mercoledì 29 luglio 2009

Venuto al mondo

Ho letto “Non ti muovere” per sbaglio, come mi succede con la maggior parte dei libri. Non avevo idea di chi fosse l’autrice, né che di lì a poco sarebbe diventato un best seller, che ci avrebbero fatto un film. Ma mi era piaciuto molto, non solo la storia, ma il modo in cui era narrata. Era la prima volta che leggevo un libro in cui l’io narrante è un uomo ma l’autore una donna, cosa che mi sembrò molto particolare. Quando, nelle ultima vacanze di natale, mi sono accorto in libreria che era uscito un nuovo libro di Margaret Mazzantini, ho deciso subito di comprarlo, anche se avrebbe aspettato parecchio prima di essere letto. Qualche giorno fa ho visto che adesso ne fanno anche la pubblicità in televisione.

“Venuto al mondo” è un libro che parla di molte cose. Di pace e di guerra. Di Italia e di Bosnia. Di amore e di violenza. Di vita e di morte. Si potrebbero isolare molti motivi narrativi nella storia, che però resta una e indivisibile, perché proprio come ogni momento della vita di una persona contribuisce a renderla quello che è, così ogni pagina di questa storia ha reso Gemma, Diego e Gojko quello che sono. Ma il vero protagonista è Pietro, per quanto lui stesso sia inconsapevole di ciò, di quanto e di come la sua vita abbia condizionato quella degli altri. È lui quello che è venuto al mondo, come tutti i bambini del mondo, del resto, ma con una storia diversa. Una storia che sua madre ripercorre per noi in un viaggio nella Bosnia martoriata dalla guerra civile. Un viaggio nello spazio, da Roma a Sarajevo, accompagnato da uno nel tempo, nei ricordi di una donna che tutto avrebbe pensato nella vita tranne che di finire in un luogo simile e soprattutto in una situazione simile. Ogni personaggio, ogni persona è descritta con una nitidezza che la rende reale, sentiamo l’odore, il colore, la voce che si liberano da quei corpi fatti di carta, di parole. Sentiamo il sangue. Sentiamo il dolore. Sentiamo la paura. La paura per un mondo che troppo spesso percepiamo come troppo lontano da noi, come troppo estraneo per poterlo comprendere. Un odio e un male da cui forse è meglio tenersi il più possibile alla larga, perché è troppo facile da imparare e troppo difficile da dimenticare. Per fortuna, c’è una speranza, e questa speranza sta nelle cose che... crescono.

Sebina si spense all’alba, la scarpa le sopravvisse qualche ora.
“E dopo sono andato”.
Era andato a combattere prima a Dobrinja, poi sullo Zuc. Era un poeta, un venditore ambulante, un radioamatore, una guida per turisti, uno stupido che non aveva mai tirato nemmeno a un piccione. Invece imparò subito, perché l’odio si impara in una notte.
Mesi nel fango, la schiena carica del suo rotolo di cartucce.
“Ma potevo combattere anche con il coltello, o a mani nude...”
Si ferma. Incendiarono anche un villaggio. Contadini serbi, civili che non avevano fatto male a nessuno. Lui non partecipò. Però non disse niente. rimase su un cocuzzolo a fumare.

lunedì 20 luglio 2009

"...quasi normale..."


Avrebbe potuto essere molto più di parte. In fondo, Francesco Guccini è un comunista della vecchia guardia, e ha sempre cantato le sue idee con forza e senza sottintesi. Ma in questa occasione, probabilmente non voleva scrivere una canzone ‘politica’. Non ci sono torti e ragioni da assegnare a nessuna delle due parti. Sta cantando di quello che è successo otto anni fa proprio in questo giorno. La vita umana non è né di destra né di sinistra. E così come piangiamo i soldati morti in Iraq, allo stesso modo dovremmo piangere i ragazzi morti nelle manifestazioni. “Piazza Alimonda” fa parte dell’album “Ritratti”, ed è a tutti gli effetti un ritratto, quello di una città colta nel momento in cui succedeva qualcosa di più grande di lei, qualcosa di cui molti non si sono neanche accorti che è successa, quelli che stendevano il bucato o portavano a spasso il cane. Altri l’hanno visto ma hanno fatto finta di niente. ma Genova no. Lei lo sa, lei ha visto. Solo che non lo dà a vedere, con i profili dei suoi palazzi, le sue strade strette, la sua “lanterna impassibile”. Ne ha viste, di onde, quella lanterna. Eppure, impercettibilmente, anche una città può cambiare. Dopo quello che è successo, piazza Alimonda “ritorna come sempre, quasi normale”. Il sangue non va via facilmente dalle strade.


Francesco Guccini – Piazza Alimonda, 2004

Genova, schiacciata sul mare, sembra cercare respiro al largo, verso l’orizzonte,
Genova, repubblicana di cuore, vento di sale, s’anima forte,
Genova che si perde in centro, nei labirintici vecchi carruggi,
parole antiche e nuove, sparate a colpi come da archibugi.

Genova, quella giornata di luglio, d’un caldo torrido d’Africa nera,
sfera di sole a piombo, rombo di gente, tesa atmosfera,
nera o blu l’uniforme, precisi gli ordini, sudore e rabbia,
facce e scudi da opliti, l’odio di dentro come una scabbia.

Ma poco più lontano, un pensionato ed un vecchio cane
guardavano un aeroplano che lento andava macchiando il mare,
una voce spezzava l’urlare estatico dei bambini,
panni distesi al sole, come una beffa, dentro ai giardini.

Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo, quasi un dovere,
piacere di incontri a grappoli, ideali semplici, essere e avere,
la grande folla chiama, canti e colori, grida ed avanza,
sfida il sole implacabile, quasi incredibile passo di danza.

Genova, chiusa da sbarre, Genova soffre come in prigione,
Genova, marcata a vista, attende un soffio di liberazione,
dentro agli uffici uomini freddi discutono la strategia,
e uomini caldi esplodono, un colpo secco, morte e follia.

Si rompe il tempo e l’attimo, per un istante, resta sospeso,
appeso al buio e al niente, poi l’assurdo video ritorna acceso,
marionette si muovono, cercando alibi per quelle vite
dissipate e disperse nell’aspro odore della cordite.

Genova non sa ancora niente, lenta agonizza, fuoco e rumore,
ma come quella vita giovane spenta, Genova muore,
per quanti giorni l’odio colpirà ancora a mani piene,
Genova risponde al porto con l’urlo alto delle sirene.

Poi tutto ricomincia, come ogni giorno, e chi ha la ragione,
dico nobili uomini, danno, implacabili, giustificazione,
come ci fosse un modo, uno soltanto per riportare
una vita troncata, tutta una vita da immaginare.

Genova non ha scordato, perché è difficile dimenticare,
c’è traffico, mare, accento danzante e vicoli da camminare.
La lanterna, impassibile, guarda da secoli gli scoglie l’onda,
ritorna, come sempre, quasi normale, piazza Alimonda.

La salvia splendens luccica, copre un’aiuola triangolare,
viaggia il traffico solito, scorrendo rapido e regolare,
al bar caffé e grappini, verde un’edicola vende la vita,
resta, amara e indelebile,
resta, amara e indelebile,
resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita.

martedì 14 luglio 2009

Blatta

Ho letto fumetti di tutti i tipi, di tutti i generi, su tutti gli argomenti, o quasi. Mi lasciano sempre qualcosa, anche quelli meno pregiati, se così posso definirli. Anche solo quel tempo passato su una poltrona a leggere è prezioso, un tempo in cui esistiamo solo io e le pagine che tengo in mano. Alcuni fumetti mi lasciano dentro un senso di smarrimento, potrei dire di angoscia, in alcuni casi. Qualcosa di opprimente che mentre li leggo mi circonda, con sensazioni che difficilmente riuscirei a provare nella vita di tutti i giorni. Mi è successo con “Blame!”, il manga capolavoro di Nihei. Mi è successo di nuovo con “Blatta”. Per molti aspetti queste due opere si somigliano, si dal punto di vista grafico e narrativo che concettuale.

Siamo in un’epoca imprecisata, in un probabile futuro post-apocalittico, in cui la società umana come la conosciamo non esiste più. Lo stesso concetto di essere umano si è praticamente annullato in ragione di un distorto desiderio di sopravvivenza. Gli individui non sono più uomini ma semplici corpi chiusi in tute di protezione. Vivono da reclusi in celle di pochi metri quadri, senza alcuna possibilità di interazione con gli altri. La loro vita è scandita dalla vuota routine di una luce verde che quando si accende indica l’ora di andare al posto di lavoro e di rientrare a ‘casa’. Un lavoro che nella massima manifestazione di alienazione si riduce a premere in sequenza due tasti indicati dalle lettere ‘Y’ e ‘N’. Sì e No. Immaginare una vita così è già abbastanza angosciante. Immaginare che non finisca mai è l’orrore puro. Ogni individuo, quando muore, viene clonato e la sua coscienza trasferita nel nuovo corpo ospite. Questa è la sopravvivenza dell’uomo. Chi legge vive tutto questo con gli occhi di uno di questi individui, il numero 5.0, perfettamente integrato in questa routine. Ma se il corpo e le azioni si controllano, lo stesso non si può dire dei pensieri e dei sogni. Gli incubi del passato tormentano il soggetto, angosciandolo con il rimorso di aver sacrificato i suoi affetti e la sua famiglia in nome di quella sterile sopravvivenza. Rimorsi, dolore, rassegnazione, paura. Sentimenti negativi che si affollano in quella mente rinchiusa nel suo casco. Tutti tranne uno: la rabbia. Non c’è lotta, in questa vita, non c’è ribellione. Non è pensabile uscire dal sistema. Ma la vita, il caos, non conoscono regole, sistemi, programmi. E si manifestano nella storia di quest’essere nella forma del più repellente degli organismi, quella blatta del titolo, che in uno dei tanti giorni uguali, venuta fuori da chissà dove, si poggia sulla luce verde. Una sorta di manifestazione di quel paradosso della farfalla, secondo cui un evento insignificante che avviene per un breve istante può, nel meccanismo del caos, dare origine ad altri eventi sconvolgenti. E così il protagonista si ritrova catapultato fuori da quella che per lui era l’unica realtà esistente. E incontra qualcuno. Trova (o ritrova) il contatto tra individui. Ma chi ha vissuto per un tempo indefinito in una realtà alienante non è più capace di adattarsi ai cambiamenti, nemmeno ai più piccoli, figuriamoci a quelli grandi. Non è un caso che molti dei sopravvissuti dei lager nazisti si siano suicidati poco dopo aver riacquistato la libertà. Quando ti portano via tutto, non puoi tornare più indietro.

“Blatta” è un’opera molto particolare, non riuscirei a inquadrarla in un genere. Il bianco e nero, le sfumature, le linee, gli angoli di visuale, tutto è studiato e costruito per acuire al massimo quel senso di angoscia che le poche frasi di ogni tavola dichiarano in maniera quasi perentoria. Non ci sono nomi, non ci sono volti, non ci sono espressioni. La narrazione è affidata a pochi gesti, ai chiaroscuri e ai pensieri del protagonista. Pensieri telegrafici come la vita che vive, senza emozioni, senza desideri, senza sogni. Soltanto incubi. E per stigmatizzare il più possibile l’orrore che pervade l’opera, le ultime tavole ci dimostrano che le vicende di uno non sono nulla nel contesto del sistema. Vita e morte non contano niente. la storia finisce come si è conclusa, nella stessa stanza, nella stessa tuta. No, non proprio la stessa. Questa volta, sul pettorale, il numero è cambiato: 6.0!

Un ringraziamento particolare a Filippo e Salvatore che mi hanno regalato questo fumetto.

sabato 11 luglio 2009

"...come il sole ad Est..."


È una storia, sai,
vera più che mai,
solo amici e poi
uno dice un ‘noi’
tutto cambia già.

È una realtà
che spaventa un po’,
una poesia
piena di perché
e di verità.

Ti sorprenderà
come il sole ad Est,
quando sale su
e spalanca il blu
dell’immensità.

Stessa melodia,
nuova armonia,
semplice magia
che ti cambierà,
ti riscalderà.

Quando sembra che
non succeda più,
ti riporta via,
come la marea,
la felicità.

Ti riporta via,
come la marea,
la felicità.

mercoledì 8 luglio 2009

Nico Robin!


Non posso certo definirlo inaspettato. Conoscendola, sapevo che avrebbe portato qualcosa ad ognuno di noi, tornando dal viaggio. Il modo giusto di definirlo è sorprendente. Nel senso che mi ha davvero sorpreso che si sia ricordata che è uno dei personaggi che preferisco di un certo fumetto, di cui avevamo parlato. Forse, le parole arrivano più in fondo di quanto si pensi. Non avevo dubbi che mi avrebbe regalato qualcosa. Qualunque cosa fosse stato, mi avrebbe fatto piacere. Che mi abbia regalato questo, mi ha reso felice, e tutto quello che posso dire, per questa felicità, è grazie.

giovedì 2 luglio 2009

Sotto i venti di Nettuno

Il protagonista di un romanzo giallo è il buono. Questa è forse l’unica certezza che il lettore ha quando apre la prima pagina di un libro di questo genere. Che sia un poliziotto, un avvocato, un chimico o qualcos’altro, è sempre un buono. Magari avrà aspetti particolari del carattere che lo potranno avvicinare più o meno alla linea di separazione tra bene e male, potrà avere qualche sfaccettatura oscura o qualche ombra nel passato, ma in ogni caso è lui che è chiamato a opporsi al male, nella storia. In questo romanzo, però, questo discorso non fila così bene come dovrebbe.

Tutti quelli che hanno letto qualcosa di Fred Vargas conoscono benissimo Jean-Baptiste Adamsberg. I suoi alti e bassi, i suoi accessi di irrazionalità, la sua costante lotta con la logica che rifiuta come sistema di interpretazione del mondo. Uno spalatore di nuvole, insomma, non c’è altro modo per definirlo. Uno che, per incriminare una persona, segue il filo delle sue sensazioni e intuizioni, invece che dei fatti. E ci azzecca quasi sempre. Stavolta però Adamsberg si trova alle prese non con un qualunque delinquente, non con un semplice uomo, ma con un diavolo. Il diavolo. Nelle sembianze terrene del giudice Fulgance, che uccide con il suo tridente. Un diavolo che lo perseguita fin da quando era poco più che un ragazzo, quando commise un omicidio facendo accusare il fratello di Adamsberg, allora appena entrato in polizia. E da allora i ruoli di cacciatore e preda si sono più volte scambiati tra questi due personaggi, lungo un sentiero lastricato di cadaveri uccisi dal giudice e dal suo tridente. Stavolta Adamsberg ha fatto il passo più lungo della gamba. È andato a frugare troppo da vicino negli affari del giudice, va fermato. Ma uccidere uno sbirro non può certo bastare per la soddisfazione del diavolo, lui vuole distruggerlo, sprofondarlo in un’angoscia e in un tormento dal quale non riuscirà a tirarsi fuori. E quale migliore tormento, per un uomo come Adamsberg, del dubbio di essersi trasformato in un assassino? Quelle due ore di totale amnesia trascorse su un sentiero gelato del Quebec assilleranno il commissario durante la sua fuga dal Canada, il suo nascondersi nei meandri di Parigi, la sua caccia al vero colpevole. Di chi fidarsi, a questo punto? Di Danglard e dei suoi uomini? Ma potrebbe esserci una talpa, nella Squadra Anticrimine del quattordicesimo arrondissement di Parigi. Della polizia canadese? Neanche a parlarne. L’unica sua speranza è un’anziana signora, Josette, che si muove nei sotterranei di internet calzando scarpe da tennis colorate!

Un romanzo incalzante, sebbene distensivo, che non ti lascia il tempo di finire un capitolo per il desiderio di cominciare il successivo, ma che ti dà il tempo di apprezzare ogni parola delle sue quasi quattrocentocinquanta pagine. E solo all’ultima, quando finalmente i venti di Nettuno smetteranno di soffiare, noi lettori potremo tirare un sospiro di sollievo.

Danglard scosse il capo, confuso e insieme scioccato. Poi l’assurdità onirica della situazione gli parve talmente piacevole che un puro sentimento di allegria gli spazzò via il malumore. Si sentì colmo di gratitudine nei confronti di Adamsberg che, oltre a non essersi offeso per i suoi insulti, quella sera gli regalava del tutto involontariamente una insolita parentesi di stravaganza. E solo Adamsberg era capace di spremere la vita di tutti i giorni per ricavarne quelle piccole follie, quei rapidi scorci di bellezza stralunata. Poco importava, allora, che lo strappasse al sonno per trascinarlo con un freddo pungente davanti a Nettuno, a mezzanotte passata.