martedì 27 aprile 2010

L'ombra del vento

Non credo sia sbagliato definirlo il capolavoro di Carlos Ruiz Zafon, perché dei tre libri che ho letto di questo autore (i tre che ha scritto da quando ha lasciato la scrittura per l’infanzia) è certamente il migliore. Non che “Il gioco dell’angelo” e “Marina” non abbiano motivi interessanti, ma certamente queste due ultime storie non raggiungono il livello di coinvolgimento del lettore di cui è capace “L’ombra del vento”.

A Barcellona, in un giorno qualsiasi degli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, un padre cammina tenendo per mano il figlio che sta per condurre in un luogo che pochi conoscono, lo stesso luogo dove, molti anni prima, suo padre aveva condotto lui. L’uomo è David Sempere, modesto libraio di quartiere, il figlio è il piccolo Daniel, e il luogo è il Cimitero dei libri dimenticati, dove si custodiscono le opere di letteratura che nessuno più ricorda o conosce, che costituiscono quel tesoro dell’umanità di cui quasi nessuno conosce l’esistenza e men che meno il valore. Qui, Daniel entra in possesso di un libro, “L’ombra del vento”, che è l’ultima opera del suo autore, Julian Carax. Dopo averlo letto in maniera quasi compulsiva, Daniel decide che vuole conoscere meglio quell’autore e leggere gli altri suoi romanzi. Inizia così un’avventura che durerà molti anni, che lo porterà più volte a un passo dalla morte, che lo farà incontrare con persone e personaggi del tutto fuori del comune, in una parola che cambierà per sempre la sua vita.

Al di là della trama avvincente e delle situazioni e atmosfere da racconto giallo, la grande forza di questo romanzo sta nei suoi personaggi. Zafon crea una lunga teoria di protagonisti, comprimari e comparse, che farebbero invidia a una compagnia teatrale per la loro diversità e particolarità. Dal saltimbanco vittima delle violenze della guerra, alla bellissima e irraggiungibile erede di una ricca famiglia, passando per prostitute, orologiai e affittacamere, ogni personaggio che si incontra nella storia ricopre il suo ruolo alla perfezione, senza sbagliare o tentennare su nessuna battuta del copione. Copione tutt’altro che consueto e banale, dato che, leggendo questo romanzo, ci rendiamo conto che in realtà ne stiamo leggendo due, i quali a loro volta si sovrappongono al punto da non rendere per nulla facile capire dove finisce la storia di Julian e inizia quella di Daniel. Nel suo addentrarsi in una Barcellona sempre cupa e misteriosa, il ragazzo scopre delle strane affinità tra gli eventi della sua vita e quelli della vita di Julian Carax, vita che cerca di ricostruire un pezzo alla volta isolando la verità tra mucchi di menzogne e incertezze, come se ricomponesse un puzzle di cui non conosce neanche l’immagine finale. Così, pagina dopo pagina, scopriamo che non è tanto importante sapere dove finisce Julian e dove comincia Daniel, perché, in un modo o nell’altro, la storia è sempre la stessa: la profonda, prorompente e spesso pericolosa passione per la vita.

“Insomma, le ha risposto picche.”
“A Fermin Romero de Torres non risponde picche nemmeno san Rocco. Il fatto è che gli uomini, per tornare a Freud e mi perdoni la metafora, si scaldano come lampadine: bollenti in un attimo, fredde un istante dopo. Le donne, invece, ed è una verità scientifica, si scaldano come un ferro da stiro, mi capisce? A poco a poco, a fuoco lento, come una buona escudella, la zuppa di carne con cavolo e ceci. Ma una volta che si sono scaldate, non le ferma più nessuno. Come gli altiforni della Biscaglia.”

domenica 18 aprile 2010

Heavy rain

Non sono passati poi tantissimi anni da quando tenevamo in mano una scatoletta grigia con una crocetta a sinistra e due tasti rotondi a destra, e facevamo saltare Super Mario da una piattaforma all’altra all’instancabile salvataggio della principessa. Ogni volta si cominciava dall’inizio e per finire il gioco ci volevano ore passate davanti alla televisione, senza potersi fermare, con le costanti lamentele e i rimproveri dei genitori. Dai miei ricordi ero piuttosto piccolo, ma neanche tantissimo, direi che stiamo parlando di circa venti anni fa, e in questo lasso di tempo siamo arrivati ad avere esperienze di gioco davvero rivoluzionarie. Partiamo dagli hardware. È innegabile che ormai abbiamo a disposizione dei veri e propri supercomputer dedicati solo al gioco. Quella scatoletta con un paio di tasti è diventata un pad anatomico con quattordici tasti di controllo e due levette analogiche per il movimento continuo del personaggio e della visuale in tutte le direzioni del piano. L’impostazione informatica consente inoltre il salvataggio in diversi punti del gioco, tanto che non esiste più il concetto del ‘facciamo una partita’. Una singola avventura può durare complessivamente anche decine di ore di gioco, comodamente scandibili in più riprese. E ovviamente sono cambiati i giochi, anche se sotto questo aspetto ci sono delle considerazioni da fare. Tanto per cominciare, per quanto grande sia il numero di titoli che le diverse case di produzione sfornano sul mercato, possiamo tutti raggrupparli in non più di una decina di generi. In fondo, quello che si fa in un gioco è più o meno sempre lo stesso: picchiare, sparare, correre, volare, saltare, raccogliere... Possono essere più o meno curati gli elementi narrativi, i richiami ad opere storiche o mitologiche o letterarie, il numero di personaggi, protagonisti o comprimari, può variare di molto e possono essere molto diverse le modalità di azione (a turni, in tempo reale, più esplorazione e ricerca, più combattimento, ecc...), ma in definitiva abbiamo sempre a che fare con una storia, uno o più personaggi con un obiettivo da raggiungere, e l’abilità del giocatore sta nel raggiungerlo nel modo più brillante possibile. Tutto questo fino a “Heavy rain”.

Tutti noi esseri teledipendenti (chi più chi meno) siamo piuttosto saturi di film e telefilm thriller barra gialli barra noir, ma per quanto coinvolgente possa essere la trama, è sempre qualcosa che sta succedendo sullo schermo e che ci limitiamo a guardare. Con “Heavy rain” questo concetto non vale più. Abbiamo letteralmente a disposizione un film interattivo, in cui le nostre scelte e le azioni che faremo compiere ai protagonisti cambieranno il corso degli eventi. Purtroppo, quando si parla di qualcosa di questo tipo, è difficile farlo senza svelare particolari interessanti e misteriosi, che generano la suspance durante la storia, ma cercherò di farlo lo stesso.

Ethan Mars è il padre felice di una famiglia felice, che trascorre la sua vita felice tra lavoro e passatempi vari. La storia inizia in un giorno felice del compleanno del suo figlio felice, Jason, quando cominciando a prendere confidenza con i controlli, apparecchiamo la tavola, giochiamo con i bambini e andiamo a fare una passeggiata. Tutto molto felice, insomma. Ma la giornata è destinata a trasformarsi in tragedia, perché Jason muore in un incidente senza che suo padre riesca a salvarlo. Inizia così il dramma interattivo, e i titoli di testa (come dicevo, è un vero e proprio film) con le immagini di una città in cui sembra piovere sempre ci accompagnano due anni dopo quell’evento, in cui un Ethan sull’orlo, anzi, ben oltre l’orlo della depressione si colpevolizza di non aver saputo salvare il figlio e cerca di tenere insieme i pezzi di una vita distrutta, separato dalla moglie e con l’altro figlio con il quale non riesce ad instaurare alcun tipo di rapporto. Proprio in quel periodo, l’assassino dell’origami ricomincia a colpire. Questo è un serial killer che uccide bambini affogandoli nell’acqua piovana e facendoli ritrovare in zone dimesse con un piccolo origami in mano e un’orchidea sul petto. Scott shelby, il secondo protagonista, è un investigatore privato assunto dalle famiglie delle vittime per indagare su questo killer, che comincia a raccogliere informazioni sui bambini, e scopre che i loro padri avevano ricevuto una misteriosa lettera quando i figli erano scomparsi. La stessa lettera che Ethan Mars riceve quando suo figlio Shaun scompare. Intanto, il cadavere di un altro bambino vittima dell’assassino dell’origami viene ritrovato vicino ad una ferrovia, motivo per cui entra in scena il nostro terzo protagonista, Norman Jayden, un investigatore dell’FBI scelto apposta per indagare su questi omicidi con un rivoluzionario sistema scientifico chiamato ARI. Il quarto personaggio è Madison Paige, che incontra per caso (almeno così sembra) Ethan, ferito e sconvolto, in uno squallido motel di quartiere, e cerca di aiutarlo. A poco a poco scopriamo che Ethan soffre di improvvisi black out, e sembra manifestare alcuni sintomi di schizofrenia, per cui lui stesso è convinto che sia l’altra parte di sé ad aver rapito Shaun e ad aver mandato quella lettera che contiene degli indizi, ottenibili solo dopo il superamento di alcune prove, con i quali potrà scoprire dove è tenuto prigioniero il bambino. Infatti, l’assassino non affoga direttamente le sue vittime, ma le rinchiude in un pozzo o qualcosa di simile e aspetta che si riempia di acqua piovana. Più piove, più presto il bambino muore. Da qui la ‘pioggia pesante’ del titolo, pioggia che scandisce tutta la storia con il suo cadere incessante.

La storia è molto ben strutturata, coinvolgente, senza punti morti e abbastanza variegata nell’alternare i vari personaggi per mantenere alta la tensione. Il coinvolgimento emotivo è notevole, come pure la pesantezza psicologica nell’agire nei panni di Ethan, padre angosciato non solo dalla possibilità della imminente morte del suo secondo figlio a due soli anni di distanza da quella del primo, ma soprattutto dal costante dubbio di esserne lui stesso la causa, e che tutto questo macabro gioco a ritrovare Shaun sia solo un modo che la parte malata di sé ha escogitato per punirsi della morte di Jason. Tuttavia, quello che davvero affascina è la possibilità di interagire letteralmente con la storia, facendo in modo, ad esempio, che Ethan sopravviva o muoia nella storia, che venga arrestato o che scappi dalla polizia, che riesca o meno a salvare il figlio. E questo vale per tutti i protagonisti, in modo che per ognuno ci siano circa quattro – cinque modi diversi di concludere la storia, in un intreccio del tutto imprevedibile. Se ogni volta che avete visto un eroe accusato ingiustamente sfuggire alla cattura della polizia vi siete infastiditi del fatto che tutto vada sempre nello stesso modo, con “Heavy rain” potrete sfogare il vostro desiderio di protagonismo facendogli fare tutto quello che volete. “Heavy rain” apre la strada (speriamo) ad un nuovo concetto di gioco, in cui il protagonista diventa davvero il giocatore, e in cui la vera sfida non è arrivare alla fine ma fare la scelta giusta. Un po’ come nella vita vera.

venerdì 9 aprile 2010

Crisi di identità

Uomini e donne. Nient’altro che questo. E non è cosa da poco. Uomini e donne che volano, che diventano fuoco o acqua, che corrono, che si allungano, che rimpiccioliscono. Uomini e donne che vestono con strani costumi, che portano sul petto strani simboli. Uomini e donne di carta. Ma vivi. Se c’è una prova che questi non sono semplici personaggi, ma persone a tutti gli effetti, la possiamo trovare nelle pagine di questo volume. So che vi sembrerà un’esagerazione, discorsi di questo tipo lo sembrano sempre. Come quando si dice che sono reali i personaggi delle tragedie di Shakespeare, o delle canzoni di De Andrè, o dei film di Fellini. Qualcuno dirà che alla fine è tutta una finzione, che la vita vera è quella di fuori, dove ci sono mutui e bollette da pagare, cartellini da timbrare, figli da accompagnare a scuola, dove non ci sono aerei a forma di pipistrello, né donne con i capelli in fiamme, né uomini che volano con addosso una tutina blu e un mantello rosso sulle spalle. Eppure io continuo a dire che sono vivi. Quei fumetti gridano, ridono, lottano, piangono. Quei fumetti muoiono. Ne sono convinto da molto tempo, ma ne ho avuto la conferma quando mi sono sentito veramente triste per la morte di Sue Dibny, angosciato per il dolore di suo marito Ralph, incazzato come i suoi amici che non riescono a trovare il responsabile.

Mentre Elongated man, al secolo Ralph Dibny, è impegnato in una ronda notturna, qualcuno si introduce nella sua casa, dove sua moglie Sue sta organizzando una festa a sorpresa per il compleanno del marito. Nonostante i disperati tentativi di chiedere aiuto, Sue viene uccisa e poi in parte ustionata, presumibilmente per coprire alcune tracce. Dopo il funerale, tutta la comunità dei supereroi dà fondo alle proprie risorse per trovare il responsabile, ma sembra che il misterioso assassino non abbia lasciato alcuna traccia. Mentre le ricerche procedono, e vengono trovati e interrogati noti criminali che potrebbero avere avuto notizie del fatto, ma senza nessun risultato, altri familiari di supereroi ricevono minacce. Jean Loring, la ex moglie di Atom, viene impiccata alla porta del suo appartamento, e si salva per miracolo. Jack Drake, il padre di Robin, non è così fortunato, e nonostante qualcuno gli abbia mandato una pistola per difendersi, l’arma di Capitan boomerang lo trafigge in pieno petto, non prima che l’uomo sia riuscito a ferirlo a morte sparandogli. Ma è possibile che sia stato proprio il vecchio Boomerang a commettere gli altri crimini? Improbabile, anzi, praticamente impossibile, soprattutto quando il Dottor Midnight, eseguendo l’autopsia di Sue, trova delle strane tracce nel suo cervello, tracce che sembrano condurre ad un solo nome.

Ma non è certo l’intreccio investigativo, per quanto ben tessuto, coinvolgente e ricco di partecipanti, il punto di forza di questa storia. Anche perché l’omicidio di Sue è certamente il punto centrale della narrazione, ma è anche il punto di partenza per lo scatenarsi di una serie di rivelazioni riguardanti vicende fino ad ora taciute avvenute tra le fila della JLA. In particolare, della decisione da parte di alcuni membri della Lega di sottoporre al lavaggio del cervello il Dottor Light e nientemeno che Batman, quando quest’ultimo scopre cosa stanno facendo i suoi compagni. Evento, questo, che avrà tremende ripercussioni in tutti gli eventi DC che seguiranno, primo tra tutti il Progetto OMAC e tutto ciò che da questo deriverà in “Crisi infinita”. Un altro elemento narrativo di grande forza è il fatto che la morte di Sue Dibny ci dà l’occasione di ripercorre i vari lutti che i supereroi DC hanno dovuto affrontare negli anni. Persone che hanno perso genitori, figli, mariti, fratelli. E anche e soprattutto dà l’occasione a tutti gli altri di rendersi conto quanto preziosi siano i legami familiari che hanno con i loro cari, quanto siano importanti quei brevi momenti trascorsi in loro compagnia, tra una missione e l’altra. Ed ecco che stranamente Superman va nella fattoria del Kansas tutti i giorni, in quella settimana di eventi, Robin trova una scusa per non uscire di ronda con Batman un paio di notti, e Roy Palmer riscopre il forte legame con la sua ex moglie. Per cui, verso la fine della storia, cominciamo a intravedere la risposta a quella domanda che ha tormentato tutti nel corso di questo evento, una domanda alla quale neanche il più grande detective del mondo è riuscito a trovare una risposta, e cioè: chi ci ha guadagnato dalla morte di Sue Dibny? E la risposta è: tutti gli altri.

Scritto da Brad Meltzer e disegnato da Rags Morales, “Crisi di identità” è una profonda riflessione sul senso della vita e della morte, sulla sofferenza e la rinuncia, sul valore degli affetti e delle perdite. E sulla vera, reale, natura della maschera. Se con quello che ho detto finora non sono riuscito a trasmettervi il desiderio di leggere questa storia, avete solo un’ultima speranza: andare in fumetteria, aprire il volume e guardare la pagina 182. se anche questo non sortisce alcun effetto, vuol dire che non c’è niente da fare: non meritate di leggere “Crisi di identità”.

- Ancora non ci sei arrivato? Ripensa alla tua stessa vita, Wally... a tutto quello che hai fatto per proteggere il tuo segreto. Non è per te che indossi la maschera. Ma per tua moglie, i tuoi genitori... e un giorno, chissà... per i tuoi figli. In giro là fuori ci sono autentiche belve, ragazzo. E noi non possiamo essere sempre con i nostri cari. Non possiamo proteggerli sempre. Ma la maschera sì.