sabato 21 febbraio 2009

Full Metal Panic!






Il mondo delle serie animate giapponesi è sempre stato molto ricco di titoli, ma negli ultimi anni si è assistito ad una considerevole varietà di soggetti e temi trattati. Quando ero bambino, i cosiddetti cartoni animati erano molti, ma i generi relativamente pochi: c’erano le storie di fantascienza e avventura spaziali (Capitan Futuro, Capitan Harlock, Galaxy express...), gli indimenticabili ‘robottoni’ (Mazinga, Daitarn, Voltron...), le storie sentimentali (Georgie, Candy, Maya...), quelle sportive (Mimì, Holly e Benji, Mila e Shiro, Rocky Joe...), e pressoché tutti i titoli rientravano per un aspetto o per l’altro in una di queste categorie. Quelle storie avevano e hanno tutt’ora un loro fascino particolare, sia perché rievocano un’infanzia di cui erano costanti la spensieratezza e la fantasia, ma anche perché suscitano emozioni molto forti.

Negli ultimi anni, però, con mio grande piacere, ho assistito ad un cambiamento nel mondo delle serie animate, al punto che oggi non credo valga più il concetto di genere. Per quanto mi sforzi, non riesco a inquadrare in quelle categorie di cui dicevo prima nessuno dei titoli che ho visto più o meno di recente. Da una parte credo che questo sia merito del fatto che si è capito (o quantomeno si comincia a capire) che gli anime non sono il prodotto di una sottocultura di scarso valore destinato solo all’intrattenimento dei bambini. Gli anime hanno infatti cominciato a trasmettere messaggi molto seri ed espliciti, invadendo diversi ambiti del vivere comune ed emancipandosi dal mondo dell’infanzia. Con questo non intendo dire che quelle di una volta erano storie banali e senza significato, ma questo era lasciato intendere solo a particolari sensibilità. Ad esempio, è vero che in “Capitan Harlock” c’era una forte critica al Giappone del tempo in cui fu creato, dove le avventure nello spazio indicavano un desiderio di allontanarsi da una società follemente lanciata verso un progresso distruttore di tutte le tradizioni culturali così come delle bellezze naturali del paese. Però queste riflessioni erano relegate ad un piano figurato, mai espresse esplicitamente, e agli occhi di un bambino di dieci anni quale ero io quando la guardavo, quella serie non parlava d’altro che di una astronave e della sua ciurma in lotta contro gli alieni. Oggi invece, temi di riflessione profonda sono espliciti e palesi, e non è un caso che anche il target di pubblico si sia spostato dai bambini ai ragazzi più grandi e, perché no, anche agli adulti. Sempre più spesso, infatti, nei titoli di testa vediamo messaggi che dichiarano un contenuto ‘non adatto ai più piccoli’, ma questo non vuol dire che siano un’accozzaglia di volgarità e violenza, ma soltanto che sono stati depurati dalla atmosfera inzuccherata e semplicistica che era presente nelle opere di vent’anni fa.

Tuttavia questo non vuol dire che gli anime di oggi siano storie prive di ironia e spensieratezza. Sono però molto più ‘reali’, intendendo con questo termine che aderiscono meglio al vero tessuto della realtà, in cui momenti di gioia e spensieratezza si alternano ad angosce e drammi, in cui il grottesco si affianca all’impegnato, in cui ad una battuta di spirito può seguire una riflessione seria sull’esistenza umana. In questo filone concettuale vanno inseriti secondo me titoli come “Neon Genesis Evangelion”, “Wolf’s rain” (di cui ho già parlato), “Trigun”, “Berserk”, e molti altri, ma uno dei miei preferiti è senza dubbio “Full Metal Panic!”. Lo è perché, proprio come dicevo prima, coniuga alla perfezione aspetti spensierati e scene cariche di una intensità di messaggi che è raro vedere trattati con tanta disinvoltura e attenzione.

La trama di fondo non è particolarmente complessa, cosa che la rende molto godibile fin dai primi episodi. Esistono al mondo delle persone che, nella loro mente, e in maniera più o meno inconsapevole, custodiscono i segreti della cosiddetta black technology, ovvero delle conoscenze che consentono di adoperare apparecchiature elettroniche ad un livello estremamente avanzato, al di là del normale progresso scientifico. Queste persone sono chiamate Whisper, e una di loro è Kaname Chidori, una liceale giapponese. È ovvio che queste persone sono oggetto di particolare interesse, sia da parte di enti governativi, sia, soprattutto, di organizzazioni terroristiche. Per questo motivo, la Mithril, una associazione militare mercenaria e non governativa che persegue un ideale di giustizia, decide di proteggere Kaname, e affida questo compito al sergente Sousuke Sagara, con l’appoggio di altri due agenti di supporto. Sousuke si fingerà uno studente della scuola di Kaname e provvederà alla sua sicurezza. Ma Sousuke non è una persona come le altre. La sua infanzia infatti è stata segnata da guerre e conflitti, aveva otto anni quando cominciò a combattere come guerrigliero in Medio Oriente, e per tutta la vita non ha visto altro che eserciti e scontri. È facile capire quindi come, accanto alle sue straordinarie capacità militari, sia tattiche che operative, coesista in lui la più totale incapacità di interpretare la realtà con gli occhi di un comune ragazzo di diciassette anni. Per lui, una busta infilata in un armadietto è ovviamente un attacco terroristico da neutralizzare, una valigetta dimenticata in un bar deve per forza essere una bomba, e così via. È ovvio che questo causi non pochi problemi a Kaname, la quale si ritrova a d avere a che fare con i suoi eccessi, essendo tuttavia all’oscuro, almeno all’inizio, della sua reale missione. Però è innegabile che quel ‘tipo imbronciato, fanatico di roba militare e che si crede sempre in guerra’ (come lo definisce spesso) suscita in lei una forte attrazione, non tanto per il suo aspetto, quanto per il suo affannarsi a proteggerla e ad aiutarla, sebbene finisca sempre per metterla in situazioni imbarazzanti.

La serie procede a un ritmo incalzante, tra siparietti comici, con Sousuke che si rende ridicolo e inappropriato per la sua incapacità a condurre una vita normale, e Kaname che non si spiega il perché del suo comportamento, ma vede anche momenti di grande intensità drammatica, quando le situazioni si fanno molto serie e allora Sousuke può dimostrare tutte le sue capacità e il suo coraggio. Inoltre, c’è anche molto spazio per temi di riflessione, in particolare la guerra. Memorabile in questo senso la sequenza di tre episodi intitolata “Il vento che danza in patria”, in cui Sousuke si trova coinvolto in un’operazione militare proprio nel paese in cui ha avuto inizio la sua vita da guerrigliero mercenario, alla tenera età di otto anni. Il paragone con la dilagante piaga dei bambini soldato è fin troppo palese, e sebbene nella serie l’unica ripercussione sul protagonista di un’infanzia trascorsa uccidendo altri uomini con in mano un fucile sia la sua incapacità a vivere spensieratamente la vita quotidiana, ci dobbiamo costringere a pensare, mentre siamo seduti nelle nostre poltrone, che la cosa peggiore per uno di quei bambini non è certamente morire a dieci anni in uno scontro militare, ma sopravvivere con i segni indelebili di un’infanzia vissuta in quel modo.





mercoledì 18 febbraio 2009

Il fascino del male - Arkham asylum

Siamo arrivati alla conclusione di questa serie di volumi, che hanno ripercorso le storie di alcuni dei più importanti criminali di Gotham city. Quest’ultimo volume è dedicato a uno dei personaggi più interessanti, o meglio ancora ad uno sparring partner di uno dei personaggi principali di tutte le storie di Batman. Sto parlando della oscura Gotham city e del suo fedele aiutante, il manicomio Arkham! In post precedenti a questo (quello sull’Enigmista e quello sull’ultimo film di Batman) ho già espresso il concetto del personaggio Gotham city, sottolineando come solo in questa città è possibile l’esistenza di un eroe come Batman e dei suoi nemici. Qui voglio ampliare il concetto riferendomi ad uno degli elementi costitutivi della città, ovvero il manicomio Arkham. Era infatti logico che una sfilza di criminali come quelli che popolano le strade di Gotham non potesse essere imprigionata in un comune penitenziario. E così come i suoi inquilini hanno contribuito a creare la fama del luogo, allo stesso modo questo ha plasmato le personalità deviate dei suoi ospiti. Arkham è il rifugio in cui la frustrazione, la paura e i pensieri contorti dei folli criminali di Gotham trovano rifugio e sostentamento. È all’interno delle sue mura che prendono forma i folli piani del Joker, che crescono la schizofrenia di Due facce e la depravazione di Mr. Zsasz, che si alimentano le paure dello Spaventapasseri. Per quanto isolate e rinchiuse, qui le menti criminali di Gotham si trovano riunite insieme, ma, al contrario di quanto potrebbe avvenire in un normale carcere, dove potrebbero nascere manifestazioni di cameratismo e solidarietà, qui vengono esasperate la solitudine, l’alienazione e la follia. Chi finisce qui dentro non viene accolto e aiutato per un futuro reinserimento nella società, ma sbeffeggiato, violentato e terrorizzato dalla follia che impregna mura e corridoi.

Il concetto di Arkham come un luogo al di fuori di qualunque schema umano venne introdotto per la prima volta da Grant Morrison nella sua graphic novel “Arkham asylum – Una folle dimore in un folle mondo”. Da quella storia, i più grandi scrittori delle vicende del cavaliere oscuro hanno sempre trattato Arkham alla stregua di un loro personaggio, a volte investendolo di poteri quasi sovrannaturali, altre volte giocando sull’atmosfera terrificante che deve avere un luogo popolato da simili esseri. Arkham non è pericoloso solo per chi ci viene rinchiuso, ma anche per chi ci lavora. La cosa migliore che possa capitare ad un membro del personale di Arkham è di restare ucciso durante la fuga di qualche criminale. Ma l’aspetto peggiore è la corruzione della mente, che finisce per rendere folli tutti quelli che vi si trovano all’interno. Significativo in tal senso è il fatto che proprio tra le sue mura siano stati creati personaggi come Harley Quinn e lo Squalo bianco. Perfino Batman non può non subire l’influenza di Arkham. E se un uomo che ha fatto della paura la sua principale arma non si addentra volentieri in questo luogo, può solo voler dire che Arkham è davvero pericoloso, forse più di qualunque criminale possa essere rinchiuso nelle sue celle.

domenica 15 febbraio 2009

Inverno

Sono stato a casa per tutto il fine settimana, dalle cinque e mezza di venerdì pomeriggio alle tre e mezza di domenica pomeriggio. L’unica piccola pausa è stata quella finestra di due ore e qualcosa il sabato pomeriggio per andare al cinema. Sono rimasto a casa perché è inverno. È la mia stagione preferita, e questi due giorni e poco più non sono stati affatto male. Certo, potevano essere meglio, ma in fondo anche peggio. L’ideale sarebbe stato che non ci fosse nessuno a casa per tutto il tempo, però per fortuna il sabato sera è stato così, e stamattina il televisore ha avuto la meravigliosa idea di rompersi, così ho potuto trascorrere la mattinata libero dal fastidioso rumore che ne esce fuori ogni volta che i miei genitori sono in casa. L’inverno è fatto di suoni, e in questi due giorni c’è stata la pioggia scrosciante sulla terrazza, il ticchettare delle gocce sulle mattonelle, il frastuono del torrente che scorre vicino casa mia e che è quasi sempre in secca, tranne negli ormai fin troppo rari giorni di pioggia invernali. L’inverno è fatto di colori, e in questi due giorni ci sono state tutte le possibili sfumature di rosso delle fiamme della stufa a legna accesa dalla tarda mattinata fino a notte fonda. L’inverno è fatto di silenzio e lettura, e con l’uscita a cena inaspettata e la rottura del televisore, in questi due giorni ho avuto il silenzio e la serenità che ci vogliono per leggere tre libri di fila. In questo modo, l’inverno diventa fatto di ricordi. Ricordi di quando ero piccolo, nell’altra casa in cui ho trascorso i primi quattordici anni della mia vita, con la campagna, l’erba bagnata, il camino acceso, il tappeto e io che ci giocavo sopra con i lego e poi, più grandicello, che leggevo accanto al fuoco. Ricordi di un freddo che si infilava nelle ossa, che ti faceva sentire vivo perché se sentivi freddo eri vivo, che ti faceva capire quanto era bello il calore di un fuoco. Ricordi di qualcosa di meraviglioso e magico che poteva spuntare fuori dalla notte solcata dai lampi, attraverso le ombre che i rami degli alberi proiettavano nel giardino. Ricordi di vetri appannati, di legna bagnata che schiumava e soffiava a contatto col fuoco, di giornate passate a segare i tronchi più piccoli, a spaccare quelli grossi con l’accetta, ad attaccare le fascine di rametti per accendere. Ricordi del magazzino della legna che per me era una sorta di antro oscuro in cui si nascondevano misteri e paure, soprattutto quando di giorno ti eri scordato di fare rifornimento e dovevi andarci che già era buio perché la legna dentro scarseggiava e ogni suono diventava qualcos’altro nella tua immaginazione. Ricordi. A quei tempi, la vita era facile. È giusto che oggi non lo sia, ma il pensiero non può che tingersi di malinconia quando va a quei giorni. Quella stessa malinconia che trasuda dalle note di questa canzone. Ma una malinconia che porta speranza, una speranza che vale per tutti, per quelli che aspettano una nuova primavera, che desiderano veder sbocciare i fiori, che aspettano il vento caldo dell’estate, e per quelli che sperano che torni la neve a coprire tutto col suo manto bianco, perché sotto la neve tutto diventa uguale, è come stare sotto il mare: lì non ci sono gioie e dolori, aspettative e delusioni. La neve, come il mare, consola tutti. Per tutto il resto, non ci resta che sperare nel futuro. Un’amica ha appena pubblicato una citazione sull’avere il coraggio di fare un passo oltre i confini. L’ho pubblicata anch’io, un po’ di tempo fa. È facile picchiare le dita sulle lettere di una tastiera, ma troppe volte non è altrettanto facile fare quello che scriviamo. Quando l’inverno te lo porti dentro devi imparare a convivere col freddo. Altrimenti, la neve, invece che una coperta, potrebbe diventare una tomba.

Inverno

Sale la nebbia sui prati bianchi
come un cipresso nei camposanti,
un campanile che non sembra vero
segna il confine fra la terra e il cielo.

Ma tu che vai, ma tu rimani,
vedrai la neve se ne andrà domani,
rifioriranno le gioie passate
col vento caldo di un’altra estate.

Anche la luce sembra morire
nell’ombra incerta di un divenire,
dove anche l’alba diventa sera
e i volti sembrano teschi di cera.

Ma tu che vai, ma tu rimani,
anche la neve morirà domani,
l’amore ancora ci passerà vicino
nella stagione del biancospino.

La terra stanca sotto la neve
dorme il silenzio di un sonno greve.
L’inverno raccoglie la sua fatica
di mille secoli da un’alba antica.

Ma tu che stai, perché rimani,
un altro inverno tornerà domani,
cadrà altra neve a consolare i campi,
cadrà altra neve sui camposanti.

lunedì 9 febbraio 2009

The One

Me ne avevano parlato degli amici che potrei definire intenditori di fumetti. Io non sapevo niente, non avevo mai nemmeno sentito nominare Rick Veitch. Mi dissero che è praticamente il successore concettuale di Alan Moore. Caspita! A dire il vero, mi sembrò un po’ un’esagerazione. Però il fatto che lo stesso Moore gli aveva affidato la gestione di Swampthing dopo che lui l’aveva lasciato per dedicarsi ad altri lavori, qualcosa doveva pur dire. Come ho detto, non ne sapevo niente. Il che è sempre una cosa buona. Molti si spaventano a leggere qualcosa che non conoscono, neanche per sentito dire. Per esempio, comprano un libro solo se hanno letto una recensione o hanno parlato con qualcuno che l’ha già letto e del cui giudizio si fidano. Per me questa cosa non vale, o vale molto poco. Se ne so qualcosa e mi intriga, bene, altrimenti, bene lo stesso. La maggior parte dei miei libri è stata comprata e letta nella più totale ignoranza. Non avevo idea di chi fossero Jonathan Coe, Kurt Vonnegut o Domenico Starnone prima di comprare i loro romanzi. Allo stesso modo, nessuno mi aveva mai detto niente di Promethea o di Sandman, prima di iniziare a leggerli. Così è stato con “The One”. Mi è bastato sentir dire che Veitch è uno degli autori più innovativi che ci siano per ora in circolazione.

Definire “The One” non è facile. Il sottotitolo dice “L’ultima parola sui supereroi”, quindi dovrebbe essere un fumetto sui supereroi. E in effetti, ce ne sono, nella storia. Ma ci sono anche i ‘normali’, gli esseri umani, che forse sono ancora più interessanti. Potrei dire che è un romanzo di fantapolitica, molto calato nel periodo storico in cui è stato scritto. Nel 1984 Rick Veitch si siede alla scrivania e scrive “The One”. E cosa c’era nel mondo, a quell’epoca (ridendo e scherzando sono passati venticinque anni!)? Beh, semplice: da un lato USA, dall’altro URSS. In mezzo? Tutto il resto. Vale a dire tutti gli uomini, le donne e i bambini che vivevano all’ombra della guerra fredda, in quella costante paura innominabile del disastro nucleare. Il 1945 e il Giappone erano serviti a dimostrare al mondo il potere della bomba. Ma molto più grande della devastazione scatenata a Hiroshima e Nagasaki era stata la paura che la bomba aveva sparso per tutto il mondo. I russi ce l’avevano, gli americani ce l’avevano. Cosa poteva succedere? Partendo da questo presupposto, Veitch va avanti, introducendo l’elemento sovrannaturale. Visto che entrambi avevano le armi nucleari, gli scienziati dei due governi furono impiegati per trovare qualcosa che potesse conferire un vantaggio. Si dovevano creare dei supersoldati. Ma il caso vuole che sia l’uno che l’altro dei giocatori della scacchiera riescano ad avere anche questa nuova arma. Solo che nessuno dei due si preoccupa del resto dell’umanità. Senza che nessuno se ne renda conto, l’evoluzione ha compiuto un balzo in avanti. La coscienza degli uomini, vissuti per anni in un clima di terrore silenzioso, ha agito da catalizzatore, e le azioni dei superesseri russi e americani hanno acceso la scintilla che porterà l’umanità al nuovo stadio evolutivo. Ma non tutta l’umanità.

Approfondendo la psicologia dell’esistenza umana, Veitch dissocia le due parti che si contendono l’animo, dando loro forma in due concetti antitetici: l’Uno e l’Altro. L’Uno è la manifestazione del bene, della forza dell’amore puro, dell’altruismo, del rispetto di chi ci sta accanto, simile e meno simile. L’Altro è il suo esatto contrario, la concretizzazione degli istinti più bassi scatenati dalla paura, il desiderio di prevaricare come unica risorsa di sopravvivenza. Ma la cosa davvero interessante è che alla fine vincono entrambi. L’Uno riesce a portare tutti coloro che sono riusciti a scegliere, a vedere oltre gli occhi, in un paradiso dove i desideri e i sogni costituiscono la realtà. L’Altro si ritrova a dominare quello che resta del pianeta Terra, spogliato della sua anima pura, all’insegna della sofferenza e della morte come unici mezzi di esistenza. In questo scenario, i due supereroi americani, Charles e Amelia, forti di una ritrovata passione l’uno per l’altra, e ormai liberi dai falsi divieti che erano stati loro imposti dal governo per controllarli, dovranno cominciare un nuovo ciclo vitale, come nuovi Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden purificato dal male. Fino a quando anche loro non giungeranno ad un vicolo cieco evolutivo in cui sarà di nuovo necessario l’intervento dell’Uno e dell’Altro per salvare chi sceglie di vivere per gli altri e condannare chi vive solo per se stesso.

Grande romanzo di fantapolitica, satira, fantascienza e sentimento, che mi ha sorpreso molto piacevolmente per la sua novità, e che consiglio a tutti quelli che vogliono leggere storie diverse da quelle in cui i supereroi hanno la pretesa di trasmettere messaggi adulti e impegnati continuando a comportarsi da bambini che si picchiano per le caramelle. Che magari saranno pure caramelle cosmiche, ma sempre caramelle sono!

martedì 3 febbraio 2009

Le menzogne della notte

Libro letto per caso, perché essendomi dimenticato di portarne con me un altro oltre quello che stavo per finire, in uno dei miei ritorni a Cefalù, mi sono trovato nel fine settimana senza nulla da leggere. Così mi sono messo a ispezionare la libreria di casa, sebbene ben poco di quello che contiene suscita il mio interesse. L’occhio mi è caduto su questo libro, e, attirato più che altro dal fatto che fosse abbastanza breve da poterlo leggere in due giorni senza troppo sforzo, mi sono deciso e l’ho cominciato. Sebbene sapessi che Gesualdo Bufalino è un noto romanziere del Novecento, e per giunta siciliano, non avevo mai letto un suo romanzo, quindi non sapevo cosa aspettarmi. Tuttavia la storia, per quel poco che si poteva capire dalla quarta di copertina, sembrava interessante.

Su un’isola penitenziaria del Mediterraneo, quattro uomini, condannati a morte il mattino dopo, trascorrono l’ultima notte. Non sono semplici malfattori, ma quattro compagni di una setta segreta che cospirano contro il re. Tutti diversi, nei modi e nelle parole, ma tutti uguali negli intenti. Nella cella del conforto (quella nella quale i condannati hanno il privilegio di trascorrere l’ultima notte) incontrano un altro detenuto, anche lui bandito contro il re e lo Stato, ma non loro compagno, e anche lui condannato alla ghigliottina per la mattina dopo. Non sapendo come trascorrere l’ultima veglia, il quinto ospite propone una sorta di Decamerone, in cui ciascuno dei quattro, a turno, racconterà una storia con la quale avviarsi verso il destino che lo attende all’alba. Cominciano così “Le menzogne della notte”.

Il romanzo è ambientato nel Risorgimento, probabilmente nel Regno delle Due Sicilie, anche se nulla di questa ambientazione può essere preso per certo. Nomi e date si intrecciano come le pagine scambiate di un atlante, in cui non sia più possibile riconoscere un filo conduttore, ma delle quali i dettagli sono pur sempre conservati e precisi. A questo si aggiunge anche la sottile confusione intessuta dai vari personaggi nei loro racconti, che all’apparenza sembrano semplici stralci di vita vissuta, ma che, forse, hanno un secondo fine ben più complesso del semplice passatempo. Infatti, il quinto ospite della cella non è affatto chi dice di essere, e la sua presenza lì è studiata per carpire ai quattro il segreto che intendono portarsi nella tomba e che nessuna tortura è valsa a fargli rivelare: l’identità del loro capo, colui che chiamano solamente ‘il Padreterno’. Ma si possono imbrogliare quattro briganti, maestri della truffa e del complotto, che innumerevoli volte sono scampati ad agguati e inseguimenti? A nessuno è dato saperlo. Potrebbe essere che le loro storie siano davvero reali, o solamente abbellite da pittoresche menzogne per rendere più avvincente un racconto altrimenti banale, e che la disperazione degli ultimi momenti gli abbia fatto tradire un segreto fino ad allora difeso a costo della vita. Ma potrebbe anche essere che i quattro, avendo fin da subito scoperto la vera identità e le intenzioni del loro ospite, con abili mosse fatte di gesti e di sguardi impercettibili, abbiano ordito, attraverso quelle storie, una trama segreta per consegnare all’ascoltatore una falsa identità del loro Padreterno, e dare in questo modo, con l’ultimo loro alito di vita e ingegno, un colpo ferale alle fondamenta di quel potere che tanto hanno combattuto con le armi. Così prendono forma le menzogne della notte, che la luce di un’alba tinta di sangue può forse tentare di disperdere, ma di cui certamente non è capace di annullarne gli effetti.

Ma che dico? Il buio è una cecità, dove pure si possono con dita cieche stringere dita d’altri non meno cieche, epperò camminare in due, solidali nel ricordo e nel rammarico della luce. Invece la morte non è né buio né luce, ma solo abolita memoria, cessazione e assenza totale, incinerazione senza superstiti scorie, dove tutto ciò che è stato, non soltanto non è più né sarà, ma è come non fosse mai stato...