mercoledì 30 gennaio 2008

In memoria 1 - Virgilio

“Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?”
[...]
“Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui ed io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco eterno,
ove udirai le disperate strida,
vedrai gli antichi spiriti violenti,
che la seconda morte ciascun grida.
E poi vedrai color che sono contenti
nel fuoco, perché speran di venire,
quando che sia, alle beate genti:
alle qua’ poi se tu vorrai salire,
un’anima fia a ciò di me più degna:
con lei ti lascerò nel mio partire”.

Inferno, canto I versi 79-80 e 112-123

In memoria - L'inizio

L’intreccio dei sentieri del caso è strano. Oggi è il 30 gennaio, ed è il quarto anniversario della morte di mio nonno materno. Per tutti quelli che lo conoscevano era ‘il professore’, perché tutta la sua vita si poteva sintetizzare nella passione dedicata all’insegnamento. Insegnava italiano e latino nel liceo classico di Cefalù, e quella che più di altre gli era cara era l’opera di Dante Alighieri. Purtroppo non ho avuto la fortuna di ammirarlo professionalmente perché, sebbene avessi ventun’anni quando è morto, già da tempo era acciaccato dalla malattia che, con suo profondo dolore, aveva intaccato la sua facoltà prediletta: la parola. Eppure, sia nel ricordo di tutti i suoi alunni che ho avuto modo di conoscere, sia in quei momenti in cui mi comunicava poche briciole del suo sapere, riesco ancora adesso a percepire l’intensità dei suoi studi e della sua cultura. Due immagini mi rimarranno di lui impresse per sempre nella memoria: una è vederlo seduto nella panca a sinistra della terrazza della Plaia, nel posto in fondo, intento a fare le parole crociate. L’altra è il leggio nello studio della sua casa, dove sta aperta, ancora adesso, un’edizione antica della Divina commedia, con delle tavole illustrate che da piccolo mi affascinavano più del contenuto.

E proprio stamattina, cercando un libro, mi sono imbattuto, a casa mia, in un’altra edizione, molto meno pregiata, della stessa opera, che mi aveva dato per i miei studi al liceo. Da questo fortuito ritrovamento, proprio in questo giorno, nasce l’idea di questa serie di citazioni. Canto dopo canto, cercherò di isolare dei gruppi di terzine che mi piace rileggere ogni tanto, per condividerli con chi mi vorrà seguire in questo viaggio.

Voglio precisare che in questo non c’è nessuna mia velleità di critica letteraria, anzi con molta umiltà vorrei avvicinarmi al messaggio di un altro cultore di Dante. Ho seguito spesso e letture che della Divina commedia ha fatto in televisione Roberto Benigni, e credo che il messaggio più significativo che ha saputo trasmettere è che non bisogna essere letterati di alto livello per apprezzare l’emozione che si prova a sentire recitare quei versi. In fondo, il vero intento di Dante, quando scelse il volgare come lingua della sua opera, era proprio quello di parlare al popolo, a tutti, giovani e meno giovani, colti e meno colti.
Non saranno certo tutte di seguito, le citazioni che farò da quest’opera, per questo vi dedicherò un’etichetta particolare, “In memoria”, così sarà possibile, per chi vorrà farlo, isolare solo i post con le citazioni. Di queste, non verrà fatta nessuna parafrasi o spiegazione, né tanto meno commenti o critiche: non mi sento all’altezza e non mi va di copiare da altri. Ognuno è libero di approfondire come vuole quello che leggerà.

venerdì 25 gennaio 2008

Miyazaki & Son

Lo spunto per questo post mi è arrivato da un regalo ricevuto quest’anno per natale: l’edizione in doppio disco de “I racconti di Terramare”, l’ultimo film realizzato dallo studio Ghibli. Per chi non lo sapesse, il Ghibli è uno studio di produzione di opere cinematografiche animate, fondato nel 1985 da Hayao Miyazaki e Isao Takahata. Non voglio stare qui a fare un elenco delle opere realizzate, con date, autori, doppiatori, musicisti, e tanta altra paccottiglia che si può trovare facilmente su altre pagine web (per altro utilissime per chi vuole documentarsi). Vorrei invece isolare alcuni contenuti di opere significative realizzate da Miyazaki, che meritano forse più attenzione di quella che viene loro dedicata, quantomeno nel nostro paese. In particolare, mi soffermerò su “Princess Mononoke”, “La città incantata”, “Il castello errante di Howl”, e naturalmente “I racconti di Terramare”, ma non si può prescindere dai riferimenti ad altre opere precedenti, alcune realizzate prima della fondazione dello studio, che hanno anticipato temi poi ripresi in questi lavori.

“Princess Mononoke” (Mononoke Hime in originale) è uno splendido racconto che ha come tema centrale il rapporto conflittuale tra uomo e natura. Alcuni personaggi rappresentano il progresso e la scienza che non tengono conto della natura, della sua spiritualità e del suo valore, e non si curano dei danni che provocano alla vita e all’ecosistema tutto. Altri personaggi, e in particolare San, rappresentano invece la totale fusione con le forse naturali, in una simbiosi che va oltre la semplice convivenza. In mezzo c’è Ashitaka, principe dal cuore nobile, vittima di una maledizione e costretto ad un viaggio che lo porterà a contatto con le due fazioni, trovando pregi e difetti in entrambe.
Come dicevo, il tema centrale è la profonda essenza della natura, e il rapporto conflittuale che questa ha con gli esseri umani che, invece di riconoscersi parte di essa, la considerano un semplice sfondo alle loro azioni. Meravigliosi in questo senso sono i Kodama, piccoli spiriti della natura che guidano il protagonista nel suo primo viaggio dentro la foresta dove vive la loro divinità, il dio cervo, emanazione di tutte le forze naturali.
Il tema della natura era già stato protagonista nel primo lungometraggio prodotto dallo studio Ghibli, “Laputa: il castello nel cielo” (Tenkū no Shiro Laputa), in cui emergeva anche un altro tema molto caro a Miyazaki: l’innocenza dei bambini, spesso unico mezzo per scrutare il mondo con occhi imparziali, senza i preconcetti e i sentimenti negativi del mondo adulto.

I bambini infatti sono spesso protagonisti delle opere di Miyazaki, e proprio una bambina, Chihiro, è la protagonista de “La città incantata” (Sen to Chihiro no kamikakushi), che vale allo studio Ghibli il riconoscimento mondiale nel campo dell’animazione, e a Miyazaki l’Orso d’oro al festival del cinema di Berlino e l’Oscar per il miglior film d’animazione, entrambi nel 2001. Il film è tutto basato sulle antitesi, sugli opposti: al mondo reale si contrappone la città incantata, un mondo magico e popolato da esseri misteriosi, buoni e meno buoni, in cui la bambina si trova catapultata per caso. Ma una contrapposizione opposta è presente proprio in lei, che da bambina viziata e capricciosa nel mondo reale, è costretta a trasformarsi in ubbidiente lavoratrice alla mercè della strega Yubaba. In questo modo, dovrà confrontarsi con tematiche come l’amicizia, l’amore, l’affetto familiare e la responsabilità del lavoro, tutte cose che la guideranno nel suo percorso di crescita, insieme all’aiuto di alcuni esseri straordinari, come Aku, Kamagi l’uomo delle caldaie, la strega Zeniba e il Senza volto.

Ed ecco affacciarsi il terzo tema caro al regista, vale a dire il mondo della magia e del fantastico, di cui forse non c’è manifestazione migliore de “Il castello errante di Howl” (Howl no Ugoku Shiro), tratto dall’omonimo romanzo di Diana Wynne Jones, in cui la giovane Sophie, trasformata in vecchia da una strega, incontra il leggendario mago Howl e va a vivere nel suo castello, convivendo con tutta una serie di personaggi fantastici, tra cui il principale è il fuoco Calcifer, a cui è legata l’essenza del castello e la vita stessa di Howl. Un antico patto infatti lega indissolubilmente i due, e solo l’amore che Sophie scoprirà dentro di sé potrà restituire ad entrambi due valori importantissimi: la libertà a Calcifer, l’umanità (rappresentata dal cuore) ad Howl.
Ma in questo film, un altro tema affaccia prepotente, non come semplice sfondo, ma come co-protagonista dei personaggi: la guerra. Anche questo è un tema che Miyazaki ha sempre trattato nelle sue opere precedenti, una per tutte la serie animata “Conan, il ragazzo del futuro” (Mirai Shōnen Konan). Una guerra insensata e inutile, che fa emergere il peggio da ognuno, compreso Howl, ma che però la volontà degli uomini può essere capace di fermare, come dimostra alla fine del film la maga Saliman.

E arriviamo all’ultima creatura dello studio Ghibli. Stavolta, alla regia, al padre subentra il figlio, infatti la direzione è affidata a Goro Miyazaki, anche se l’impronta del ben più noto e collaudato genitore è chiara, soprattutto nel tratto dei disegni. Il tema trattato torna ad essere quello degli equilibri delle forze naturali, costantemente perturbati dalla scelleratezza della razza umana guidata solo dall’ambizione. Protagonista è Arren, ancora una volta un giovane particolarmente complesso nell’animo, come erano stati in precedenza Ashitaka e Howl, e anche stavolta c’è al fianco una giovane ragazza che nasconde un mistero, un po’ come San in Mononoke. Però in questo film la presenza degli adulti è più importante che negli altri, visto che questi personaggi non sono dei semplici comprimari come negli altri film, ma dei veri e propri protagonisti. Spiccano, tra gli altri, Sparviere e Aracne, e soprattutto quest’ultimo, il cattivo della situazione, risulta interessante in quanto incarna un desiderio atavico dell’uomo, cioè la sconfitta della morte e l’ambizione alla vita eterna, laddove invece Sparviere e la piccola Therru rappresentano il desiderio di abbracciare la vita in tutte le sue forme e onorarla anche nel suo compimento finale, la morte. Tra questi due opposti dovrà destreggiarsi Arren, facendo fronte alle sue paure e ad un’ansia interiore che arriva a manifestarsi tangibilmente in un altro se stesso.
Non manca infine l’elemento fantastico, rappresentato dalla magia degli uomini e dai draghi. Ma non è un elemento stucchevole, attaccaticcio, anzi si armonizza benissimo con le vicende interiori dei personaggi.

Nel complesso, si può dire che il figlio ha ereditato dal padre in quanto a capacità di emozionare e coinvolgere, e aspettiamo con ansia successive conferme a questa prima, incoraggiante esperienza.
I racconti di Terramare - Il trailer

martedì 22 gennaio 2008

Mali estremi

È l’una e un quarto del 22 gennaio 2008, e ho appena premuto il dito sul tasto rosso del mio televisore guardando lo schermo diventare nero. Per la mezz’ora precedente, su quello schermo sono scorse le immagini di “Le storie”, trasmissione quotidiana di Corrado Augias, a mio parere il più grande giornalista italiano (quantomeno il più grande tra i vivi), che oggi aveva come ospite Umberto Galimberti per presentare e commentare il suo nuovo libro, “L’ospite inquietante”. Non ho letto questo libro, ma lo farò al più presto.
Questa trasmissione si manifesta nella straordinaria abilità del suo conduttore di condensare in mezz’ora un argomento di cui altri, parecchio più innamorati della loro stessa voce, parlerebbero per ore, senza magari dire niente. Augias utilizza una parola, e tutto acquista significato. Non c’è fretta, non c’è bisogno di stringere e correre. Le parole hanno il loro tempo, così come le immagini e i suoni.
Il titolo della puntata era “La peggio gioventù”, perché Galimberti nel suo libro parla dell’attuale disagio giovanile. Ma la puntata si è aperta con un commento all’attuale situazione politica. Non ricordo tutto parola per parola, ma il contenuto era più o meno questo: “Il governo italiano è in crisi, e a scatenare questa crisi è il leader di un partito che alle scorse elezioni ha ottenuto l’1,2% dei voti pari a circa 500.000 in valore assoluto. È una crisi strana, perché non avviene a causa di uno dei cento problemi che affliggono il paese, come pensioni, emergenza rifiuti, ecc., ma a causa dell’orgoglio e degli interessi personali di un singolo che ne era parte fino a poco prima”. Questa introduzione, apparentemente fuori tema, è stata spiegata nella sua pertinenza perché si riallaccia a quella piaga del disagio dei giovani che sfocia nella disperazione e spesso nella delinquenza. Di questo sono stati mostrati dei filmati di repertorio, su episodi come il liceo Parini allagato per saltare un compito di greco, un ragazzo che si è impiccato perché offeso ed emarginato dai compagni, e altre immagini di violenza e degrado dell’essere giovani. Una spiegazione a questo, data dai due dialoganti (Augias e Galimberti), è che i giovani hanno da sempre come esempi i comportamenti degli adulti, e se questi si concretizzano nel pensare ai propri interessi personali che vengono anteposti a quelli della collettività, il risultato non può che essere questo. Si sono quindi toccati molti temi, dalla droga allo sport, dal lavoro alla politica, ma ne voglio sottolineare uno in particolare: il rapporto con la Chiesa. Dopo la diffusione delle notizie su quanto accaduto all’università La Sapienza di Roma, sono stato spesso preso dalla tentazione di scrivere delle mie riflessioni su queste pagine, e avevo rinunciato per una sorta di rifiuto interiore a parlare di argomenti che sono diventati fastidiosi alla mia mente. Però la tentazione era forte, e ho ceduto, grazie ai contenuti di questa trasmissione. Riporterò alcuni commenti, lasciando implicito il fatto che incarnano anche il mio pensiero, e non mi lancerò in analisi filosofico-morali di cui non sarei capace e di cui non ho proprio voglia.

Un primo commento di Augias si riferiva ad un articolo, uscito sul “Foglio” di Giuliano Ferrara, in cui l’autrice (la storica Emma Fattorini), in contrapposizione al direttore del giornale promotore della moratoria contro l’aborto, ha scritto di quello che lei chiama aborto dell’amore. Le opinioni di chi è contrario a questa pratica sono riassumibili sostanzialmente nel loro considerarlo un omicidio, in quanto anche l’embrione sarebbe vita. La Fattorini dice che dovremmo cominciare invece a parlare di amore, intanto insegnando ai giovani come fare l’amore senza dover poi ricorrere all’aborto. In secondo luogo si dovrebbe centrare l’attenzione sull’individuo donna, e non appellarsi a insulsi principi pseudo-naturalistici, perché, come diceva Goethe, “La natura dell’individuo se ne frega” (osservazione di Galimberti). Siamo noi con la nostra razionalità, che si concretizza nelle leggi, a dover riconoscere centralità all’individuo.

Altra osservazione molto interessante, e a questa collegata, riguarda il concetto di leader, cosa che si aggancia di nuovo al discorso degli esempi per i giovani. Vedere i papa-boys affollare piazza San Pietro (ancora parole di Galimberti) non indica che queste persone hanno delle convinzioni, ma tutto l’opposto. Sono convinti di avere delle idee di rigore morale e sociale, ma in realtà compensano il loro vuoto interiore attingendo alle idee di un altro, rendendosi praticamente succubi di queste. Quelli che sono considerati grandi leader della storia non hanno fatto altro che inculcare nella testa di persone, prive di un proprio bagaglio culturale, le loro idee, a volte di valore e condivisibili (penso a Gandhi), altre volte folli e deliranti (penso a Hitler). In ogni caso, quale che sia il messaggio che un leader diffonde, lo può fare perché un certo numero di persone, non avendo una struttura mentale propria abbastanza solida, utilizzano quella di un altro perché la ritengono, per qualunque motivo, affascinante e coinvolgente. Sarebbe molto più produttivo se ogni uomo sapesse essere il leader di se stesso, che non vuol dire vivere isolati e convinti di avere ragione mentre gli altri hanno sempre torto, ma contribuire ad un collettivo con la propria individualità, non parassitando quella di un altro.

E per concludere…

“Il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.

Su questa mia ultima riflessione vorrei che non nascessero equivoci. Per una scelta consapevole e maturata nel tempo, sono ateo, ma qualcosa delle vicende religiose la conosco e l’apprezzo. Secondo me, l’unico vero grande leader che la storia dell’uomo ricordi è stato proprio quello che con pacatezza si scagliava (so che sembra un controsenso) contro quelli che al suo tempo erano i leader, i capi, i re. Mi riferisco a quel Gesù di Nazareth che ha detto la frase qui sopra, e che non ha mai detto che devono amarsi un uomo e una donna, ma che ha detto semplicemente “amatevi”, che dell’uomo condivideva le paure e i sogni, le angosce e le speranze. E che è stato giustiziato perché parlava di eresie che non voleva ritrattare. Stranamente, è stato giustiziato quasi nello stesso modo in cui, il 17 febbraio 1600, lo sarebbe stato Giordano Bruno, crocifisso e arso vivo in Campo dei fiori a Roma, perché parlava di mondi infiniti. Ed era la stessa morte quella alla quale era stato condannato Galileo, per i suoi studi scientifici, che si salvò solo abiurando le sue idee.
È curioso che queste due condanne siano state emesse proprio da uomini che di quel primo, che aveva fatto la stessa fine, si dichiaravano emissari in terra. Ed è ancora più curioso (la parola che mi suona meglio è rivoltante) che nel 2008 colui che si dichiara l’emanazione sulla terra di quella volontà divina in cui crede affermi che quel processo a Galileo (e a tutti gli altri come lui) da parte della Chiesa è stato legittimo e giusto. Se qualcuno sparasse alla persona che amo, il mio più grande desiderio sarebbe veder scomparire dal mondo ogni arma da fuoco, non istituzionalizzare la fucilazione come strumento di giustizia. Mi sembra quindi evidente che il papa non deve amare poi tanto il suo dio e il messaggio che avrebbe trasmesso per bocca di quell’uomo, se considera giusta la fine che gli è stata fatta fare quasi duemila anni fa.

martedì 15 gennaio 2008

Il quinto esilio

I romanzi che hanno come protagonista non uno o due personaggi, ma un’intera famiglia, mi hanno sempre affascinato molto. Se devo trovare un motivo preciso per questo interesse, forse quello più logico sarebbe la mia innata curiosità per i comportamenti umani. Seguire le vicende di più personaggi, ognuno con caratteristiche diverse, che si trovano di fronte agli stessi eventi, mi diverte e mi intriga molto. Ma sento che c’è di più, che non è solo questo il motivo. Credo che la vera ragione stia nella mia famiglia. Le famiglie dei miei genitori erano entrambe molto numerose, ma mentre i componenti di quella di mio padre hanno sempre vissuto vite separate, per il mio ramo materno le cose sono andate diversamente. In un certo senso, anche sulla mia famiglia si potrebbe scrivere un romanzo, e se fossi nato una ventina d’anni prima, non è da escludere che l’avrei fatto io stesso. Per me, stare ad ascoltare i racconti del passato, in occasione delle grandi riunioni di famiglia, non è mai stato una seccatura, anzi era un piacere. Con la mia immaginazione, seguivo le vicende dei miei nonni e dei loro fratelli, attraverso periodi belli ed altri meno belli, e considero questo bagaglio di memorie come un vero tesoro. Credo sia per questo che mi piacciono le saghe familiari. “I vicerè”, “Il Gattopardo”, “Cent’anni di solitudine”, per citare solo i più classici, li ho letti tutti con grande passione, ma non per questo non mi hanno coinvolto anche romanzi più moderni.

“Il quinto esilio” è uno di questi. Non c’è bisogno di leggere la nota biografica nel risvolto di copertina per capire che Boris Biancheri, l’autore, ha viaggiato molto, e già il nome, mezzo russo e mezzo italiano, ci fa capire che il viaggio è un tema fondamentale della sua vita. E visto che un romanzo non è altro che un pezzo dell’anima di chi lo scrive, anche in questo libro si parla di viaggi. Tra i metafisici paesaggi del Baltico, distese grigie in cui si accendono improvvisi sprazzi di colore, si snoda la storia della famiglia Grabhau, una famiglia che porta come triste marchio distintivo quello dell’esilio. Per loro l’esilio non è una condanna, non è neanche una sofferenza, ma si potrebbe dire che è un mestiere, una vocazione. Perché da continui esili è scandita la melodia della storia di questa famiglia, dal capostipite, cavaliere cinquecentesco costretto ad abbandonare la patria natia per approdare sul Baltico a portare ‘la luce di Cristo’, fino alle nuove generazioni, che arriveranno addirittura nel Nuovo Mondo. E in ogni luogo un cui la famiglia si trova a vivere, con i nuovi componenti che rimpiazzano i vecchi, troviamo modi nuovi di adattarsi all’ambiente, di superare l’isolazionismo del migrante, di chi della sua patria può avere solo ricordi e storie, mai concretezze. Il cammino dell’ultimo erede dei Grabhau si snoda anche attraverso l’Italia, a Roma, per poi concludersi, dopo la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti.
Ma nel loro peregrinare, i Grabhau si portano appresso un palpito del cuore, una condizione esistenziale, un assetto morale che li porta a muoversi sul filo di un vertiginoso senso di vuoto, di un’estraneità quasi patologica verso il mondo che li circonda, salvo poi emergere con scatti di sensualità, passione e coraggio. E forse, il vero significato che Biancheri ci vuole comunicare con tutto il romanzo, non è altro che l’immane senso della storia, una riflessione sull’identità, del singolo come del nucleo, e sul valore del passato come garanzia di questa identità.
“Era certo, per esempio, che presto sarebbe venuta la rivoluzione e aveva deciso di emigrare. Non era un pensiero sorprendente: i von Grabhau erano infatti, se così si può dire, degli specialisti dell’esilio”.

mercoledì 9 gennaio 2008

Calliope

Stracci di Sogno. Era questo il titolo che volevo dare a questo post quando ho pensato di scriverlo. Stracci perché saranno dei frammenti, e non una trattazione sistematica, che non saprei neanche da dove cominciare (e probabilmente non finirebbe mai!). Sogno è scritto con le S maiuscola, perché è delle sue storie che parlerò, di alcune, almeno. Chi consce davvero i fumetti, sa già di cosa parlo. Per tutti gli altri, Sogno è il protagonista della saga di Sandman, scritta da Neil Gaiman e diventata un vero punto di riferimento del fumetto fantasy in tutto il mondo. Si potrebbero impiegare ore a parlare non di ogni singola storia, ma di ogni singola tavola di questa serie, e vi assicuro che non sarebbero ore sprecate. Neil Gaiman scrive camminando in bilico su quella linea di demarcazione che separa il sonno dalla veglia, che tutti noi attraversiamo almeno due volte al giorno. E da quella dimensione fa passare per pochi istanti, giusto il tempo di fissarli sulla carta, tutti i personaggi che compongono il fantastico spettacolo che è il mondo di Sandman.

Calliope è uno di questi. È la vera Calliope, se mai è esistita, la più giovane delle nove muse che dimorano sul monte Elicona, la musa della poesia, delle arti scritte, la musa di Omero. E un giovane scrittore, accecato dall’avidità e dalla voglia di essere un divo, la fa sua prigioniera, la riduce in schiavitù, la dilania per trarre dalle sue carni l’ispirazione che cerca o a volte solo semplice piacere carnale. Calliope chiede aiuto, al culmine della disperazione arriva a invocare l’aiuto di Oneiros, uno dei tanti nomi di Sogno degli Eterni, suo amante di un tempo e padre di Orfeo suo figlio, l’ultimo a cui vorrebbe chiedere qualcosa. E Sogno arriva in suo soccorso. Lascio a chi volesse andare a leggere la storia il piacere di scoprire quanto sottile e spietato sarà Sogno nel costringere il carnefice a liberare la sua vittima. Ma voglio soffermarmi un attimo sulla intensità che Neil Gaiman e Kelley Jones riescono a trasmettere in alcune scene.
La crudezza e la ferocia con la quale Calliope subisce violenza.
Il suo corpo nudo, esanime e scarnificato mentre invoca l’aiuto delle sue madri e di Oneiros.
La freddezza, il disgusto e l’odio nello sguardo di Sogno quando lancia la sua maledizione sullo scrittore.
Il dolore, il tormento e la pazzia che fanno scempio della mente di lui mentre le idee che tanto desiderava si scontrano frantumandosi in schegge taglienti.
La desolazione di quel vuoto che lasciano quando Sogno, liberata Calliope, decide di alleviargli quel tormento, lasciando la sua mente per sempre priva di qualunque idea, di qualunque prospettiva, di qualunque sogno. Un immenso spazio bianco, e nient’altro.
Ciascuna di queste immagini che ho descritto occupa lo spazio di una singola vignetta, eppure sono così cariche di significato, di patos e di emozioni che difficilmente le parole possono rendere quello che si prova a leggerle.


Su chi sono gli Eterni credo che parlerò un’altra volta, per adesso concludo dicendo che è alle stampe una riedizione dell’intera opera di Sandman, e non credo ci sia occasione migliore di questa per tutti quelli che avessero un vuoto in libreria che DEVE essere colmato.

lunedì 7 gennaio 2008

Gli scarafaggi non hanno re

Il primo e unico libro che ho regalato senza prima averlo letto è stato proprio questo. Ero a Milano, a fine anno del 2005, incartato come non mai per i regalini che ogni anno faccio, per natale, a certe mie amiche. L’ultima spiaggia, la mia ancora di salvezza, fu un posto in cui potrei trascorrere il resto della mia esistenza senza rimpiangerne un solo istante: la libreria Feltrinelli di piazza Duomo a Milano. Definirla enorme è riduttivo, dentro c’è perfino il bar e la sala lettura, cose che qui da noi ci sogniamo. Anche per questo, non sapevo da dove cominciare. L’occhio mi cadde su questo libro, uno dei pochi del suo scaffale ad essere messo con la copertina a vista. Lessi la quarta di copertina, mi incuriosì, pensai che potesse essere adatto per una persona e ne comprai due copie, una per me e una per lei. Ormai la scelta successiva era scontata: gli altri tre libri da regalare furono della stessa collana, e tutti che avevo già letto. Lo cominciai praticamente subito, nel terminal dell’aeroporto di Linate, quando la vacanza era ormai finita e stavo per tornare a casa. Non mi sono pentito di averlo comprato e letto, anche se forse non l’avrei regalato, non a una ragazza, per lo meno.

“Gli scarafaggi non hanno re” può meritare tutta una serie di aggettivi: comico, drammatico, grottesco, paradossale, fantascientifico. In effetti, racchiude aspetti di un po’ tutte queste tematiche. La storia è semplice: Ira Fishblatt è il classico single disordinato, trasandato e incurante dell’igiene, e questo rende il suo appartamento l’ecosistema ideale per una colonia di scarafaggi. Sono loro il punto di vista della storia, e uno in particolare, Numeri, il più intelligente della comunità. Sono tutti un po’ filosofi, hanno nomi strani, che vengono loro dalla prima parola letta alla nascita: Numeri è nato in una libreria, insieme a Deuteronomio, Bismark, Rosa Luxenburg e Goethe. È chiaro che quelli nati nell’armadietto dei detersivi si chiamano Ajax, Spic&Span e così via. Tutti vivono felici e contenti nella loro colonia, riconoscenti verso Ira per il cibo che generosamente gli lascia in giro per casa. Purtroppo, la festa è destinata a finire presto: la nuova fidanzata di Ira si trasferisce da lui, portandosi dietro il suo bagaglio di detersivi e manie di pulizia. Stanati, affamati e perseguitati, i poveri scarafaggi sembrano destinati all’estinzione, quando proprio Numeri elabora e propone un diabolico piano per cacciare l’odiata Ruth.

Leggendo questo libro, la sensazione che si ha è che tutto quello che ci circonda si dilati enormemente, mentre il lettore si rimpicciolisce fino a prendere le dimensioni dei protagonisti a sei zampe. L’elemento fantastico è chiaro, anche se non credo che la scienza abbia ancora escluso con certezza che forme primitive di interazioni neurali, simili a quelle che noi chiamiamo sentimenti, siano presenti anche nei cervelli animali. Tuttavia, la sensazione che si ha non è quella di leggere un romanzo di fantascienza, bensì una storia tragicomica in sui la lotta per la sopravvivenza assume tinte grottesche, in cui i sentimenti familiari risaltano prepotentemente, forse anche più di quanto farebbero se i protagonisti fossero dei semplici abitanti di un paesino di campagna. E un certo spazio lo trovano anche la guerriglia, gli amori, i sogni e la violenza di una comunità sull’orlo dell’estinzione.

Per concludere, mi piace citare un proverbio ripreso dall’autore, non so bene con quale intento, ma forse come spunto di critica per la nostra società e la nostra classe dirigente:

“Le locuste non hanno re, eppure sanno marciare in buon ordine”.

martedì 1 gennaio 2008

The Coven

Per alcuni è il libro sacro, per altri contiene solo leggende e storie inventate. In ogni caso è un documento storico di valore indiscutibile. La sua influenza nella formazione di tutti gli appartenenti alla nostra società è un elemento che non va mai preso alla leggera e non può essere trascurato. Ovviamente mi sto riferendo alla Bibbia, il testo sacro di Cristiani ed Ebrei. Non considerando per il momento il valore religioso di questo testo, volevo prenderlo in considerazione come documento storico. In particolare una storia è importante per quanto dirò di seguito. La storia del primo omicidio. Benché l’attendibilità di questa storia sia piuttosto dubbia, quello che è sicuramente interessante è l’interpretazione che se ne può fare, evidenziando la metafora della duplice natura umana. Caino e Abele non sono due uomini, ma un uomo solo, o meglio le due nature dello stesso uomo, di ogni uomo. L’una è quella aggressiva, violenta, selvaggia, invidiosa, l’altra è quella mite, generosa e accondiscendente. Due nature inconciliabili, destinate a scontrarsi fino a che una non prevalga inevitabilmente sull’altra. Tutti noi portiamo dentro queste due nature. L’equilibrio tra esse è quello che ci consente di vivere a contatto con i nostri simili.

The Coven (La Setta) ha come tema l’omicidio. Quel primo omicidio che fu commesso ancora prima che la legge ‘non uccidere’ fosse stata scritta. E che anche dopo essere stata scritta è stata continuamente violata e ignorata nel corso dei millenni.
Ma “La Setta” non è solo il titolo della miniserie scritta e disegnata da Ian Churchill. La setta è anche un gruppo di esseri non precisamente normali, che sono i protagonisti della storia. Black Mass, il capo riconosciuto dei Coven, un golia capace di assumere la consistenza della roccia e di guarire sé e gli altri dalle ferite. Fantom, metà umana e metà vampira, costretta a nutrirsi di sangue umano che si procura con metodi stravaganti, in grado di controllare le menti e di trasformarsi in nebbia. Scratch (letteralmente ‘graffio’), ex prete esorcista posseduto da un demone malvagio che ne influenza parte della personalità, in grado di controllare un fuoco demoniaco e di levitare. Spellcaster, unica figlia di una strega bianca potentissima, ma in grado di esercitare solo una minima parte del potere che possiede, capace di comunicare col suo gufo vedendo attraverso i suoi occhi. Phenomena, adolescente in grado di ‘sentire’ il manifestarsi di fenomeni paranormali, vicini e lontani. Questi sono i membri della setta. Lottano con tutte le loro forze per opporsi al Pentad, una setta analoga ma votata al male, che contende ai primi il possesso di alcuni ‘articoli’. Cinque articoli molto particolari, una corona, tre chiodi, una spada, una cesto e un calice. Cinque oggetti che sono la traccia del passaggio di un uomo su questa terra, un uomo che porterà alla più grande rivoluzione della storia dell’umanità.

Ma si parlava di omicidio. Che cosa hanno a che fare questi cinque oggetti con l’omicidio? Questi oggetti contengono sigillate in essi delle forze ancestrali, che se riunite in un unico luogo da una persona particolare sono in grado di riportare in vita colui che portò l'omicidio nel mondo: Caino. L’erede, il pronipote di Caino, cammina sulla terra e sta cercando di riunire quegli oggetti che potranno riportare in vita il suo antenato, colui che diventerà il nuovo re dei re, che porterà un nuovo ordine sulla terra.
Una dei Coven, l’ultima entrata a far parte della squadra, avrà la possibilità di fermare tutto questo, ma a quale prezzo? Dovrà sacrificare forse la sua morale, la sua integrità. Dovrà uccidere. Uccidere per evitare il sopravvento del male. Cosa fare allora? Lei sarà sola quando dovrà decidere se afferrare quella pietra che vede ai suoi piedi e colpire il suo nemico, quella stessa pietra con la quale in quel campo Caino uccise il fratello.

“Sopprimere la vita di un altro cancella in un solo momento tutto ciò che egli avrebbe potuto essere... In questo mondo ci sono state date solo dieci leggi da rispettare. I comandamenti. E per quanto ognuno di noi si sforzi, c’è una legge che continuiamo a ignorare. Per la ricchezza. Per il potere. Per invidia. Non uccidere.”

E che cosa bisogna scegliere quando da una parte c’è la possibilità di fermare il proprio nemico, dall’altra quella di prestare soccorso a uno di loro che i compagni non hanno esitato a sacrificare per coprirsi la fuga. La risposta è ovvia: la regola dice ‘non uccidere’. Enigmatica è però la frase che conclude la storia:

“Se abbiamo vinto... com’è che non sembra affatto così?”

Quando quella pietra colpì la nuca di Abele, da un uomo ne nacque un altro. Da una natura unica si separarono il bene e il male, l’onestà e l’invidia, la generosità e la brama. Forze malvagie contro le quali siamo quotidianamente chiamati a lottare, tutti noi, ma purtroppo la battaglia è impari, perché il Male può fare uso di qualsiasi mezzo, mentre il Bene deve sempre tenere presente che una sua azione non può arrecare danno ad un altro essere per raggiungere il suo obiettivo, altrimenti anche il bene diventa male. la forza del Bene consiste proprio nel superare questo svantaggio di base. Il bene ottiene quello che è giusto lottando con, e non contro, il nemico.

Ma considerare l’omicidio l’unico tema trattato nella miniserie sarebbe riduttivo e superficiale. Infatti molti altri temi vengono sollevati in questa opera, e trattati con un rigore e una logica che raramente si può trovare in un'opera a fumetti. Ad esempio, il tema dell’esoterismo è molto presente nelle pagine illustrate. Ma un esoterismo autentico e ragionato, non improvvisato e superficiale. L’esempio migliore è dato da una scena in cui Spellcaster, ereditati da poco dalla madre uccisa i poteri di strega bianca, si accinge a compiere un rito magico nel tentativo di vendicarla. Ma è logico pensare che una ragazza che ha ereditato poteri antichi di millenni da poche ore, e che a stento è in grado di leggere i simboli che vede nel manuale della madre, riesca a compiere un incantesimo al primo tentativo? No, e infatti il rito non riesce, o meglio non come lei vorrebbe, e ottiene invece il risultato di evocare un demone confinato in un limbo oscuro, che aspettava solo di liberarsi. E solo con l’aiuto di Scratch Spellcaster riesce a rimediare al danno, facendo appello a tutto il suo coraggio e affidandosi allo spirito della madre. La scena dura appena sei pagine, ma è fondamentale per dare il taglio giusto al concetto. In altre opere invece, una ragazzina che si ritrova a custodire un'arma ancestrale o poteri magici sconosciuti, dopo pochi istanti è già in grado di capirne a fondo i segreti e di padroneggiarli alla perfezione.

Altro aspetto molto interessante e innovativo riguarda il vampirismo, che viene rappresentato in “The Coven” da Fantom. Tutti quelli che almeno per una volta hanno letto qualcosa che riguarda i vampiri si saranno chiesti: ‘Ma è mai successo che un vampiro abbia avuto rapporti con un mortale e ne sia nato un figlio? E in questo caso, che poteri avrebbe?’ Io me lo sono chiesto qualche volta, ma solo in questa miniserie ho trovato una risposta convincente. Figlia di un dignitario francese che teneva nascosta la sua vera natura di vampiro, e di una bellissima donna mortale, Fantom non è immortale come il padre, ma invecchia molto lentamente dimostrando solo venti dei suoi trecento anni. Come tutti i vampiri è costretta a nutrirsi di sangue umano, ma, sorretta da un’incrollabile fede cattolica, ha deciso che nessuna vita dovrà spegnersi per la sua sopravvivenza, e ha scelto di procurarsi il suo sostentamento con metodi, diciamo così, non convenzionali. E ricambia sempre con il piacere che dà ai suoi partner quello che è costretta a prendere da essi. Oltre questo, ha poteri tipici dei vampiri, come il controllo delle menti e la capacità di trasformarsi in nebbia. Altra cosa molto interessante che riguarda questo personaggio è il fatto che, molto intelligentemente, ha impiegato i suoi trecento anni per acquisire una cultura vastissima in tutti i campi, diventando un esperto medico, un ottimo avvocato, e altro ancora. D’altra parte avevo sempre pensato che un essere dotato della vita eterna doveva ragionevolmente impiegare tutto questo tempo in modo da acquisire conoscenze superiori a quelle dei comuni mortali. Ian Churchill ha confermato questa mia supposizione.

Non manca infine il punto di vista dell'umano. Max Streebecke non credeva nel paranormale. Fino a quando una sera, tornando a casa, trovò che la sua famiglia era... scomparsa. Per anni ha cercato invano di ritrovarli, seguendo quelle che la polizia definiva ‘prove incerte’. Adesso una semplice cartolina è sufficiente a farlo volare dall’America all’Inghilterra. E quando vede Fantom ‘sparire’ nella nebbia portando con sé Christina Baker, le parole ‘prove incerte’ tornano ad avere un significato diverso. Un personaggio secondario, che non ha nulla a che fare con la vicenda, ma che serve all'autore per mostrare il punto di vista di noi comuni mortali di fronte a fenomeni che non riusciamo a interpretare e a capire. Un'altra perla stilistica di Ian Churchill.

Concludendo si può dire che ogni pagina di questa opera è carica di significati, manifesti o celati, e che va letta su più livelli, analizzando le parole dei personaggi, le didascalie, le immagini, gli sfondi, le ambientazioni, e quant’altro vi si trova. Un’opera completa sotto tutti i punti di vista, che non può mancare nella libreria di un appassionato di fumetti che subisce il fascino delle avventure e dei personaggi ai confini della realtà, a anche oltre. Un’ottima alternativa al fumetto supereroistico classico, che ha le sue punte di diamante assolutamente fuori discussione, ma che a volte stona un po’ con produzioni forzatamente orientate nell’esaltazione dell’eroe che combatte per decenni con la sua nemesi senza che lo scontro giunga mai ad una conclusione. O peggio ancora, e purtroppo sempre più frequentemente, con un fumetto troppo votato all’esaltazione del machismo, della violenza gratuita e della spettacolarità, senza quell’approfondimento psicologico e sociale che hanno fatto innamorare molti di noi fan negli anni passati.


Per finire, ecco una piccola galleria di immagini delle fasi finali delle tavole di Churchill, già inchiostrate e in attesa di passare al colore. Le ho volute aggiungere solo per un fatto estetico, visto che è forse il disegnatore che più mi piace in assouto.