giovedì 25 dicembre 2008

Apocalisse ora!

Regalo tanto inaspettato quanto gradito quello che mi hanno fatto gli amici Filippo e Salvatore in occasione di queste festività natalizie. Gradito non solo perché è sempre piacevole ricevere qualcosa che qualcuno ha pensato apposta per te, ma anche perché mi permette di scoprire un autore che non conoscevo affatto. E in effetti devo dire che mi è piaciuto questo Peter Bagge di cui non avevo mai sentito nemmeno il nome.

“Apocalisse ora!” è una storia che potrebbe essere descritta in molti modi, ma quello che più mi evoca sono i contrasti. Semplice ma complessa, lineare ma contorta, comica ma tragica, grottesca ma impegnata. Secondo me dipende molto dallo stato d’animo e dalle inclinazioni in cui il lettore si trova nel momento in cui la legge. Come dicevo, semplice: un leader nordcoreano sgancia una bomba atomica su Seattle. Complessa: il protagonista, Perry, si trova ad un tratto catapultato al di fuori del suo mondo, fatto di città e tecnologia, per ritrovarsi in un contesto che potrebbe benissimo essere definito primordiale. Lineare: l’unica cosa da fare è sopravvivere. Contorta: le relazioni interpersonali cambiano la loro sostanza, il vicino di casa o il gestore di un market possono essere una preda o un cacciatore. Il lato comico e quello tragico possono benissimo essere espressi dalle stesse immagini: le crisi isteriche di Perry quando il cibo scarseggia, l’isolazionismo di alcuni gruppi, come la comune femminile vicino al loro campo, la apparente noncuranza con cui il suo compagno di avventura obbligato affronta gli eventi, la totale regressione agli istinti primordiali. Contrasti che si sovrappongono uno sull’altro, ma senza creare confusione in una storia che scorre via liscia, pagina dopo pagina, non lasciando nulla al caso e senza arrivare mai a conclusioni banali.

Come ormai saprete se leggete queste pagine anche solo saltuariamente, i fumetti sono sempre stati una mia grande passione. E per una forma di attaccamento quasi nostalgico, sono sempre stato legato allo stile classico del fumetto, dal punto di vista grafico. Però occorrono due precisazioni. Primo: non esistono disegni senza una storia, il che significa che il più abile dei disegnatori potrebbe produrre opere meravigliose dal punto di vista estetico ma di pessima qualità a livello complessivo, per mancanza di una storia a supportare le tavole. Secondo: sebbene il disegno classico sia ancora quello che preferisco, ci sono delle innovazioni grafiche che non mi dispiacciono affatto, anzi mi risultano molto gradevoli. Il fumetto di Bagge rispetta benissimo queste due regole personali. La storia mi è sembrata consistente, valida, e adatta al mio concetto di fumetto. I disegni, per quanto del tutto privi di quello stile classico cui sono legato, mostrano chiaramente un carattere personale molto forte, e delle soluzioni grafiche che, senza pretesa di voler essere innovative e sconvolgenti, risultano gradevoli e interessanti. Chissà, forse in futuro avrò occasione di leggere anche qualche altra sua opera. Per adesso, questa prima esperienza è stata molto gradevole.

sabato 20 dicembre 2008

X-Men Origins: Wolverine

Tra poco più di cinque mesi è prevista l’uscita nelle sale cinematografiche del film “X-Men origins: Wolverine”, capitolo accessorio e complementare della fortunata trilogia dedicata alla squadra di eroi mutanti per eccellenza della Marvel comincs. La storia sarà incentrata su uno dei personaggi di maggior rilievo della trilogia principale, quel Wolverine, interpretato da Hugh Jackman, che è forse il più noto tra i supereroi mutanti Marvel. Il titolo della pellicola è esplicativo del suo intento primario, quello cioè di raccontare le origini di Wolverine, da sempre uno dei più misteriosi e intricati enigmi della saga degli X-Men, fin dal primo esordio dell’eroe nella compagine del gruppo nell’ormai storico “X-Men nuova genesi” del 1975. Ecco qualche nota storico-biografica.

Wolverine, l’uomo conosciuto solamente con il nome Logan, è in realtà un mutante, un essere che a seguito di un’anomalia genetica sviluppa delle caratteristiche peculiari genericamente note come poteri mutanti. Nel caso specifico, Wolverine è dotato di sensi ipersviluppati, in particolare l’olfatto, ma anche l’udito e la vista non sono da meno, così come la forza muscolare e l’agilità. Secondo componente della sua mutazione è il cosiddetto fattore rigenerante, che è molto più che la semplice capacità di guarire rapidamente dalle ferite, dato che lo protegge virtualmente anche da qualsiasi malattia e ne rallenta in maniera drastica il processo di invecchiamento. Infine, il suo scheletro è totalmente fuso con un metallo sintetico chiamato adamantio, la sostanza più dura e resistente del pianeta, al punto che, nella sua forma definitiva, neppure l’adamantio è in grado di scalfire l’adamantio. A corredo di quest’ultima qualità, tre lunghe lame retrattili a forma di artigli, anch’esse di adamantio, escono da ciascuna delle sue mani, e vengono da lui utilizzate come micidiali armi da taglio. Ma dell’uomo chiamato Logan, oltre questo, si sa ben poco. È stato un soldato e un agente segreto, prima per conto del governo canadese, e poi della CIA. Inoltre, per cause inspiegate, la sua memoria è parecchio frammentaria, al punto che lui stesso non ricorda le sue origini e ha solo rari e sconnessi flashback della sua vita passata. A chiarire un po’ questi misteri, arriva Barry Windsor-Smith con la sua miniserie “Arma X”, diventata una pietra miliare della storia del mutante canadese. In essa, l’autore svela che in realtà Wolverine non è nato con lo scheletro di adamantio che si ritrova, e che questo è il risultato di un esperimento paramilitare segreto, denominato appunto Arma X, destinato al potenziamento di Logan per farne un supersoldato privo di volontà, da utilizzare in particolari operazioni. Scopriamo quindi che le alterazioni della memoria di Logan facevano parte del programma di condizionamento mentale finalizzato all’annullamento della volontà del soggetto, necessario tanto quanto il potenziamento fisico per renderlo una macchina da guerra perfettamente controllabile. Durante i quasi sette anni della sua gestione della serie personale di Wolverine, lo scrittore Larry Hama aggiunge qualche dettaglio a questa trama di base, senza però alterarne le linee guida e rivelando altri aspetti del passato dell’eroe, sia precedenti che seguenti l’esperimento Arma X. Dopo la fine della gestione di Hama, ben poco si è aggiunto a questo filone narrativo, e devo dire che, da lettore appassionato, ho assistito ad un costante declino della qualità delle storie dei supereroi Marvel in generale, e dei mutanti in particolare, a partire dalla fine degli anni Novanta, declino che si è fatto rovinoso negli ultimi cinque anni. In questo periodo, uno dei pochissimi (per non dire l’unico) bagliore di luce narrativa è stato la gestione degli eroi mutanti da parte dello scrittore scozzese Grant Morrison, il quale ha saputo riprendere e approfondire in maniera brillante e innovativa alcune delle tematiche cardine della storia degli X-Men. In questo filone narrativo, durato poco più di tre anni, una delle sottotrame principali è stata quella delle origini di Wolverine. Tenendo in ben poco conto i dettagli estetici di scarso valore, e badando più alla consistenza della storia, Morrison ha dato forma e sostanza a quella che era stata una mia personale ipotesi fin da quando ho iniziato a leggere con costanza e passione le avventure dell’eroe canadese. Nella visione dell’autore scozzese, il progetto “Arma X” non è altro che una parte di un disegno ben più ampio, sia dal punto di vista concettuale che pratico, il programma “Arma plus”. Per la prima volta nella storia, scopriamo che quella “X” non ha nulla a che vedere con il fantomatico fattore X che renderebbe gli individui dei mutanti (ipotesi mai confermata nel corso di tanti anni di storie), ma sarebbe molto più semplicemente, e logicamente, un numero: il dieci dei numeri romani, per la precisione. Ecco quindi che Arma X diventa nient’altro che il decimo esperimento del programma per la creazione del supersoldato, l’arma da guerra definitiva, Arma plus appunto. A pensarci bene, tutto ciò è più che logico. Era pensabile che un esperimento che prevedeva la fusione ad altissima temperatura di una lega complessa di sali metallici come l’adamantio ad una struttura organica vitale come l’osso potesse essere stata sviluppata così, dal nulla? Ovviamente no. È molto più logico che al risultato ottenuto su Logan si arrivi dopo una serie di tentativi, in gran parte risultati in fallimenti. Wolverine non è altro che il soggetto numero dieci del programma. Altra affermazione logica: è possibile che ci fosse un solo centro di ricerca e sviluppo per un progetto tanto importante, quell’unico laboratorio e quell’unica equipe distrutti e massacrati da Logan nella sua fuga? Assolutamente no. Infatti Morrison ci dice che il programma Arma plus è andato avanti, creando altri esemplari di supersoldato sempre più evoluti, fino ad arrivare alla creatura definitiva, l’arma finale, l’arma plus per eccellenza: Arma XV (quindici). Purtroppo, la gestione di Morrison delle testate mutanti si è conclusa dopo poco tempo e in maniera piuttosto brusca, con una caduta di stile in cui molti hanno voluto ravvisare una sorta di vendetta da parte dello scrittore che, sapendo di essere stato ‘scaricato’ dalla Marvel, avrebbe deciso di concludere la sua gestione con un finale sconvolgente e per niente in linea con le storie precedenti né con le fasi iniziali della sua stessa gestione.

Purtroppo sembra che niente di tutto ciò sia presente nella pellicola che tra non molto vedremo proiettata nelle sale, dato che pare che venga rispettata la saga originale di Windsor-Smith, senza le ulteriori innovazioni degli ultimi anni. Invece dovrebbe essere presente la narrazione delle origini di Logan, non come supereroe ma come uomo, ripercorrendo la storia in tre parti “Wolverine: origini” di Paul Jenkins e Andy Kubert, in cui assistiamo alla nascita e alla crescita del giovane che in seguito assumerà l’identità prima di Logan e poi di Wolverine. Ci saranno frammenti anche della sua vita da soldato, di quella da eremita sulle montagne canadesi, e il rapporto controverso e violento con la sua principale nemesi, Sabretooth, anche lui un mutante che con l’eroe condivide molti, forse fin troppi, aspetti, perché questa somiglianza non faccia sorgere più di un sospetto. Tutte queste ovviamente sono solo deduzioni dal trailer del film, e anche se avrei preferito vedere una storia più nello stile di Morrison, attendo di vedere se questo nuovo capitolo si dimostrerà all’altezza della trilogia originale degli X-Men, forse l’unica di valore tra tutte le pellicole basate su supereroi della Marvel comics.


mercoledì 17 dicembre 2008

"...e il mio dono è il fuoco!"

























Io son Promethea,
è il nome mio l’idea
di quello avvinto ad una roccia sotto il sole
che rapito la celeste fiamma avea.

Io son Promethea,
il padre mio morto piango,
le sue ossa martiri, sporcate d’eresia
di chi vuol mutare l’oro in piombo e fango,
deturpare il mondo con turpe alchimia.

Io son Promethea,
adottata da un dio,
cresciuta tra valli irreali e colli e fonti.
Si narra nella materia il racconto mio,
ma la mia materia vive nei racconti.

Io son Promethea,
io son colei sospesa
tra terra fissa e correnti immateriali,
un pensier che corre sulla materia estesa,
e i sandali che calzo son mortali.

Io son Promethea,
dalla chiarezza pura
della mente mi chino alla terrena meta,
dal giorno della fiaba scendo alla dura
notte dei fatti, da sogno divento creta.

Io son Promethea,
io son la diceria
che ragione vuol piegar perché sia meglio.
Io son quel che resta di un libro messo via,
io sono il sogno che non termina al risveglio.

Io son Promethea,
la scintilla dell’arte,
son l’ispirazione, il desiderio, il gioco.
L’immaginario che dall’umano parte.
Io son Promethea, e il mio dono è il fuoco!


Di solito, i titoli dei miei post sono quelli delle opere di cui mi accingo a parlare. anche quando ho parlato di singole storie presenti in volumi, ho riportato fedelmente il loro titolo tradotto in italiano (è il caso de “Il rito della primavera” che faceva parte della saga “Swampthing”). Stavolta invece non l’ho fatto. Il titolo doveva essere “Promethea”, e invece ho scelto di prendere il verso conclusivo della poesia che vedete qui sopra, e che tra poco spiegherò cos’è. il motivo di questa scelta è semplice: non si può parlare di Promethea. Qualunque tentativo sarebbe (e sarà, fidatevi) riduttivo rispetto alla grandiosità di questa opera, partorita dalla mente geniale di Alan Moore e realizzata graficamente da J.H. Williams III e Mick Gray. Quando ho finito di leggerla, sono stato tentato di non scrivere nulla in proposito, quasi per una forma di rispetto, ma poi la tentazione di condividere qualcosa con quanti vorranno ha prevalso, e così eccoci qui.

Sophie Bangs si interessa a Promethea, personaggio fantastico più volte ripreso da diversi autori nel corso della storia delle arti figurative e letterarie. Poeti, pittori, fumettisti, ne hanno raccontato a loro modo le gesta, e Sophie vuole scrivere un saggio per il college su di lei. Però non sa che Promethea esiste veramente. È una manifestazione dell’immaginazione dei suoi autori, proiettata da questi su persone a loro care, o anche su loro stessi, in qualche caso. Nella storia si sono succedute diverse Promethea, e Sophie chiede un’intervista alla moglie dell’ultima persona che ne ha scritto le gesta. Ma una setta segreta invia un essere fatto di oscurità per uccidere la ragazza. È in questa occasione che Sophie capisce di essere la nuova incarnazione di Promethea, e che per trasformarsi in lei deve scrivere dei versi che la aiutino a materializzarla su di sé. Così scrive la poesia che ho riportato all’inizio, e inizia la storia della nuova Promethea. Fino a qui è tutto facile. Niente di più di una storia a fumetti dal sapore fantasy. Tutto sommato se ne sono viste molte anche prima, di storie così.

Ma COSA è Promethea? CHI è Promethea? QUANDO è Promethea? DOVE è Promethea? COME è Promethea? PERCHÉ è Promethea? Sono domande tutt’altro che banali. Prima di tutto, dovremmo capire se, dicendo Promethea, vogliamo parlare del fumetto come prodotto, della storia che racconta, o del personaggio che ne è protagonista. Così vedete che il COSA non è uno, ma ben tre insieme. Passando al CHI, Promethea è la manifestazione dell’immaginazione del suo autore, e quindi in questo caso di Alan Moore, che però ci racconta storie anche di tutte le eroine precedenti. Ma è anche una nuova supereroina che fa il suo esordio come tale in una New York futuristica alle porte del 2000. E a volerla dire tutta, Promethea è anche l’araldo dell’apocalisse, colei che scatenerà la fine del mondo. QUANDO e DOVE? Beh, anche qui le risposte potrebbero essere tante. New York, Egitto, mondo reale, Immateria, realtà, sogno, passato, presente, futuro, universo, atomo... La risposta migliore è quella data dal percorso della storia. Promethea è sempre e mai, ovunque in nessun luogo, freneticamente immobile in qualunque piano dell’esistenza l’uomo possa concepire. COME è Promethea, nessuno di noi può dirlo con certezza. Possiamo solo vederla e sentirla come ci appare nella storia, come la recepiamo, e ogni volta sarà diversa per ciascuno di noi che la leggiamo, ma solo Alan Moore, J.H. Williams III e gli altri suoi creatori sanno veramente com’è Promethea. E infine PERCHÉ. A questa domanda è ancora più difficile rispondere, e non ci sono dati oggettivi che possono aiutarmi. Però quello che ho provato nel leggere questa storia è stato che ci fosse un profondo bisogno che esistesse, una necessità non solo mia personale, ma che sentivo in maniera collettiva. Il mondo, il nostro mondo, quello reale (ma chi dice che lo sia più di altri?) aveva bisogno che venisse scritta e disegnata la storia di Promethea. Una storia che forse ha un unico, vero scopo: spiegarci tutto ciò che esiste. Tutto quello che fa parte dell’esistenza umana, tutto quello che la nostra mente ha mai potuto e mai potrà concepire, tutto quello che sappiamo e tutto quello che impariamo, tutto è presente in questo fumetto. Non credo sia possibile contare quanti livelli di lettura possiede questa storia (satirico, religioso, avventuroso, storico, mistico, comico...) né tanto meno quanto simbolismo vi è presente. Tutto ciò che è scritto e disegnato in queste pagine è un simbolo, una metafora, una trasposizione, di altri simboli, che a loro volta traslano su nuovi piani di conoscenza concetti umani e sovrumani (ammesso che questi ultimi siano qualcosa di diverso, e non una semplice manifestazione del pensiero umano).

Promethea è un fumetto e non poteva essere altro che un fumetto. La storia si conclude nel capitolo 31. Il 32 è una sorta di vademecum, un “dizionario” del Prometese che gli autori ci consegnano in una forma molto particolare, che ha richiesto loro mesi di lavoro per essere realizzata (e non dico altro perché anche qui non può essere descritta ma va vista e sentita sotto i polpastrelli). Perché doveva essere un fumetto? Ce lo spiega lo stesso Moore in una frase proprio di questo capitolo 32. E la medicina trova una spiegazione perfetta per questo fenomeno, di cui ora dirò. Uno studio del Pentagono (che invece di impedire lo schianto di aerei contro i palazzi spende soldi per fare queste cose!) ha dimostrato che il fumetto è la migliore forma di comunicazione dei messaggi mai inventata dall’uomo. Come si fa uno studio di questo tipo? Semplice. Si prendono cento persone, e a ciascuna di fanno leggere dieci libri. Si prende una frase a caso e si contano quante di queste cento persone sono capaci di associarla al libro da cui è stata presa. Poi si prendono altre cento persone, e gli si fanno vedere dieci cataloghi di immagini varie. Se ne prende una e si contano quante persone la attribuiscono al catalogo giusto. I risultati dei due gruppi saranno simili, perché nella popolazione generale, una percentuale di persone ha una memoria più visiva e una percentuale più o meno uguale ha una memoria più letterale. Infine si prendono cento persone, e gli si fanno leggere dieci fumetti. Si prende a caso una pagina di uno di questi e si contano quante la associano al fumetto da cui proviene. La percentuale di persone che fa l’associazione corretta è enormemente superiore a quelle dei due gruppi precedenti. Perché? La risposta è nel cervello umano. Una balena o un elefante hanno più o meno un cervello che pesa quanto quello di un uomo. Animali minuscoli, come alcuni uccelli e roditori, hanno in proporzione un cervello che pesa molto di più di quello umano. E allora perché non sono intelligenti tanto quanto noi, se non di più? Evitando di fare facili battute sul fatto che gran parte dei nostri politici risulta meno intelligente della media dei roditori, vi rispondo che l’intelligenza non è data dal numero di neuroni, ma dalle connessioni che stabiliscono. Nel cranio umano c’è poco spazio, rispetto alle funzioni che il cervello deve svolgere, quindi l’evoluzione doveva fare economia. Avendo due mani da muovere, c’era bisogno di due aree di controllo del movimento delle mani. Ma visto che parliamo con una sola bocca, bastava una sola area del linguaggio, così come una sola memoria e una sola area del senso della vista (gli occhi sono due, quindi abbiamo due aree visive primarie, ma queste proiettano in una sola area di coordinazione delle immagini, perché il senso della vista è unico). Quando nasce, un bambino interagisce col mondo, e per prima cosa lo fa guardando. Poi, sotto l’influsso di adeguati stimoli, sviluppa tutti gli altri sensi, e infine impara a comunicare, prima parlando e poi scrivendo. L’area del linguaggio sta nell’emisfero di sinistra, che è detto verbale, mentre quella dell’analisi delle immagini è a destra, nell’emisfero preverbale. Ecco la ragione del significato di quel test del Pentagono (potete crederci, è l’esercito americano, il massimo in tutto quello che fa!). Quando leggiamo un libro o ascoltiamo un discorso, usiamo solo mezzo cervello o poco più, e lo stesso quando guardiamo delle semplici immagini, solo che stavolta è l’altra metà che usiamo. Ma solo quando le due cose vengono combinate, come succede nel fumetto, tutto il cervello viene attivato, e non solo le singole aree, ma anche tutte quelle connessioni dal cui numero e attività dipende l’intelligenza. In altre parole, se gli animali leggessero fumetti, ci avrebbero già superato di molto sul piano socioculturale! Scherzi a parte, non è un caso che le più antiche forme di scrittura, l’egiziano e il cinese, fossero praticamente dei disegni (scrittura ideografica). E la nostra scrittura, relativamente più moderna, non fa altro che associare convenzionalmente dei disegni (i caratteri) a dei suoni e ad un codice di significato. Ecco perché Promethea doveva essere un fumetto. Perché solo il fumetto riesce a comunicare pienamente il messaggio che porta, molto più di un libro o di un quadro. Leggere fumetti rende più intelligenti (scientificamente dimostrato, come ho detto), eppure c’è ancora chi li considera prodotti di sottocultura, destinati a coloro che non sarebbero in grado di apprezzare le ‘vere’ forme d’arte.

Su Promethea potrei scrivere altre dieci pagine e non sarebbero comunque abbastanza. Come ho detto, in questa opera è contenuto tutto ciò che esiste nell’esistenza umana, conscia e inconscia, ed è per questo che mi sento di dire che è un’opera che chiunque dovrebbe leggere almeno una volta nella vita.

venerdì 12 dicembre 2008

Circolo chiuso

Dove eravamo rimasti? Ah, già, ricordo, a Trotter, Harding, Anderton e Chase. La Banda dei Brocchi, i ragazzi che vivono la loro adolescenza in quegli anni Settanta forieri di cambiamento in tutte le sfere della vita, personale, culturale, religiosa e sociale. Con “Il circolo chiuso” facciamo un passettino avanti di un ventennio e poco più, alla fine degli anni Novanta e all’inizio di questo nuovo millennio in cui ci troviamo. Dal romanzo dell’innocenza Coe passa al romanzo dell’esperienza, della concretezza. Anche qui, con quella collaudata formula della precedente opera, l’autore intreccia in modo magistrale vite ed esperienze personali a contesti multipli nei quali queste si articolano.

Claire Newman torna da un lungo soggiorno in Italia in quella Birmingham teatro delle vicende de “La banda dei brocchi”, decisa a scoprire cosa ne è stato della sorella, scomparsa misteriosamente nel 1978. e tra i tanti personaggi che lì vivono, incontra Paul Trotter. Quest’ultimo, più di altri, viene preso come modello di quel passaggio dall’adolescenza all’età adulta che è il fulcro di tutto il romanzo. E anche stavolta, la sua vita personale si intreccia fittamente con quanto succede nell’Inghilterra attorno a lui. Paul ha intrapreso la carriera politica, ma le sue certezze devono ancora sedimentare, visto che inizia come membro del partito conservatore, poi si converte al laburismo, ma finisce per votare a favore della partecipazione inglese alla guerra in Iraq al fianco degli Stati Uniti. E anche in ambito personale le certezze sono tutt’altro che consolidate, come appare chiaro dalla sua folle infatuazione per Malvina, sua responsabile per l’immagine, sebbene lui sia sposato. Si stabilisce quindi un curioso quanto interessante parallelismo tra le sue incertezze personali e quelle di un paese che affronta l’ingresso nel nuovo millennio con una serie di dubbi e conflitti tutt’altro che risolta. In un amalgama solido e avvincente assistiamo all’ascesa di Tony Blaire, alla svolta del partito laburista, al dramma del lavoro costretto nella morsa della globalizzazione, alle ripercussioni planetarie dei fatti dell’11 settembre, fino alle tragedie, vicine sebbene geograficamente lontane, della guerra in Iraq. “Circolo chiuso” è sì un romanzo compiuto e fine a se stesso, ma, se preso insieme a “La banda dei brocchi” (anni Settanta) e a “La famiglia Winshaw” (anni Ottanta), diventa solo un tassello di quel grande affresco che è l’Inghilterra degli ultimi trent’anni.

martedì 9 dicembre 2008

Il fascino del male - Mr. Zsasz

Storie di serial killer ce ne hanno raccontate tante, nei libri, nei film e nei fumetti, ormai li conosciamo meglio di qualsiasi altro tipo di personaggi. Eppure, ogni volta, la figura dell’assassino seriale suscita un’attrazione nello spettatore che non è comune ad altri personaggi. È innegabile che le menti malate suscitino un fascino particolare su chi crede di essere diverso da loro. E spesso è proprio il fatto che questi pazzi sembrano tutt’altro che pazzi a incuriosire chi legge o chi guarda. Mr. Zsasz è un esempio perfetto di questa attrazione. Quello che da sempre identifica il serial killer è la sua straordinaria lucidità. Per questo Victor Zsasz è molto diverso da tutti gli altri criminali psicopatici che abbiamo visto in questa lunga carrellata di ospiti del manicomio Arkham di Gotham city. Se infatti tutti gli altri ospiti delle celle di Arkham si sono sempre distinti nella nobile arte del pluriomicidio, le ragioni, o le non-ragioni, che ne hanno determinato le azioni sono sempre state molto particolari. La follia innata del Joker, la doppia personalità di Due facce, l’estremismo ambientalista di Poison Ivy, hanno sempre caratterizzato questi personaggi come qualcosa di ‘diverso’ da noi. Mr. Zsasz non ha niente di tutto questo. La caratteristica fondamentale del puro serial killer è l’ordine. In questi soggetti, la follia non si identifica con esagerate manifestazioni di violenza, con la teatralità o con un substrato psicologico perturbante. Il serial killer è una persona che nella vita di tutti i giorni è normalissima, praticamente indistinguibile da chiunque altro. Non ci sono condizionamenti esterni a determinare le sue azioni, non ci sono manifestazioni impulsive, non ci sono tratti psicologici palesemente alterati. Il serial killer non sente le voci che gli ordinano di uccidere, non è stato abbandonato o maltrattato da piccolo, non è stato esposto a sostanze psicotrope, non ha vissuto in contesti sociali al di fuori della normalità. È per questo che suscita tutto questo fascino in chi ne segue le azioni: perché tutto sommato, potrebbe benissimo essere uno di noi. La sua follia è molto più profonda di una ‘banale’ schizofrenia, o di un ‘banale’ sdoppiamento di personalità. Lui uccide perché vuole farlo. E Mr. Zsasz rappresenta alla perfezione questo modello. Forse l’unica differenza con i normali serial killer è che lui non ha un bersaglio preferito. Molti scelgono una particolare categoria di persone come loro vittime, selezionate in base ad una o più caratteristiche, che possono essere il sesso, l’età, la razza, la condizione sociale o quant’altro. Mr. Zsasz invece uccide chiunque gli capiti a tiro. Per il resto, ha tutte le caratteristiche dell’assassino seriale: quasi sempre la stessa arma, il coltello, il rituale di comporre i corpi delle sue vittime in modo da farle sembrare intente alle loro attività quotidiane, l’inesauribile pazienza nell’aspettare il momento dell’azione, l’assoluta lucidità con cui programma, esegue e descrive i suoi omicidi. Anche l’abitudine di incidersi un taglio sulla pelle per ogni vittima, che potrebbe sembrare nascondere qualche particolare significato, per lui non è altro che un modo per tenere il conto. Sono proprio queste caratteristiche a renderlo il folle criminale che è: in lui c’è tutto quello che può essere ritrovato in una persona normale, solo che è esasperato fino all’inverosimile.

Non è un caso quindi che una personalità così particolare come quella di Victor Zsasz susciti tanta attrazione nelle persone che gli stanno intorno per lavoro, vale a dire i suoi psichiatri. Mr. Zsasz compare per la prima volta nel giugno 1992, nella storia “The last Arkham” scritta da Alan Grant. Grant era già un autore di fumetti con alle spalle una carriera di tutto rispetto, ma è curioso come, subito dopo aver scritto questa storia, gli vennero rivolte accuse di plagio che sostenevano la avesse copiata da “Il silenzio degli innocenti”. In effetti, potrebbe anche sembrare che sia così, ma non ci sono motivi per dubitare della parola di Grant quando dice che fu solo un caso. Aveva in mente una storia di questo tipo già da molti anni, da quando frequentava una ragazza che studiava psicologia e aveva avuto per le mani alcuni suoi libri. Proprio questo aneddoto sta a dimostrare come la figura del serial killer e dello psichiatra che lo cura hanno molto spesso attratto le menti più creative. Così come Jodie Foster nel film, anche in “The last Arkham” c’è uno psichiatra che subisce il fascino della follia del suo assistito. E non è un caso che sia proprio Jeremiah Arkham, nipote di Amadeus Arkham, il fondatore del manicomio omonimo, a seguire il caso di Victor Zsasz. Così come lo zio, anche Jeremiah si troverà talmente coinvolto nelle vite al di fuori della normalità che risiedono tra le mura del manicomio da venirne profondamente segnato, fino a sprofondare anche lui nella pazzia. E in questa caduta, Mr. Zsasz gioca un ruolo fondamentale.

Ma anche le altre storie del volume sono interessanti. In “Il primo taglio è il più profondo”, sempre scritta da Alan Grant, la dottoressa Temple viene messa a conoscenza insieme a noi dell’origine della follia di Mr. Zsasz, e del motivo che lo spinge a uccidere.

“Mi guardi negli occhi, dottore, comunichiamo. Io uccido perché voglio uccidere. Perché ho scelto di uccidere”.

È mentre pronuncia questa frase che Mr. Zsasz stringe le dita intorno al collo dell’ingenua dottoressa, fino ad ucciderla. Spingersi a contatto con una mente come questa può essere molto, molto pericoloso.

Le altre due storie sono interessanti per un altro motivo. Tutto quello che c’era da dire su Mr. Zsasz l’ha fatto nelle prime due Alan Grant, e anche se le altre due aggiungono qualche particolare, non c’è niente di nuovo. Quello che è interessante è il rapporto di Batman con due comprimari delle sue storie. In “Vittime”, Mr. Zsasz commette l’errore di scegliere come bersaglio Alfred Pennyworth, scatenando la furia di Batman. Ma è il personaggio di Bruce Wayne che ci colpisce, un personaggio di cui scopriamo un profondo sentimento che lo lega al maggiordomo. Per Bruce, Alfred rappresenta tutto quello che rimane della sua famiglia, tutto quello che lo spinge a fare quello che fa.

Infine, in “...e tutto coperto di rosso”, compare un personaggio che ha avuto poca vita (letteralmente!) nelle storie di Batman, vale a dire Stephanie Brown, il quarto Robin. Dopo Dick Grayson e Jason Todd, Tim Drake aveva ricoperto i panni del ragazzo meraviglia, ma per motivi familiari aveva lasciato Batman ritirandosi dal suo ruolo e lasciandolo vacante. Occasione ghiotta per una giovane promessa della lotta al crimine di Gotham, Stephanie, di diventare l’aiutante del pipistrello. Troppo giovane, forse. Al punto da non sapere ancora distinguere la differenza tra giustizia e vendetta. Ma questo ci concede l’occasione per vedere la severità con cui Batman addestra i suoi compagni.

“Ci sono sempre opzioni diverse dall’uccidere. E se non impari a vedere prima quelle opzioni... allora non puoi essere il mio partner”.
“Mi stai licenziando?”.
“No... Ti sto educando”.

In memoria 80 - Fine di un viaggio

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e, sanza cura d’aver alcun riparo,
salimmo su, ei primo ed io secondo,
tanto ch’io vidi delle cose belle
che porta il ciel per un pertugio tondo;
e quindi uscimmo a riveder le stelle.

Inferno, canto XXXIV versi 133-139

lunedì 8 dicembre 2008

La banda dei brocchi

Passavo in libreria, come mi capita spesso di fare, ed appena entrato mi colpì una pila considerevole del nuovo libro di Jonathan Coe, “Circolo chiuso”. Incuriosito, ne presi uno e lo sfogliai, leggendo il risvolto di copertina. Nelle prime righe si leggeva che era il seguito, narrativo e concettuale, a “La banda dei brocchi”. Mi piace sempre qualcosa che è ‘il seguito a...’. A patto che riesca a procurarmi il principio. Una persona intelligente avrebbe spostato lo sguardo verso lo scaffale delle versioni economiche e lo avrebbe preso subito. Una persona stupida e al limite della psicopatologia, invece, va al punto informazioni della libreria, e si fa ordinare la versione originale, nella speranza che arrivi il più presto possibile perché intanto ha comprato il seguito per posarlo su una mensola senza poterlo leggere. D’altronde, la malattia mentale si chiama così per motivi precisi.

Trotter, Harding, Anderton e Chase. Il nome di un prestigioso studio legale? Niente affatto. Semplicemente un gruppo di giovani studenti, la Banda dei Brocchi, appunto. Frequentano una rinomata scuola superiore di Birmingham, che spianerà loro la strada verso college esclusivi come Oxford e Cambridge, e quindi verso carriere lavorative radiose. Ma i liceali sono pur sempre liceali, se ne fregano del futuro, per loro conta solo il presente. E così vanno avanti tra attività scolastiche e piccoli atti di bullismo, tra amori infranti e piccole invidie personali.

Ma quella tessuta da Coe non è solo la storia di quattro adolescenti che cominciano a diventare, loro malgrado, adulti. C’è un contesto, intorno a loro, anzi, una serie di contesti che si avvolgono l’uno sull’altro come gli strati di una cipolla. Il primo di questi è rappresentato dalle loro famiglie. Un background ben più modesto e ordinario di quello in cui la scuola li prepara ad inserirsi. Un mondo fatto di matrimoni vissuti nel silenzio e nell’indifferenza reciproca, di lotte di classe tra lavoratori e dirigenti, di scontri razziali. Facendo un passo più in là, troviamo tutta una cerchia di altri personaggi, ben caratterizzati tanto quanto i protagonisti, che aiutano nel definire il ruolo di questi ultimi e offrono molti spunti di riflessione. Infine, nel guscio più esterno, ci sono gli anni Settanta. Nuove richieste culturali, musica innovativa che irrompe nelle case, necessità di emergere e di rendersi protagonisti, nuovi costumi sociali e comportamentali, emancipazione sessuale, lotte politiche, terrorismo nazionalista. In questo tumultuoso mare di eventi si trovano a navigare (naufragare?) i quattro ragazzi, nella speranza che la bussola dei loro ideali e sentimenti riesca a tracciare una rotta sicura, tra ambizioni e delusioni, amori e rimpianti, vittorie e sconfitte.

domenica 7 dicembre 2008

Bella



























La bellezza, intesa nel senso più vasto possibile del termine, ha sempre rappresentato una potentissima arma nelle mani delle donne. Fin dall’antichità, nelle opere di scrittori, poeti, musicisti e artisti in generale, si ritrova l’esaltazione della bellezza femminile. Già nei primi manufatti dell’uomo venivano messi in risalto quelli che erano i caratteri distintivi della donna generatrice di vita. Nell’arte egiziana, in quella greca, e da lì fino ai giorni nostri, le donne sono sempre state esaltate nelle loro caratteristiche, fisiche e non, che le rendevano capaci di tanto ascendente sugli uomini. Le figure della dea, della ninfa, della musa, rendono alla perfezione il concetto della bellezza femminile come di qualcosa di talmente perfetto che non poteva essere che il frutto di una volontà superiore. E forse, proprio per questa loro capacità di influenzare la mente degli uomini, le donne sono sempre state temute e maltrattate dalla loro controparte maschile. Il relegarle a ruoli sociali secondari, l’annullarne le capacità decisionali e le possibilità di affermazione indipendente sono certamente le manifestazioni di una insicurezza da parte dell’uomo, che si sentiva minacciato dalla superiorità della donna. Anche volendo fare un discorso puramente scientifico e razionale, non si trovano che conferme a questa superiorità. È dimostrato che il cromosoma Y che identifica il maschio non è altro che un cromosoma X a cui manca un frammento. In termini più pratici, il maschio non è altro che una femmina venuta male. Spesso però le donne, tutt’altro che inconsapevoli di questo loro potere, si sono vendicate della inferiorità sociale loro imposta attraverso la forza delle loro arti ammaliatrici. Non è un caso che le donne ricoprissero un potente ruolo decisionale, anche se relegato nell’ombra, nelle scelte politiche delle corti rinascimentali di tutta Europa. Che fossero regine o amanti, non c’è sovrano che non abbia ceduto al fascino femminile. Una forza che poteva arrivare a possedere la mente di un uomo a tal punto che egli era disposto a fare qualunque cosa pur di compiacerla. Per le donne si sono fatte guerre e innalzati monumenti, si sono scritte leggi e commesse atrocità innominabili. E, se ancora oggi alle donne non vengono riconosciuti dai rappresentanti maschi del genere umano i ruoli che meriterebbero, sono convinto che sia perché di fatto continuiamo ad avere paura della loro forza.

Da dove mi sono venute queste riflessioni, vi state chiedendo? Beh, si dà il caso che poco fa stessi ascoltando questa canzone, e mi sono ricordato di come io, qualche anno fa, seduto in una poltrona della sesta fila del settore destro di un palazzetto dello sport, ero rimasto imbambolato a guardare questa donna che cantava sul palco.


Bella

(Quasimodo)
Bella,
la parola bella è nata insieme a lei,
col suo corpo e con i piedi nudi, lei,
è un volo che afferrerei e stringerei,
ma sale su l’inferno a stringere me.
Ho visto sotto la sua gonna da gitana,
con quale cuore prego ancora a Notre Dame,
c’è qualcuno che le scaglierà la prima pietra,
sia cancellato dalla faccia della terra.
Volesse il diavolo, la vita passerei
con le mie dita tra i capelli di Esmeralda.

(Frollo)
Bella,
è il demonio che si è incarnato in lei,
per strapparmi gli occhi via da Dio, lei,
che ha messo la passione e il desiderio in me,
la carne sa che paradiso è lei.
C’è in me il dolore di un amore che fa male,
e non mi importa se divento un criminale.
Lei, che passa come la bellezza più profana,
lei porta il peso di un’atroce croce umana.
Oh Notre Dame, per una volta io vorrei
Per la sua porta come in chiesa entrare in lei.

(Febo)
Bella,
e mi porta via con gli occhi e la magia,
e non so se sia vergine o non lo sia,
c’è sotto Venere e la gonna sua lo sa,
mi fa scoprire il monte e non l’aldilà.
Amore adesso non vietarmi di tradire,
di fare il passo a pochi passi dall’altare.
Chi è l’uomo vivo che potrebbe rinunciare
Sotto il castigo poi di tramutarsi in sale.
O Fiordaliso, vedi, non c’è fede in me,
vedrò sul corpo di Esmeralda se ce n’è.

(Insieme)
Ho visto sotto la sua gonna da gitana,
con quale cuore prego ancora a Notre Dame,
c’è qualcuno che le scaglierà la prima pietra,
sia cancellato dalla faccia della terra.
Volesse il diavolo, la vita passerei
con le mie dita tra i capelli di Esmeralda.
Di Esmeralda.



sabato 6 dicembre 2008

O è natale tutti i giorni...

Al liceo avevamo un piccolo laboratorio di teatro, e nelle ricorrenze mettevamo su qualche rappresentazione. Scenografie, costumi, riproduzioni di opere d’arte, poesie, e tutte quelle balle lì, sapete? E naturalmente cori. Una delle ricorrenze più sfruttate era ovviamente il natale, e un anno la mia professoressa di storia dell’arte ci propose questa canzone come canto finale. E oggi mi è tornata in mente, e me la sono cercata su internet. In effetti, ai tempi mi aveva molto colpito, perché è un po’ quello che ho sempre pensato. Non mi è mai piaciuto il natale. Nella mia visione più ottimistica, era un periodo di vacanza dalla scuola, dove non ci si doveva alzare presto, dove si andava a letto tardi, dove si aveva il tempo di leggere libri. Da quando sto in città un’altra cosa piacevole che si è aggiunta a questo quadro è costituita dalle passeggiate per le strade illuminate, però si è persa la vacanza, visto che a gennaio ho sempre fatto esami e quindi durante le feste si studia il più possibile. Questo è tutto quello che di buono riesco a mettere nel concetto di natale. Poi c’è tutto il resto. Ora vi aspetterete la solita retorica sulle guerre, le ingiustizie e il dolore che affliggono il mondo e se ne fottono altamente del fatto che è natale. Oppure le solite stronzate sul consumismo, sull’ipocrisia di parenti che si vedono una volta all’anno e via dicendo. Che poi è quello che dice la canzone. No, niente affatto. Non mi va di fare questi discorsi, li fanno meglio di me Luca Carboni e Jovanotti. A me non è mai piaciuto il natale perché a natale è tutto natale. Se esci, lo fai per vedere le vetrine perché è natale. Se compri qualcosa, lo fai perché devi fare i regali di natale. Se ti vedi con gli amici, è per andare a giocare a carte perché è natale. È questo che mi dà fastidio. Sembra che in questo periodo il natale sia l’unica cosa in grado di dare significato ad ogni attività dell’essere umano. Non si può organizzare una gita in campagna, perché è natale. A meno che non sia una gita di natale per fare cose di natale. Non si può organizzare una partita di calcetto, perché tutti i tuoi amici sono a casa con parenti e cugini che arrivano da qualche sperduto angolo del mondo e non sono capaci di sopravvivere un’ora senza di loro. Ecco cos’è che non sopporto: il natale catalizza tutte le attenzioni. E se non entri anche tu a far parte del gioco, sei solo un cretino che deve fare l’anticonformista a tutti i costi, perché ormai c’è anche questo, che odiare il natale è diventato una moda, quindi non puoi farlo. Sono perfettamente in linea con quello che dice il ritornello della canzone, solo che io prendo per buona la seconda parte. Visto che non è natale tutti i giorni, per me non è natale mai. Deve per forza essere natale per fare una telefonata a qualcuno? O peggio ancora, devo per forza fare una telefonata a qualcuno (che magari mi sta incredibilmente sulle palle) perché è natale? Per me sono giorni come tutti gli altri, e se qualcuno si vuole offendere, che lo faccia pure. Ai miei libri e ai miei fumetti non gliene frega niente che è natale, mi faranno compagnia come ogni giorno dell’anno. Per fortuna, quest’anno c’è qualcosa di diverso. Quest’anno, ci sono degli amici che sono più o meno in sintonia con me. E visto che tutti, nostro malgrado, saremo obbligati ai classici pranzi e cene in famiglia, abbiamo deciso di farci un natale anticipato, per passare un giorno insieme, come facciamo tutte le domeniche sera, mangiando pizza e birra, parlando di libri e fumetti e giocando ai videogiochi. E se questo vuol dire che è natale, allora per me è natale ogni domenica.

martedì 2 dicembre 2008

Saiyuki

Detesto viaggiare. Ecco, adesso vi sarete tutti convinti (se non lo eravate già) del fatto che sono un idiota. Però è la verità, detesto viaggiare, almeno per il significato comune che la media delle persone attribuisce a questo verbo. Mi vengono i brividi quando sento parlare di ‘week-end a Londra per due persone’ o di ‘crociera nel golfo del Messico’. Per me, un viaggio dovrebbe essere tale da cogliere l’intima essenza di un luogo, dal paesaggio alle città, dalla cucina alla religione, dalla storia alla vita attuale. E per ottenere questo risultato, un viaggio in un posto sconosciuto dovrebbe non solo durare almeno un paio di mesi, ma anche prevedere i mezzi necessari per raggiungere un contatto di questo tipo. Mi rendo conto che in questo senso sarebbero poche centinaia le persone al mondo che potrebbero permettersi un viaggio, e io non sono certo tra queste, ma non vedo alternative. Se voglio vedere il Sudafrica, ci sono un sacco di documentari che fanno vedere tutto spiegato alla perfezione. La realtà è che chi viaggia vuole solo scappare. Dal lavoro, dagli orari, dalle tasse, dagli impegni, e da tante altre cose che opprimono, e il viaggio fornisce l’illusione di essersi liberati di tutto. Non che questo sia un motivo deplorevole, anzi, forse è il migliore che ci sia, basterebbe solo riconoscerlo. La vera ragione del viaggio è viaggiare.

“Saiyuki” è la storia di un viaggio. È vero che ci sono elementi molto particolari, ma il tema fondamentale è questo. In un mondo in cui gli esseri umani hanno sempre convissuto con i demoni, in pace e prosperità, una misteriosa anomalia altera il carattere di questi ultimi, rendendoli malvagi. Le somme divinità che governano il mondo, i Sanbutsushin, incaricano un monaco, Genjyo Sanzo Hoshi, di indagare su questa anomalia, intraprendendo un viaggio verso Ovest, e gli affiancano tre insoliti compagni, Son Goku, Cho Hakkai e Sha Gojyo. Questo è tutto quello che è necessario sapere per godere appieno la lettura dell’opera di Kazuya Minekura. “Saiyuki” è il titolo originale di un romanzo cinese, che significa letteralmente “Viaggio in Occidente” (con questo titolo è stato tradotto in italiano, in pochissime versioni), e che narra la storia di un monaco buddista il quale intraprende un viaggio verso l’Occidente alla ricerca di alcuni testi sacri. In questo viaggio è affiancato da tre compagni, lo scimmiotto generato dalla terra Son Wukong, il maiale Zhu Bajiè e il demone fluviale (kappa) Sha Wujing. Le analogie con la storia della Minekura sono quindi moltissime, tanto che il manga può essere a tutti gli effetti considerato una versione moderna del romanzo. Ma non è solo l’identità dei personaggi a costituire questa similitudine. Come dicevo, il tema del viaggio è fondamentale, ma non solo nel senso fisico. Il viaggio verso Ovest rappresenta una metafora di molte cose. Simbolicamente, può essere visto come il percorso necessario a raggiungere una meta, qualunque essa sia, e come questo percorso sia intercalato da difficoltà importanti da superare se si vuole andare avanti. Ma parallelamente al loro spostarsi in senso fisico, i personaggi percorreranno un loro viaggio interiore, personale e come gruppo, alla ricerca del loro passato e dei ricordi, del loro dolore e delle loro motivazioni, e della speranza per il futuro. Grazie al tratto pulito e stilizzato dell’autrice, vengono messe a nudo, una ad una, le psicologie dei protagonisti, i loro rapporti uno con l’altro, e con gli eventi che hanno segnato le loro vite fino al momento in cui il destino li ha messi insieme. Si stabilisce inoltre una bella dicotomia tra i quattro protagonisti e il gruppo dei loro avversari, in modo che ciascuno abbia un antagonista personale con cui confrontarsi, rispettandolo profondamente e in qualche caso anche aiutandolo.

La storia vede momenti di grande intensità e drammaticità, come ad esempio i ricordi del passato dei quattro protagonisti, il rapporto di Genjyo Sanzo con il suo maestro Komyo, la violenza della madre di Gojyo sul figlio, la vendetta di Hakkai, e la prigionia di Goku, ma c’è anche spazio per l’ironia e la spensieratezza. Meravigliosi in questo senso sono i siparietti tra le varie scene, con Goku e Gojyo che litigano e si insultano, dandosi reciprocamente della stupida scimmia e del pervertito di un kappa, con Sanzo che minaccia di ucciderli se non la smettono, e Hakkai che assiste serafico alla scena, cercando di riportare la pace.

Una storia quindi che di sovrannaturale ha solo l’aspetto, a dispetto della trama (peraltro davvero interessante e complessa), e che invece si dimostra profondamente umana nel significato, agli occhi di chi sa come leggere una storia a fumetti.

In memoria 79 - Lucifero

“Vexilla regis prodeunt Inferni
verso di noi: però dinanzi mira,”
disse il maestro mio, “se tu il discerni.”
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par da lungi un molin che il vento gira;
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio; che non gl’era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte era coperte,
e trasparean come festuca in vetro.
Altre sono a giacer, altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante,
altra, com’arco, il volto a’ piè inverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
dinanzi mi si tolse, e fe’ restarmi,
“Ecco Dite,” dicendo, “ed ecco il loco,
ove convien che di fortezza t’armi!”
com’io divenni allor gelato e fioco,
non dimandar, lettor, ch’io non lo scrivo,
però ch’ogni parlar sarebbe poco.
Io non morii, e non rimasi vivo;
pensa oramai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ‘mperador del doloroso regno
da mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto,
ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel, com’egli ora è brutto,
e contra ‘l suo Fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogni lutto.
Oh, quanto parve a me gran maraviglia,
quand’io vidi tre facce alla sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altre eran due, che s’aggiungieno a questa
sovresso il mezzo di ciascuna spalla,
e sé giungieno al loco della cresta;
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a veder era tal quali
vengon di là onde il Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava il pianto e sanguinosa bava.
Da ogni bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso il graffiar, che talvolta la schiena
rimanea della pelle tutta brulla.
“Quell’anima lassù, c’ha maggior pena,”
disse il maestro, “è Giuda Scariotto,
che il capo ha dentro e fuor le gambe mena.
Degli altri duo c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto;
vedi come si stroce e non fa motto!
E l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risorge, e oramai
È da partir, che tutto avem veduto.”

Inferno, canto XXXIV versi 1-69

venerdì 28 novembre 2008

Il fascino del male - Scarface

Anche questa volta, come con Clayface, non uno solo ma due sono i protagonisti di queste storie, sebbene in questo caso il filo che li unisce sia più che una semplice omonimia e il potere dell’argilla. Scarface infatti non è altri che il pupazzo del Ventriloquo, al secolo Arnold Wesker. Facciamo un passo indietro.

Anche se non ho una cultura abbastanza vasta per supportare l’argomento con esempi validi, per quanto ne so le bambole sono sempre state un elemento tipico del mondo dell’horror. È curioso come oggetti creati per rallegrare, far giocare e divertire i bambini, siano stati spesso trasformati in manifestazioni malvagie. Bambole assassine, che sfuggono al controllo dei loro padroni per seguire una volontà propria, si associano nella mia mente ai classici racconti e film dell’orrore. E in effetti le bambole hanno un loro fascino ambiguo, anche se spogliate di qualunque elemento sovrannaturale. Il concetto della bambola in fondo è quello che qualcuno possa controllare l’esistenza di un altro essere antropomorfo. Alla propria bambola si può far dire e fare tutto quello che si vuole. I bambini le rendono personaggi delle loro storie e dei loro giochi, utilizzandole spesso come alter ego per sentirsi protagonisti di avventure che possono vivere solo nella loro immaginazione. Ricordo una frase di un episodio di una serie animata in cui si dice: “Se esistesse un dio, noi non saremmo forse le sue bambole?”. Potremmo dire che tutti noi, da bambini, non abbiamo fatto altro che giocare a fare dio con le nostre bambole. Ma le bambole erano sempre d’accordo?

Nel 1988, Alan Grant e John Wagner ricevono una chiamata da Danny O’Neil, il comandante in capo della DC Comics di quegli anni, che gli affida una storia di Batman. Nei due autori scatta allora quello che potremmo definire il problema del nemico, con il quale devono confrontarsi tutti quelli che si accingono a scrivere e disegnare una storia del cavaliere oscuro. Chi mettergli contro? Come dice lo stesso Grant, nessun altro personaggio dei fumetti ha nemici tanto ‘ingombranti’ come Batman (di molti ho parlato nei precedenti post). Da qui due problemi: ricorrere ad uno dei nemici classici, correndo il rischio di non essere all’altezza con i maestri che già ne avevano scritto le storie? O crearne uno nuovo? E in questo caso, come renderlo originale ma nello stesso tempo in sintonia con il mondo di Batman? Venne scelta questa seconda strada, e Grant e Wagner recuperano una vecchia idea dei tempi di “Judge Dreed”, Scarface appunto. Arnold Wesker è un perdente. Un ometto insignificante, senza nessuna qualità fisica e intellettuale, condannato all’ergastolo per aver ucciso un uomo in una rissa da bar, senza neanche aver avuto l’intensione di ucciderlo. Purtroppo (o per fortuna, dipende) per lui, finisce a Blackgate, in cella con un certo Donnegan, anche lui ergastolano. Qui la storia del Ventriloquo si tinge di sovrannaturale. Si dice che la forca di Blackgate sia stata impregnata dell’odio e del sangue di tutti i suoi condannati, fino a quando non fu distrutta da un fulmine. E indovinate da quale legno Donnegan ricava la marionetta da ventriloquo? Non è mai stato spiegato se veramente quel legno maledetto sia dotato di poteri malvagi, o se sia stato solo un caso, ma sta di fatto che i suoi possessori sviluppavano una sinistra sudditanza nei confronti della marionetta, che dopo un po’ sembrava parlare e agire di volontà propria. Scarface arriva ad ossessionare a tal punto la mente di Wesker da costringerlo a uccidere il suo proprietario per entrarne in possesso, anche se nessuno può dire se sia il Ventriloquo a possedere la bambola o viceversa. Di fatto però, un ometto insignificante e una bambola riescono ad avere un tale potere persuasivo e una tale assenza di scrupoli da arrivare a competere per il posto di signori del crimine di Gotham city, che come città non è certo facilmente impressionabile.

L’ipotesi di una malvagità sovrannaturale, o comunque della capacità, da parte della bambola di Scarface, di far emergere aspetti deviati della personalità di alcuni uomini, sembra essere confermata dalle attuali storie di Batman, in cui, morto Arnold Wesker, Scarface si impossessa di un nuovo padrone, la bellissima Peyton Riley, da cui si fa prestare la voce e attraverso la quale inizia a ricostruire il suo impero criminale.

Non ho parlato di Batman. Ma in effetti, in questo volume, il nostro eroe trova poco spazio. Al di là delle sue consuete doti di detective, e delle atmosfere tenebrose nelle quali si trova ad operare, in queste storie l’uomo pipistrello ricopre un ruolo che potremmo definire secondario, per lasciare la scena a Scarface e alla sua perversa ma allo stesso tempo pragmatica malvagità.

martedì 25 novembre 2008

Il castello nella foresta

Ero in quella che ormai mi piace definire la ‘mia’ libreria, e avevo già in mano due libri che in una precedente visita avevo selezionato come prossimi acquisti. Anche se l’intenzione era quella di avviarmi verso la graziosa signorina sorridente che stava alla cassa, non potevo resistere al desiderio di dare uno sguardo più approfondito agli scaffali e ai ripiani, ben sapendo che questo equivale a una tortura che ogni volta mi infliggo quando vedo cose che vorrei ma non posso comprare. Così, aggirandomi per quella stanza, ho visto questo libro. Ad attirarmi è stato il nome dell’autore, quel Norman Mailer che una volta ho citato come grande romanziere americano. Mi ricordavo che Mailer era morto meno di un anno prima, quindi questo doveva essere il suo ultimo romanzo in tutti i sensi. Sono rimasto pochi minuti soprappensiero, per poi decidere che quella settimana potevo sacrificare parte della spesa dei fumetti per prendere tre libri invece che i due che ero venuto a comprare.

“Il castello nella foresta” è un libro strano. Potrebbe essere benissimo un romanzo storico, con una particolare attenzione intimista ai personaggi protagonisti, ma con aspetti che si spingono ai limiti del sovrannaturale. È curioso che l’ultima fonte di ispirazione del grande romanziere americano sia stato colui che per unanime opinione storica e sociale è considerato l’icona del male del Novecento. Protagonista del romanzo è infatti Adolf Hitler, analizzato però non come l’uomo che la storia ci ha tramandato. Il romanzo ripercorre le vicende dei suoi genitori, dei suoi fratelli e della sua infanzia, con particolare attenzione agli aspetti più intimi e personali di questi personaggi e dei loro rapporti reciproci. La storia è narrata in prima persona da quello che all’apparenza è un ufficiale delle SS al servizio di Himler, ma che subito si scopre essere un diavolo emissario di Lucifero. E il diavolo ci racconta come, in quella notte del luglio 1888, lui stesso sia stato non solo testimone, ma addirittura artefice, del concepimento, in una locanda di Braunau, di Adolf Hitler. Un concepimento che, al di là del terzo partecipante, tutto è fuorché naturale. L’uomo è Alois Hitler, alto ufficiale della dogana del regno di Franz Joseph, lei è Klara Poelzl, sua terza moglie nonché probabilmente sua stessa figlia. Da quel momento, tutte le vicissitudini della famiglia Hitler vengono narrate dal diavolo con incredibile dovizia di particolari, da quelli più sentimentali a quelli più torridi e scabrosi.

Indubbiamente una prova di coraggio quella sostenuta da Norman Mailer nello scrivere questo romanzo, che non ci risparmia aspetti dissacranti della vita familiare e sociale dei suoi personaggi. Molto interessante risulta anche la dicotomia tra le forze del Male e del Bene, analizzate dal punto di vista del diavolo, con la descrizione sistematica e puntigliosa delle sue arti malefiche atte a corrompere e manipolare l’animo umano, paragonate a quelle di Dio e dei suoi angeli i cui sforzi mirano a proteggerlo. Una lettura quindi interessante, avvincente e spesso velata di una grottesca ironia, e se è vero che una buona misura del valore di un romanzo di ambientazione storica è il numero delle fonti consultate, basta gettare un occhio alla lunga bibliografia per capire che “Il castello nella foresta” è molto di più che una semplice storia dal sapore sovrannaturale.

A quel tempo, nel 1900, in Adolf Hitler non era ancora scattata la brama di sterminare gli esseri umani nelle camere a gas. Perciò se parlo di un anno come il 1945 è perché non voglio stabilire un nesso diretto con i mesi successivi alla morte di Edmund. In quegli anni, guidato in tutto e per tutto dal Maestro, mi adoperavo solo a intensificare in Hitler la precoce sensazione che sarebbe diventato un agente importante degli dei della morte. Questo lo autorizzava a credere che al sua fine sarebbe stata diversa da tutte le altre. Naturalmente non mi era dato prevedere le proporzioni future. Avrei fatto altrettanto per Luigi Lucheni se da piccolo fosse stato mio cliente.

In memoria 78 - Contro Genova

Ahi, Genovesi, uomini diversi
d’ogni costume, e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi dal mondo spersi?
Chè col peggior spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.

Inferno, canto XXXIII versi 151-157

mercoledì 19 novembre 2008

"...che anche il dolore servirà."

Mi è capitato per caso di vedere una parte di un film che avevo già visto al cinema qualche tempo fa. Ero a casa di un’amica, e lei stava guardando questo film, così mi sono fermato un po’, e nella sequenza che ho rivisto c’era questa canzone come colonna sonora. Mi ha fatto pensare. O meglio, ripensare. A una certa persona. Una persona che ha lasciato un segno dentro me, anche se la sua apparizione è stata breve, dal punto di vista sentimentale, e quello che mi è rimasto è proprio la malinconia. Malinconia per gesti, parole ed emozioni che avevo solo immaginato, che non si sono mai realizzati. Io sono di quelli che pensano che è sempre meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati. La malinconia è proprio quello che rimane quando un sogno si sgretola con la luce del giorno. La maggior parte delle volte bastano gli amici, il lavoro, gli svaghi, una corsa in bici, per passare oltre. In altri momenti, però, i pensieri ritornano. E il fatto che l’anima sappia che anche il dolore servirà, come dice la canzone, non rende il tutto meno doloroso.
Malinconia – Luca Carboni

La malinconia ha le onde come il mare,
ti fa andare e poi tornare,
ti culla dolcemente.
La malinconia si balla come un lento,
la puoi stringere in silenzio,
e sentire tutto dentro.
E sentirsi vicini e anche lontani,
e viaggiare stando fermi,
e vivere altre vite.
E sentirsi in volo dentro agli aeroplani,
sulle navi illuminate,
sui treni che vedi passare.
Alla luce calda e rossa di un tramonto,
di un giorno ferito che non vuol morire mai.

Sembra quasi la felicità,
sembra quasi l’anima che va,
il sogno che si mischia alla realtà.
Puoi scambiarla per tristezza ma
è solo l’anima che sa
che anche il dolore servirà.

E si ferma un attimo a consolare il pianto
del mondo ferito che non vuol morire mai.

E perdersi tra le dune del deserto,
tra le onde in mare aperto,
anche dentro a questa città.
E sentire che tutto si può perdonare,
che tutto è sempre uguale,
cioè che tutto può cambiare.
E stare in silenzio ad ascoltare,
e sentire che può esser dolce
un giorno anche morire.
Nella luce calda e rossa di un tramonto,
di un giorno ferito che non vuol morire mai.

Sembra quasi la felicità,
sembra quasi l’anima che va,
il sogno che si mischia alla realtà.
Puoi scambiarla per tristezza ma
è solo l’anima che sa
che anche il dolore passerà.

E si ferma un attimo a consolare il pianto
di un amore ferito che non vuol morire mai.

sabato 15 novembre 2008

Il fascino del male - Clayface

Non uno solo, ma ben quattro sono stavolta i protagonisti di questo volume, perché quattro sono i personaggi che nel corso delle storie hanno assunto l’identità e le caratteristiche di Clayface. Il primo, Basil Karlo, in realtà ne prese il nome solo perché indossava una maschera d’argilla per coprire i suoi delitti, ma i veri Clayface sono stati i suoi successori, Matthew Hagen, Preston Payne e Sondra Fuller. In un modo o nell’altro, e per i più svariati motivi, questi tre sono venuti a contatto con una misteriosa sostanza vivente in grado di fondersi al corpo umano e conferirgli le caratteristiche dell’argilla. I richiami a uno dei più classici temi delle storie dell’orrore sono palesi, dato che la plasticità e la deformità che ne consegue hanno sempre fatto dell’argilla e del fango una materia adatta allo scopo di impaurire. Potendo assumere qualunque forma, era facile che assumesse anche aspetti terrorizzanti (i mostri di fango erano un classico del cinema horror di vecchia data).

La storia più interessante di tutto il volume è quella intitolata “La banda del fango”, scritta da Alan Grant, autore britannico e da sempre scrittore di Batman. È interessante perché in questa storia compaiono tutti e quattro i Clayface, sebbene Hagen, il secondo, sia presente solo in forma di statuetta d’argilla, usata a mo’ di feticcio da Basil Karlo. È proprio quest’ultimo a riunire tutti coloro che portano il nome di Clayface in una banda criminale, con lo scopo di uccidere Batman, da sempre il loro più acerrimo nemico. Karlo ha però un secondo fine, quello di impadronirsi dei poteri degli altri Clayface, essendo lui un comune essere umano. Tralasciando il classico scontro tra i criminali e il cavaliere oscuro, risultano molto belle le caratterizzazioni di Preston Payne e Sondra Fuller, entrambi angosciati dal loro aspetto repellente e dai loro poteri che li rendono degli emarginati. È piacevole che anche in una storia caratterizzata dall’azione e dall’orrore, alla fine possa trovare posto un momento di tenerezza, con i due abbracciati a guardare il tramonto, facendosi ognuno sostegno delle angosce dell’altro.

Ma torniamo a Batman. In appendice al volume, c’è un’altra storia sempre di Grant, in cui vengono ripercorse le origini di Clayface II, Matt Hagen, che in una immersione subacquea trova una pozza contenente uno strano materiale che ribolle e immergendosi in essa scopre di poter trasformare il suo corpo in argilla, anche se per un tempo limitato. Questa sostanza non gli conferisce però solo le straordinarie capacità di mutaforma, ma sembra influenzare anche la sua mente, rendendola più propensa a commettere crimini. L’avidità era sempre stata una caratteristica di Hagen, ma l’argilla l’ha esaltata, insieme ad altri lati oscuri del suo carattere, fino a fargli uccidere la sua fidanzata che non accettava più quello che lui era diventato. Nelle sue scorribande all’insegna del furto, Clayface non poteva non scontrarsi con Batman, un Batman proprio all’inizio della sua carriera di eroe mascherato, ancora incerto sul suo futuro e su cosa dovesse spingerlo. Un Batman che troppo facilmente poteva cadere vittima della paura, di quella stessa paura che gli avevano insegnato a usare come arma. Non dimentichiamoci che Batman, per quanto forte e determinato, è comunque un essere umano, e trovarsi di fronte ad un mostro d’argilla dalla forza sovrumana, e restare impotente a guardarlo uccidere due uomini, è un’esperienza che non poteva non scuoterlo. Bruce Wayne si trova davanti a un bivio: sconfiggere la sua paura, o smettere di essere Batman. Ma la determinazione, l’intelligenza e la forza di volontà permettono di superare qualunque barriera. Adesso Batman sa che non tornerà più indietro.

In memoria 77 - Frate Alberigo

Noi passamm’oltre, là ‘ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e il duol, che trova in su gli occhi rintoppo,
si volve in entro e fa crescer l’ambascia;
chè le lagrime prime fanno groppo,
e sì, come visiere di cristallo,
riempion sotto il ciglio tutto il coppo.
[...]
E un de’ tristi della fredda crosta
gridò a noi: “O anime crudeli
tanto, che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi il dolor che il cor m’impregna,
un poco, pria che il pianto si raggeli.”
Per ch’io a lui: “Se vuoi ch’io ti sovvenga,
dimmi chi se’; e s’io non ti disbrigo,
al fondo della ghiaccia ir mi convegna!”
Rispuose adunque: “Io son frate Alberigo,
io son quel delle frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo.”
“Oh,” diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”
Ed egli a me: “Come il mio corpo stea
nel mondo su, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Antropos mossa la dea.
E perché tu più volentier mi rade
le ‘nvetriate lagrime del volto,
sappi che tosto che l’anima trade,
come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che il tempo suo tutto sia volto:
ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
dell’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu il dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca d’Oria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso.”
“Io credo,” diss’io lui, “che tu t’inganni;
che Branca d’Oria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni.”
“Nel fosso su,” diss’ei, “di Malebranche,
la dove bolle la tenace pece,
non era giunto ancor Michel Zanche,
che questi lasciò un diavol in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano,
che il tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oramai in qua la mano;
aprimi gli occhi!”; ed io non gliel’apersi:
e cortesia fu lui esser villano.

Inferno, canto XXXIII versi 91-99 e 109-150

domenica 9 novembre 2008

Premio Dardos 2008

Ringrazio di cuore l'amica (ormai credo che posso definirti così anche se non ci siamo mai nè visti nè parlati di persona) Fra, che mi ha nominato sul suo blog insieme ad altri come vincitore di questo premio. Un premio che mi sembra bello sottolineare nei suoi intenti riprendendo le stesse parole di Fra (che forse sono quelle di chi originariamente ha ideato il premio):

"Questo è un premio che riconosce i valori che ogni blogger dimostra ogni giorno nel suo impegno a trasmettere i valori culturali, etici, letterari e personali. In breve mostra la sua creatività in ogni cosa che fa".

Queste due frasi esprimono molto bene il senso del premio, e mi rendono molto orgoglioso di averlo ricevuto. A volte ho peccato di eccessiva modestia, non me ne vogliate se stavolta pecco di un pizzico di presunzione. Forse è vero che anche io, nel mio piccolo, contribuisco a diffondere messaggi e valori che ritrovo in tutto quello che mi circonda. E siccome quello che mi circonda è in larga parte costituito da libri e fumetti, sono molto contento di poter condividere le emozioni che questi mi trasmettono con tutti quelli che vengono a leggere queste pagine. E sono contento che qualcuno lo noti e gli faccia piacere. Ringrazio ancora Fra, che è una delle mie più assidue lettrici e commentatrici (con mio grande piacere), e passo a nominare meritevoli di questo premio:

Veronica con il suo Blog "Con la testa tra le nuvole" e Valentina con il suo blog "Eyes Wide Ciack". Per questa volta mi fermo qui, non perchè magari non ce ne siano altri meritevoli, ma perchè voglio dare un piccolo merito a quelle persone che più di tutte mi seguono in quello che scrivo.

mercoledì 5 novembre 2008

I have a dream...

“Non diventerà presidente comunque: non la chiamano Casa Bianca solo perché è bianca”.

Questa frase, tratta da un telefilm americano, oggi, per la prima volta nella storia, smette di essere vera. Oggi, la Casa Bianca si chiama così solo per il colore dell’intonaco. Oggi, un nero di origine africana rende quel sogno del suo predecessore ideologico un tantino più concreto. Quando Barak Obama, qualche mese fa, vinse la sfida con Hillary Clinton per diventare il candidato democratico alla quarantaquattresima presidenza degli Stati Uniti, io ero molto scettico. Ero convinto, per fortuna a torto, che l’America poteva forse essere pronta per avere un presidente donna, ma certamente non era pronta per avere un presidente nero. Come ho detto, mi sbagliavo. Non voglio stare qui a fare una ipocrita idealizzazione di quello che questa elezione rappresenta, Obama è comunque un uomo politico, dovrà comunque confrontarsi con problemi concreti e molto seri, e il fatto che la sua elezione rappresenti una svolta non lo metterà al riparo da critiche e lamentele, né tanto meno lo proteggerà dal commettere errori. Dovrà dimostrare, come chiunque altro, di avere le capacità che necessitano a chi deve guidare uno dei più grandi stati del mondo. Come chiunque altro, si troverà di fronte a questioni molto complesse sia in ambito nazionale che internazionale. Come chiunque altro, dovrà dare risposte a tutti quelli che, da domani e per i prossimi quattro anni, gli faranno le domande. Ma è proprio questa la frase chiave di tutto il discorso: come chiunque altro. In un paese che solo pochi decenni fa non permetteva ai bambini neri di frequentare le scuole dei bianchi, che non ammetteva che i militari neri condividessero gli alloggi e la mensa con i loro commilitoni bianchi, oggi un nero siede alla scrivania dello studio ovale. Tutti si aspettano molto da Barak Obama. Superare la crisi economica che in questo periodo sta investendo gli USA non sarà un gioco da ragazzi per la sua amministrazione. Ma nel mio incallito idealismo, voglio fare due richieste al nuovo presidente degli Stati Uniti, una che riguarda la sua politica interna e l’altra quella estera, facendo per un attimo finta che anche lui sia tra quelli che ogni tanto leggono queste pagine. Vorrei che eliminasse dal suo paese la condanna a morte come strumento di punizione in quegli stati in cui ancora è in vigore. E vorrei che ponesse fine a qualsiasi iniziativa di guerra da parte delle forze armate americane e che si impegnasse attivamente perché anche tutti gli altri capi di stato dei paesi coinvolti in quelle azioni seguano il suo esempio. Mi rendo conto che è solo un sogno. Non molto tempo fa era un sogno che un nero diventasse presidente degli Stati Uniti d’America. Realizzare quest’ultimo forse può voler dire che è possibile realizzare anche gli altri. “C’è sempre speranza”.