletti hanno potuto leggere, è scritto che la fanciulla del fiore e il sangue di lupo sono la chiave per aprire il Rakuen, un luogo misterioso in cui crescono i fiori della luna, una sorta di eden per la stirpe dei lupi. Kiba è guidato da una voce, nella sua ricerca di Cheza, che gli dice di andare nel Rakuen, ma anche Darcia vuole aprire un suo Rakuen, utilizzando la tecnologia dei nobili e i segreti del libro della luna per riportare in vita il suo amore perduto.

Già questo basterebbe per rendere l’anime molto interessante. Ma non c’è solo questo in Wolf’s rain. Alcuni dettagli sono molto interessanti e innovativi, ad esempio il fatto che i lupi siano in grado di ingannare gli occhi degli uomini assumendo sembianze umane, ma vi sono anche numerosi messaggi più profondi.

Frammento dall'episodio 1 - La città degli ululati



Il tema conduttore delle vicende di tutti i personaggi è la ricerca ossessiva di un qualcosa che continua a sfuggire. Per Kiba e Cheza è il Rakuen dove lei deve condurlo, così come per i suoi compagni, anche se ognuno è guidato da sentimenti diversi. Tsume, il più orgoglioso ed egoista, riscopre il senso del branco di cui si era quasi dimenticato vivendo con gli umani. Per Toboe è importante ritrovare gli affetti perduti e crescere come individuo, dimostrando che non è solo un inutile moccioso. Hige nasconde un passato oscuro, e il collare che porta e il suo modo di fare menefreghista ne sono un sintomo. Ma anche tutti gli altri sono alla ricerca spasmodica di qualcosa: Darcia che vuole un Rakuen dove far rivivere il suo amore, il cacciatore Quent Yaiden che cerca i lupi per vendicarsi del massacro della sua famiglia, l’agente Hubb Lebowski che riscopre i suoi sentimenti per Cher e vuole riconquistarla, Cher che cerca una risposta agli enigmi rappresentati da Cheza. Alla fine, ognuno troverà le sue risposte, e poco importa che queste saranno diverse da quelle che si pensava all’inizio. In fondo, tutto l’anime è una lunga, emozionante poesia che dimostra che il vero senso del viaggio è viaggiare, che non importa quello che si trova alla fine della corsa, ma importa quello che si prova mentre si corre. Il vero Rakuen, quello che anche tutti noi ci affanniamo a cercare nelle nostre vite, non è quello che troverà Kiba alla fine del suo viaggio, perché il Rakuen gli è sempre stato accanto, anzi è sempre stato dentro di lui e dentro i suoi compagni. Un Rakuen che cresce e matura un passo alla volta al ritmo di quelle orme lasciate sul terreno.

Per concludere, un cenno meritano gli splendidi paesaggi rappresentati dai creatori dell’anime (lo studio BONES, per la precisione). Sia quelli naturali che quelli metropolitani, tutti stordiscono con la loro immensità immobile. Lande desolate si alternano a profili di grattacieli, distese innevate a cunicoli fognari, il tutto immerso in quel silenzio opprimente di cui parlavo all’inizio, che serve a far risaltare i pensieri ossessivi e le riflessioni intimistiche che si alternano nella mente dei personaggi.

In definitiva, Wolf’s rain è uno di quegli anime ‘adulti’, che non servono solo a piazzare i bambini davanti alla televisione per farli stare buoni. È una di quelle opere che vanno gustate, metabolizzate e poi riviste, meglio ancora soffermandosi a contemplare alcuni frammenti, alcuni fotogrammi particolari e molto intensi. Un consiglio: bisogna guardarne almeno quattro – sei episodi di seguito, proprio per quell’incedere incredibilmente lento con cui si svolgono le vicende, che renderebbe tutto troppo poco coinvolgente se spalmato in un tempo troppo lungo.


Wolf's rain sigla chiusura - Gravity

domenica 10 febbraio 2008

Il test del supereroe

Su invito dell’amico Filippo Messina, ho fatto una capatina sul sito di questo grazioso giochetto on line, che per gli appassionati di fumetti può essere divertente. In fondo, credo che chiunque di noi che abbia sfogliato le pagine dei comics, si sia immaginato nei panni di questo o quel supereroe, magari rivivendone le avventure passo passo. Dalle risposte che ho dato, risulta che io mi rappresenti al meglio in Batman (You are Batman. You are dark, love gadgets and have vowed to help the innocent not suffer the pain you have endured), e in effetti il cavaliere oscuro è forse il mio personaggio dei fumetti preferito. Sono sempre stato molto affascinato dai personaggi con un lato oscuro preponderante, fin da piccolo (mia madre ogni tanto racconta che quando da piccolo giocavo con i Transformers o con i Masters facevo vincere sempre i cattivi...), e devo dire che anche il lato tecnologico del personaggio mi attirava, tanto che spesso con la fantasia progettavo strani aggeggi con cui giocare, tipo rampe di lancio costruite col meccano per far saltare le macchinine. Al contrario, la forza bruta e l’apparente purezza d’animo di personaggi come Superman non mi hanno mai interessato. In questo, posso dire che il test è abbastanza attendibile. Inoltre, al secondo posto della classifica c’è la splendida Supergirl, il che per me è molto lusinghiero, visto che negli ultimi anni ne ho apprezzato molto le storie.
Chi si appassiona al mondo dei fumetti americani, quindi, non può non andare a scoprire quale supereroe si agita dentro di lui, e mi raccomando: sincerità!
http://www.thesuperherotest.com

venerdì 8 febbraio 2008

A spasso con il camice

Lazlo bane "Superman" - Sigla apertura "Scrubs"
Da qualche anno abbiamo assistito ad un continuo affollarsi di serial televisivi che parlano di medici. Badate bene, ho detto di medici, non di medicina. La precisazione mi è necessaria, visto che da pochi anni a questa parte, sui sentieri della medicina vera ho cominciato a muovere i primi, esitanti, passi. Ed è intuibile anche a chi non è dell’ambiente che quello di cui si parla in quei telefilm è solo uno spettacolo teatrale, non la realtà, per quanto tutto o quasi abbia un’attinenza con la scienza medica ufficiale. Ma non sono i tecnicismi quelli che mi interessano in questo momento. In fondo, non c’è il rischio che qualcuno prenda decisioni mediche solo guardando un telefilm. Volevo invece parlare di quegli argomenti che non sono strettamente accademici, ma che incessantemente entrano a far parte del lavoro di chi si trova a contatto con persone che stanno male. Mi riferisco all’etica, alle riflessioni personali, ai sentimenti che si provano, ai rapporti con i colleghi e con i superiori. Non avendo molto tempo per lo svago, non ho seguito tutte le serie che sono state proposte in televisione in Italia, conoscendole solo di nome. Quelle che ho seguito costantemente sono “Dr. House – Medical division”, “Grey’s anatomy” e “Scrubs – Medici ai primi ferri”. Il primo ruota tutto intorno alla figura di un medico geniale ma assolutamente eccessivo in ogni suo comportamento, impegnato a risolvere casi impossibili. Il secondo si incentra più sui rapporti interpersonali tra i protagonisti, che comunque si ritrovano a contatto con situazioni di ambito medico. L’ultimo, che nasce come parodia comica dell’attività ospedaliera, ha come protagonisti dei giovani medici alle prime armi, o meglio ai primi ferri, come dice il titolo stesso. Ed è proprio di Scrubs che vorrei parlare, perché, dal mio punto di vista, è la serie che più di tutte le altre parla di medicina.

Non voglio fare un racconto sterile della trama dei vari episodi, perché sarei noioso e perché ogni episodio va visto con i propri occhi, non letto nel resoconto di qualcun altro. Mi soffermerò su alcuni momenti particolari, senza indicare in quale episodio avvengono, per poi fare qualche riflessione.
Il primo che mi viene in mente è quello in cui il dottor Cox, uno strutturato di medicina, ha un battibecco con Turk, un assistente di chirurgia. Turk sostiene di essere un mago della chirurgia, e Cox gli propone una scommessa: “Venti dollari che [se operi il paziente] lo uccidi”. Turk accetta e vince la scommessa. Cox paga, ma gli fa notare un cosa cui il giovane non aveva pensato: “Ti rendi conto che trovi normale fare una scommessa sulla vita o la morte di un paziente?”. Questa cosa mette in crisi Turk, che si rende conto di non aver considerato la responsabilità di quello che fa. Un minimo errore può fare la differenza tra la vita e la morte di una persona. Ma alla fine, Cox gli dà un altro insegnamento, facendogli vedere una cosa: “Vedi il dottor Wen? Sta dicendo ai familiari che qualcosa è andato male durante l’intervento e il paziente è morto. Poi uscirà e tornerà a fare il suo lavoro. Pensi che qualcun altro in quella stanza tornerà a lavorare, oggi? Ecco il senso del nostro distacco, delle nostre battute. Non le facciamo perché è divertente, ma per tirare avanti… e anche perché è divertente… ma soprattutto per tirare avanti”.
Questa non è una frase da telefilm. Magari qualcuno, sentendomi dire queste cose, storcerà il naso, ma è la verità: tutti noi, anche io, prendiamo in giro i pazienti, facciamo battute, oppure li spersonalizziamo chiamandoli solo come malattie. Non lo facciamo davanti a loro, ovvio, perché sarebbe offensivo, ma lo facciamo tra di noi. Perché se quelli che stanno nei letti smettono di essere malattie e diventano cuccioli indifesi da salvare e coccolare, non sarà possibile affrontare gli innumerevoli fallimenti che ci troveremo davanti nel lavoro. Per semplificare, direi che il 20% dei nostri pazienti guarisce, il 10% muore in tempi brevi, e per il restante 70% ci limitiamo a mettere delle pezze su una tela che va strappandosi sempre più. E quest’ultima è la cosa più difficile con cui confrontarsi: sapere che il nostro lavoro nella maggioranza dei casi è destinato a fallire, presto o tardi.

Collegato a questo, mi viene in mente un altro frammento, in cui il dottor Kelso, il primario, si lamenta che molti dottori non dedicano le dovute attenzioni ai pazienti terminali, mentre il dottor Cox sostiene che bisogna dedicarsi solo a quelli in cui c’è una possibilità concreta di intervento. La sua giustificazione potrebbe essere condivisa, perché dice che ottenere qualche vittoria serve a sopportare il peso di tutte le altre sconfitte. In una situazione del genere mi sono trovato personalmente, e ne ho discusso con una collega più grande. Il caso riguardava un paziente tossicodipendente che a poche ore dal ricovero aveva sviluppato un’insufficienza multiorgano per la quale sul serio non c’era praticamente nulla da fare. La collega era dell’opinione di Cox, cioè che non valeva la pena insistere, visto che sapevamo tutti che il risultato non sarebbe cambiato. Io invece credo che non sia così accettabile questa conclusione. Indubbiamente, ottenere dei risultati positivi è importante per fare bene il proprio lavoro, ma smettere di fare qualcosa perché tanto non cambia il finale non fa parte del mio modo d’agire. Credo che dobbiamo combattere tutte le battaglie, anche quelle che sappiamo essere perse in partenza, con la consapevolezza che spesso perderemo. È anche e soprattutto da questa consapevolezza, e non solo dalle vittorie, che si ottiene la forza per affrontare le numerose sconfitte. Inoltre, secondo me, fino a che c’è una minima possibilità, bisogna continuare, anche quando questo significa sprecare risorse inutilmente, perché è pericoloso pensare che arrivati a un certo punto non vale più la pena andare avanti. Se si ragiona così, vengono a mancare gli stimoli per fare ogni giorno quel passo in più che può fare la differenza, e forse ragiono così perché ho solo venticinque anni, ma per me fare quel passo in più è importante.
Potrei continuare all’infinito, e non è mia intenzione, anche perché credo che ritornerò a parlare di questa serie. L’ultimo frammento di cui faccio cenno riguarda Elliot, assistente di medicina come JD, il protagonista principale. Lei si trova alle prese con una situazione molto difficile, e JD le consiglia di prendere tempo e aspettare, seguendo la regola del ‘chi vivrà, vedrà’ come fa lui. Invece lei rischia, e purtroppo il paziente muore. Periodicamente, in ospedale si tiene un incontro in cui si analizzano i casi più complessi, e stavolta tocca al caso di Elliot. Il primario espone il caso, e conclude con un elogio per la dottoressa: senza tentare, il paziente non avrebbe avuto nessuna possibilità, mentre con la sua decisione difficile, lei gli ha dato una speranza. Questo è anche il mio pensiero, anche se capisco quelli che non vogliono correre rischi. Forse tengono alla salute dei pazienti, ma in buona parte tengono più alla loro, il che è comprensibile. Rischiare significa esporsi a responsabilità molto grandi, anche perché, se si parla chiaro con i familiari fin da subito, dicendo che non c’è molto da fare, difficilmente questi potranno lamentarsi in seguito, mentre lo fanno sempre quando si rischia e non si ottiene lo stesso niente. Purtroppo però, questo porta sempre più a selezionare i casi facili da quelli difficili, dando la colpa, in questi ultimi, ai precedenti colleghi che avrebbero potuto fare qualcosa, mentre adesso non si può più. Non mi piace questo modo di fare. Io considero ogni risultato negativo come un mio fallimento personale, non come qualcosa che non potevo evitare in alcun modo. Così, spero di avere lo stimolo a migliorare, invece che scaricare responsabilità su altri.

mercoledì 6 febbraio 2008

In memoria 2 - Viaggio all'Inferno

Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno
toglieva gli animai che sono in terra
delle fatiche lor, ed io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì della pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.

Inferno, canto II versi 1-9

domenica 3 febbraio 2008

Blame!

Tutti o quasi pensano si legga ‘Bleim’, che in inglese significa colpa. In realtà, nelle intenzioni dell’autore, il titolo si legge proprio ‘Blam’, come il suono di uno sparo. Criptico fin dal titolo, Tsutomu Nihei prosegue in un crescendo di enigmi, che credo nessuno, a parte lui stesso, sia riuscito a dipanare completamente.
Blame! parla di Killi, misterioso agente in missione nei livelli a rischio, alla ricerca della rete dei geni terminali. Se non avete capito niente di questa frase, non è perché siete stupidi. Potrebbe essere perché io non so scrivere, ma forse il motivo è un altro. In questo manga non ci viene spiegato niente. Non sappiamo chi sia Killi, né da dove venga. Non sappiamo se agisce da solo o se fa parte di una organizzazione di qualche tipo. Non sappiamo dove si svolga la vicenda, se sia una città, una colonia, una stazione spaziale, un insediamento sotterraneo. Non sappiamo se siamo sulla Terra o su un altro pianeta. Non sappiamo cosa sia la rete dei geni terminali. Insomma, non sappiamo proprio niente. Lo stesso sottotitolo è significativo in tal senso: “Maybe on earth. Maybe in the future”, cioè “Potrebbe essere sulla Terra. Potrebbe essere nel futuro”.

Quando prima ho scritto “Blame! parla di Killi” ecc., temo di aver sbagliato verbo. Sarebbe stato più giusto scrivere “Blame! tace di Killi”. È infatti una peculiarità di Nuhei quella di realizzare fumetti con dialoghi ridotti al minimo e forse anche meno. Non ci sono didascalie, nessun pensiero viene comunicato in caratteri alfabetici. I personaggi si esprimono tra loro con frasi stringatissime, e spesso solo a gesti. Tutto questo sarebbe già sufficiente a creare disagio in chi legge, ma se ci aggiungiamo paesaggi desolati, edifici in rovina, strade tortuose che si snodano a perdita d’occhio nascondendo chissà quali pericoli, angoli bui che celano insidie micidiali, e misteriosi esseri biomeccanici programmati per uccidere qualunque forma di vita, ecco che quello che era un semplice disagio diventa pura angoscia. Sfogliando quelle pagine fitte di retini grigi, non si può non sentire il proprio cuore accelerare di colpo nel vedere una lancia trapassare improvvisamente un corpo, o un bambino che si trasforma in una macchina assassina. E quel silenzio micidiale che opprime e colpisce senza dare tregua è forse la cosa più angosciante di tutta l’opera.
Inutile dire che si potrebbero impiegare giorni interi a guardare le splendide tavole di Nihei, che in questo manga mette a frutto i suoi studi di architettura realizzando costruzioni straordinarie e ben oltre il limite delle utopie strutturali che già altri architetti in passato hanno teorizzato.
A conclusione vorrei citare anche un’altra opera dello stesso autore, realizzata per un personaggio con una sua storia alle spalle, vale a dire Wolverine. Tutto quello che si vede in Blame! può essere ritrovato in questa storia, che non a caso si intitola “Snikt!”. Così come Blame è il suono dello sparo della pistola di Killi, Snikt è il suono che fanno gli artigli di Wolverine quando li estrae. Si conferma quindi la tendenza onomatopeica nei titoli delle opere, in relazione alle armi usate dai protagonisti. Peccato non aver visto quasi nient’altro, qui in Italia, di questo giovane mangaka giapponese. Un vero peccato.