martedì 12 agosto 2008

Batman Il cavaliere oscuro

Ogni tanto ricevo dei commenti ai miei post. Da parte mia, tutti molto graditi, perché rappresentano uno stimolo a continuare a scrivere queste pagine. Da un po’ di tempo, però, voglio fare una precisazione, e ho deciso di cogliere questa occasione. A volte in questi commenti è stata usata la parola ‘recensione’ in riferimento ai miei post. Io non scrivo recensioni di libri né di fumetti, perché non sono un critico letterario. E allo stesso modo, visto che non sono un critico cinematografico, non scrivo recensioni di film. Non mi ritengo all’altezza, e non è falsa modestia. Credo che per poter esprimere un giudizio su un’opera, che sia più che un’opinione, bisogna conoscere non solo quell’opera, ma il suo creatore, tutte le sue altre opere, tutte le opere a queste correlate, il momento storico, il contesto sociale e quant’altro costituisce il mondo dell’opera e dell’autore. Inoltre, vi sono degli aspetti tecnici da padroneggiare: conoscere i requisiti di una sceneggiatura, di una esecuzione grafica, di una trama, di un dialogo, di una inquadratura, e tutto nelle diverse sfaccettature che questi elementi devono assumere nei vari generi. Come dicevo, non sono all’altezza di tutto ciò. Pochi lo sono. È la stessa differenza che c’è tra uno che scrive per passare il tempo e uno scrittore. Quello che mi limito a fare, è scrivere delle mie sensazioni, suscitate da alcune ‘cose’, sperando che chi passa di qui, per caso o per scelta, abbia il piacere, la pazienza o forse solo la sfortuna, di condividere queste sensazioni. Per questi motivi, quella sull’ultimo film di Batman, uscito da pochi giorni nelle sale, non è una recensione ma una raccolta di emozioni.

È strano (potrebbe sembrare quasi banale) dare come titolo a un film di Batman quella che è la sua definizione più classica fin dagli esordi. Sembra come fare un film su Sherlock Holmes e intitolarlo “L’investigatore privato”. Prima di scrivere queste righe, ho dato un’occhiata ai miei vecchi post su Batman, e mi ha colpito come, in quello intitolato “Il fascino del male – L’Enigmista” parlavo di una storia scritta da Peter Milligan, in cui il vero protagonista non era tanto l’uomo pipistrello, o il suo avversario di turno, ma Gotham city. Mi ha colpito perché in questo film la città gioca un ruolo di primo piano. Spero di essere più chiaro in seguito. Devo dire che sono uscito dalla sala molto soddisfatto. Non perché il film sia spettacolare (e lo è), non perché gli attori, dai protagonisti ai comprimari, fanno dei loro personaggi delle interpretazioni magistrali (e le fanno). O meglio, tutti questi elementi contribuiscono alla mia impressione, ma non sarebbero bastati. Quello che mi ha veramente entusiasmato è lo spirito, l’atmosfera, di tutta la storia e dei personaggi. Nei suoi lunghi anni di vita editoriale, il personaggio dei fumetti ha attraversato molti periodi. Ed è passato tra le mani di parecchi sceneggiatori, che ne hanno sottolineato ora alcuni aspetti ora altri. Purtroppo non ho avuto occasione di leggere tutte le storie che in più di sessant’anni sono state scritte per l’uomo pipistrello, ma credo di avene lette abbastanza per fare delle scelte. E le storie che preferisco sono quelle dal sapore più gotico. Come ho detto più volte, la forza fisica, l’addestramento, la disciplina, la volontà, le armi avveniristiche, l’intelligenza e l’intuito sono requisiti importanti, per un personaggio come Batman. Ma contano poco più di niente se paragonate alla sua unica, vera, potentissima arma. La paura. Mi viene in mente una frase, tratta dalla graphic novel “Lanterna verde: rinascita”, su questo aspetto di Batman, ma per spiegarla ho bisogno di una piccola premessa.

Nell’universo DC c’è una grande alleanza di supereroi, chiamata Lega della giustizia d’America (JLA), di cui Batman fa parte. Ma se guardiamo i suoi membri, salta all’occhio una differenza troppo spesso messa da parte. Batman è l’unico eroe a non essere un supereroe. Si trova a far parte di un gruppo in cui ogni membro, se volesse, potrebbe distruggere da solo l’intero pianeta. Ci sono Superman, Wonder woman, Lanterna verde, Martian Manhunter, Flash, e via dicendo. E poi c’è Batman, un semplice umano. Eppure, quando lui parla, tutti ascoltano. Quando lui ordina, tutti eseguono. E non solo perché si fidano delle sue doti. Non si discute con Batman. Perché? Torniamo per un attimo a “Lanterna verde: rinascita”. Le lanterne verdi sono un corpo di polizia intergalattica, ognuna difende un settore dell’universo, grazie all’anello del potere, un oggetto in grado di dare sostanza alla volontà. Hal Jordan è stato il più grande tra le lanterne verdi, prima del suo tradimento e della sua follia. Ma Batman non si è mai fidato di Jordan, non l’ha mai accettato come amico, ma solo come alleato. Per un motivo molto semplice. Per essere scelti dall’anello del potere, bisogna avere due caratteristiche: possedere una grande volontà, ed essere in grado di sconfiggere una grande paura. Ecco perché Jordan non andava a genio a Batman. Ed ecco quella frase di cui dicevo all’inizio. Per difendere il suo compagno dalle accuse di Batman, John Stewart, secondo Lanterna verde della Terra, dice queste parole: “Non l’hai mai sopportato perché Hal era l’unico a non avere paura di te. E cos’è ‘Batman’, se non hai paura di lui?”.

Questa semplice frase basta spiegare tutto. Capiamo il perché del pipistrello, del colore nero, del mantello, dell’oscurità della notte. La paura. Ma queste cose sono facili da comprendere. Quello che è più difficile, è l’aspetto interiore, il risvolto di questo potere smisurato. Tutti hanno paura di Batman. Persino i suoi amici. Riuscite a immaginare una vita in cui non è più possibile togliersi la maschera che si porta? Riuscite a immaginare una vita in cui la vostra sola esistenza basta a dare il pretesto a degli psicopatici per fare qualche giochetto sadico con migliaia di vite innocenti? Ma, per tornare al discorso del contesto, tutto questo sarebbe possibile in un altro luogo? L’ordine e il caos hanno trovato a Gotham lo scenario perfetto per il loro scontro. Una piccola scintilla innescata dalla mente perversa del Joker, e bum! La città è pronta ad esplodere. Viene spontaneo chiedersi se un solo uomo, un eroe, possa fare la differenza, in un luogo come questo. La risposta è sì. E quell’eroe si chiama... Harvey Dent! Sorpresi? Ho già parlato anche di lui, qualche tempo fa, così come del Joker. Per questo non mi dilungo molto su questi personaggi. Harvey Dent era l’eroe di cui Gotham aveva bisogno, ma non l’eroe che si meritava. Batman non è l’eroe di cui Gotham ha bisogno, ma è l’eroe che si merita. Harvey era il migliore, e il Joker ha orchestrato tutto per farlo cadere nell’ombra. Per questo, Batman, un eroe che non è riuscito e mai riuscirà a uscire dall’ombra, deve fare tutto quello che può, tutto quello che deve, finché a Gotham city non ci saranno altri eroi migliori di lui. E se questo vuol dire accusarsi di omicidi che non ha commesso, non avere più nessuno che crede in lui, essere solo, bene, è quello che farà. Batman non è Superman. Batman combatte il male spingendosi ai margini della violenza, della malvagità, dell’odio. Guidato da quella stessa paura che lo attanaglia. A Gotham city non c’è ancora posto per i buoni. Ma se un giorno ci sarà, sarà per merito di qualcuno che si è sacrificato. Bruce Wayne è solo un uomo che non conta nulla. Batman è la tenebra dalla quale può sorgere una nuova alba. Un cavaliere oscuro per una città malvagia.

Forse mi sono dilungato troppo. Che posso dire? Se non l’avete ancora fatto, correte a vedere “Batman il cavaliere oscuro”. Ma attenti: Gotham city fa davvero paura.

In memoria 60 - Seminatori di discordie

Chi poria mai, pur con parole sciolte
dicer del sangue e delle piaghe appieno,
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
Ogni lingua per cento venia meno
per lo nostro sermone e per la mente,
c’hanno a tanto comprender poco seno.
[...]
E qual forato suo membro, e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo della nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
sotto dal mento infin dove si trulla:
tra le gambe pendevan le minugia;
la corata parea, e il tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: “Or vedi com’io mi dilaccio!
Vedi come storpiato è Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti gli altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavol è qua dietro, che n’accisma
sì crudelmente, al taglio della spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quando avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse,
prima ch’altri dinanzi gli rivada.”

Inferno, canto XXVIII versi 1-6 e 19-42

lunedì 11 agosto 2008

Momenti

Tutti nella vita abbiamo qualcosa da ricordare. A volte sono esperienze brutte, ma che ci fanno maturare. Altre volte sono soddisfazioni che ci arrivano da quello che facciamo. E sono molto importanti, perché tutti abbiamo bisogno di sapere che stiamo facendo bene, che quello che facciamo ha un peso, un valore. Le motivazioni possono essere le più diverse, ma tutti siamo in cerca di risultati. Ed è giusto ottenerli, perché ne abbiamo bisogno per andare avanti, almeno tanto quanto i fallimenti, che sono lo stimolo a non ripetere gli errori e a migliorarsi. Nel nostro lavoro questi ultimi sono molto frequenti, e in questo caso i successi diventano ancora più preziosi e necessari. È curioso che io abbia rivisto questo episodio di “Scrubs” proprio quando il mio gruppo di lavoro in ospedale ha ottenuto uno di questi preziosi successi. Vedere un paziente ricoverato da un mese che continua a peggiorare nonostante tutto quello che fai è una cosa estenuante. Non solo perché ti dispiace che una persona giovane sia in pericolo di vita, ma soprattutto perché vieni messo di fronte alla tua incapacità di porre rimedio alla situazione. Ma bisogna avere pazienza, continuare a sperare e impegnarsi al massimo, e soprattutto essere disposti a correre dei rischi. E quando questi rischi ti portano al successo, è una gran soddisfazione, una di quelle che non si dimenticano per tutta la vita. Purtroppo non sempre i meriti vengono riconosciuti, ma non è molto importante. Quello che conta davvero è essere consapevoli che il nostro lavoro ha fatto la differenza. Come dicevo prima, i successi sono preziosi, nel nostro lavoro. Molti vanno in cerca di un grazie, di un abbraccio, di una stretta di mano, insomma di un gesto di gratitudine. Ma non so fino a che punto è giusto aspettarsi tutto questo. Oggi vengono date per scontate cose che un tempo non lo erano affatto, e quindi non è pensabile che vadano diversamente. Oggi, se guarisci un paziente hai solo fatto il tuo lavoro, se non ci riesci sei un incompetente e devi finire davanti a un giudice a spiegare la tua vita e tutto quello che hai sacrificato in nome del lavoro che ami. Per questo bisogna custodire i successi come un tesoro. Non per gli altri o per l’opinione che si fanno di noi. Ma per noi stessi. Per poter dire ‘Sono bravo in quello che faccio’, per dare un significato alle notti sacrificate sui libri, ai soldi spesi, alle rinunce. Per poter dire ‘Ce l’ho fatta’. E per avere la forza di pensare, il giorno dopo, quando non ce la farai, quando fallirai, ‘C’è sempre speranza’.

domenica 10 agosto 2008

In memoria 59 - Dannazione e pentimento

“Francesco venne poi, com’io fui morto,
per me; ma un de’ neri cherubini
gli disse: ‘Non portar; non mi far torto!
Venir se ne dee giù tra miei meschini,
perché diede il consiglio frodolente,
dal quale in qua stato gli sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi,
per la contraddizion che nol consente.’
Oh me dolente! Come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: ‘Forse
tu non pensavi ch’io loico fossi!’
A Minos mi portò; e quegli attorse
otto volte la coda al dosso duro:
e poi che per gran rabbia la si morse
disse: ‘Questi è de’ rei del foco furo’;
per ch’io là dove vedi, son perduto,
e, sì vestito, andando mi rancuro.”

Inferno, canto XXVII versi 112-129

sabato 9 agosto 2008

Il mago di Oz


Avrò avuto su per giù otto – dieci anni, e ricordo benissimo che ero nella casa di campagna dei miei nonni, dove a quell’epoca ero solito trascorrere le estati, insieme a molti altri tra cugini e parenti lontani che tornavano a Cefalù da diverse parti d’Italia per le ferie estive. Non sono molto sicuro di quello che sto per dire, ma se devo indicare un posto in cui è nato il mio amore per la lettura, credo proprio che sia quella casa. In questo istante la mia mente recupera dalla memoria due immagini diverse, ma con qualcosa che le accomuna. Una è una bella mattina estiva, non fa ancora troppo caldo, mio nonno sta seduto sulla sua panca, in terrazza, io poco più avanti sulla sedia sdraio, sto leggendo. L’altra è uno di quegli acquazzoni estivi, in cui non si può mettere un piede fuori di casa, in cui il mondo sembra essersi ribaltato, in cui l’odore di terra bagnata invade prepotente le narici, in cui io, seduto su una vecchia regista con la stoffa lisa, vicino a una finestra, sto leggendo.

Credo sia stato il primo libro che ho letto con la consapevolezza che leggere era diventato un piacere (più tardi sarebbe diventato un amore e un bisogno allo stesso tempo), non un obbligo che veniva imposto a scuola. Ed eccomi qui, disteso sul letto, con la testa dalla parte dei piedi, i gomiti puntellati a reggermi il capo, e gli occhi che scorrono rapidamente quei segni neri, dando vita nella mia mente a immagini fantastiche. Ricordo, come fosse ieri, il sonno che mi dice di smettere, e l’ostinazione che si unisce alla curiosità di girare un’altra pagina, di scoprire cosa succede, finché la mia volontà non prende il sopravvento sui bisogni del corpo, e la luce rimane accesa quasi tutta la notte.
Così ho letto “Il mago di Oz”, circa quindici anni fa, in una edizione economica che più economica non si poteva, comprata per giunta in una bancarella che vendeva libri a tremila lire l’uno. Non ricordo passo per passo le vicende di Doroty, dello spaventapasseri, del boscaiolo di latta, del leone codardo e del fantastico mondo in cui si svolgono le loro avventure. Ma ricordo bene le emozioni che provavo mentre lo leggevo. Ricordo che ero affascinato da quel mondo straordinario e irreale, al punto di tuffarmici dentro anch’io, percorrendo insieme a loro la strada di mattoni gialli, tremando davanti alla strega dell’Ovest, trattenendo il fiato quando il leone spicca il salto dal ciglio del burrone.

Parlare di un classico come quello di Lyman F. Baum non può e non deve essere facile, e per questo non mi cimenterò in una recensione, né in un commento. In particolare, sarebbe bello analizzare tutte le aderenze con il contesto storico in cui lo scrittore si trovava nel momento in cui ha prodotto la sua opera, ma, ad essere sinceri, non sarebbe farina del mio sacco, per cui vi rimando alla pagina web in cui potete trovare tutte queste notizie. Quello a cui voglio limitarmi è un suggerimento, rivolto soprattutto ai più piccoli, ma che può andare benissimo anche per i più grandi. “Il mago di Oz” può essere l’occasione per imparare ad amare la lettura, come è stato per me. Può essere l’occasione per riprendere in mano un libro dopo tanto tempo, magari perché costretti dal lavoro, o dagli impegni in generale, a sacrificare qualcosa, e di solito il primo agnello sacrificale è proprio il libro. Se le vostre maestre, i vostri capoufficio, o peggio ancora le facce che vedete sulle copertine dei libri in libreria (se state pensando a Bruno Vespa vuol dire che siamo in piena sintonia) vi hanno fatto passare la voglia di leggere, Doroty e la sua bizzarra compagnia potrebbero farvela tornare.

Un’ultima nota. Pochi giorni fa ho rivisto, per l’ennesima volta, un episodio di Scrubs, intitolato “La mia strada verso casa”. Quando l’avevo visto la prima volta non avevo notato la citazione che contiene, anzi sulla quale si basa tutto l’episodio. Al protagonista vengono dipinte le scarpe di rosso e cammina seguendo una linea gialla per terra, un chirurgo è alla ricerca di un cuore per un suo paziente, una dottoressa pensa di non avere abbastanza cervello per tenere una conferenza, un’infermiera che vuole avere un figlio pensa che le mancherà il coraggio di affrontare le difficoltà di crescerlo. Non credo ci sia bisogno di dire altro: anche per chi non conosce bene la storia, il parallelismo è fin troppo palese, e dimostra come un classico non smette mai di parlarci e di insegnarci. Splendida è la risposta che ognuno dei tre riceverà alla fine: “A quanto pare, un cuore ce l’avevi già”, “Come vedi, un cervello ce l’avevi già”, “Se ti guardi dentro, scoprirai che il coraggio ce l’hai già”.

In memoria 58 - Guido da Montefeltro

“Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio veniva inteso,
se non fosse il gran prete (a cui mal prenda!)
che mi rimise nelle prime colpe;
e come e quare voglio che m’intenda.
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe,
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte; e sì menai lor arte,
ch’al fine della terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade, ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei.
Ahi miser lasso!, e giovato sarebbe.
Lo principe de’ nuovi Farisei,
avendo guerra presso Laterano,
e non con Saracin, né con Giudei,
chè ciascun suo nimico era Cristiano,
e nessuno era stato a vincer Acri,
né mercante in terra di Soldano;
né sommo officio, né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che volea far li suoi cinti più macri;
ma come Costantin chiese Silvestro
dentro Siratti a guarir della lebbre;
così mi chiese questi per maestro
a guarir della sua superba febbre:
domandommi consiglio, ed io tacetti,
perché le sue parole parver ebbre.
E poi mi disse: ‘Tuo cor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penetrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che il mio antecessor non ebbe care.’
Allor mi pinser gli argomenti gravi
là ‘ve il tacer mi fu avviso il peggio,
e dissi: ‘Padre, che tu mi lavi
di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trionfar nell’alto seggio’.”

Inferno, canto XXVII versi 67-111

mercoledì 6 agosto 2008

Il fascino del male - L'Enigmista

Anche questa volta siamo alle prese con un supercattivo che di super ha poco o niente. Era già capitato con il Pinguino o lo Spaventapasseri. In questo caso, l’unica caratteristica in cui eccelle l’Enigmista è l’ingegno. Poteva essere tutto diverso se questo ingegno fosse stato impiegato per scopi più concreti e produttivi, anche nell’ambito del male. Invece, tutto quello che l’Enigmista si limita a inventare sono enigmi. Andiamo con ordine.

Edward Nigma scopre la sua passione per l’imbroglio fin dalla tenera età, quando a scuola usa uno stratagemma per vincere un concorso a premi risolvendo un puzzle. Negli anni, di queste sue origini come criminale, verranno fatte delle rivisitazioni, e, come al solito, il contesto sociale alienante troverà il suo classico ruolo scatenante delle azioni del personaggio. Viene fuori quindi che il vero motivo per cui il piccolo Edward trucca quel concorso è quello di ricevere le attenzioni degli altri, dato che fino ad allora era così insignificante che perfino i bulli della scuola lo evitavano. Ma, rielaborazioni a parte, resta il fatto che il ragazzo cresce con l’idea che l’unico suo talento sia quello per l’imbroglio. La sua passione per gli enigmi, i rompicapo e i trabocchetti cresce a dismisura nella sua mente, fino a diventare una firma inconfondibile: è nato l’Enigmista. E quale altro rivale poteva avere nella oscura Gotham city questo criminale, se non Batman?

Proprio questo aspetto è, secondo me, quello più interessante del personaggio: a differenza degli altri, che si contrappongono all’eroe nella sua completezza, l’Enigmista è perfetto per esaltare un singolo aspetto di Batman: il suo cervello sopraffino. Chi meglio del re degli indovinelli può mettere alla prova il miglior detective del mondo? Ecco quindi che scopriamo un altro personaggio in grado di farci conoscere meglio Batman, come riflesso delle sue azioni. Era già successo, in un diverso ambito, con lo Spaventapasseri e le sue paure. Con l’Enigmista è la volta della coscienza razionale e deduttiva di Batman. Il rapporto tra quest’ultimo e l’Enigmista diventa quasi parassitario, nel senso che il criminale, ad un certo punto, si trova nell’impossibilità di commettere un crimine se prima non lascia un indizio per l’eroe che potrebbe consentirgli di fermarlo. Una sorta di ‘prova a prendermi’ in cui Batman deve ogni volta sfruttare tutte le sue doti di intuito e deduzione, per cogliere gli assurdi doppi sensi che l’Enigmista semina sulla sua scia.

In definitiva, un personaggio interessante, che ci permette ancora una volta di concentrarci sul mondo del Cavaliere oscuro e di scoprirne sempre nuovi aspetti. Un cenno particolare, però, merita la storia “Cavaliere oscuro, città oscura”, scritta da Peter Milligan. Come lui stesso scrive nell’introduzione a tutto il volume, ma riferendosi in particolare alla sua storia, tutti conoscono l’Enigmista. Ma quello che si prefigge lo scrittore è un obiettivo più sottile, e certamente apprezzabile. Mostrare un altro personaggio delle storie di Batman, forse il più importante, un co-protagonista più che una spalla, che lo accompagna sempre in ogni sua avventura. Tutti conoscono l’Enigmista, così come tutti conoscono Alfred, Robin, Jim Gordon, Batgirl, il Joker, Due facce, e via dicendo. Pochi conoscono Gotham city. Ecco il nuovo personaggio che Milligan ci mostra, nella sua prima e (per sua stessa ammissione) migliore storia di Batman. Il Cavaliere oscuro non sarebbe nulla a Metropolis, o a Coast city, o in qualunque altro posto. Batman esiste perché esiste Gotham, perché solo Gotham sa creare esseri come il Joker, Due facce, e perché no, anche come l’Enigmista.

In memoria 57 - Ulisse

Gittò voce di fuori, e disse: “Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso Gaeta,
pria che sì Enea la nomasse;
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno, e con quella compagna
picciola della qual mai fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Marocco, e l’isola de’ Sardi,
e l’altra che quel mare intorno bagna.
Io e i compagni eravam vecchi e tardi,
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercole segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia,
dall’altra già m’avea lasciata Setta.
‘O frati,’ dissi, ‘che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de’ vostri sensi, ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’eperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente!
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza’.”

Inferno, canto XXVI versi 90-120

lunedì 4 agosto 2008

Il petalo cremisi e il bianco

Avevo letto una recensione sulla pagina dedicata ai libri di un quotidiano. Mi sembrava interessante. E anche vedere scritto quel ‘ pp. 985’ non mi aveva intimorito più di tanto, sono avvezzo a leggere mattoni del calibro di “Anna Karenina” o “Radici”. Era il periodo di natale, e immancabilmente arrivò la domanda di mia zia: “Che cosa ti regalo, quest’anno?”. Non aveva in mente nient’altro, così le chiesi questo libro. Per molti è un regalo banale, il libro, la classica cosa che regalano tutti quando non sanno cosa fare, e in fondo non fai altro che leggerlo e riporlo in uno scaffale. Per me non è così. È forse la cosa che più mi piace ricevere in regalo.

Michael Faber è quello che potrei definire un professionista della scrittura. Non ha scritto un romanzo in preda ad un raptus di creatività, una di quelle storie che ti schizzano fuori dal cervello e le butti giù in un paio di settimane. No, lui ci ha messo un tantino di più, per scrivere queste mille pagine di romanzo storico. Più o meno, venti anni di ricerca e dieci anni di scrittura. Ma un romanzo non è una porta, o una tenda o un muro. Un romanzo è un’opera d’arte. Il tempo che ci si impiega a realizzarlo non è mai troppo lungo. Né mai troppo breve. Dura esattamente quanto deve durare. Un romanzo non è qualcosa che viene scritto, è qualcosa che scrive te stesso mentre lo scrivi, così come è il David che ha scolpito Michelangelo o il sole che ha dipinto Monet, non il contrario. È questo il segreto (secondo me, almeno) per scrivere un grande romanzo: essere scritti da lui. Perciò potremmo dire che è Sugar che ha scritto Michael Faber. Non credo ci sia niente di più intrigante che essere scritti da una prostituta.

Sugar lavora nel bordello di un quartieraccio londinese, in una Londra nebbiosa dell’età vittoriana. Sugar lavora in mezzo al fango del mondo, ma proprio per questo troverà il modo di tirarsene fuori. Dai vicoli luridi e malfamati, Sugar ci porta nei viali alberati dell’alta società inglese, dove un ricco industriale, che l’ha conosciuta come cliente, la fa diventare la sua amante personale, fino ad inserirla nel contesto della sua stessa famiglia, come istitutrice della figlia. Imprigionato in una vita borghese con una moglie malata e frigida, l’unico sollievo del ricco signore è trovarsi tra le braccia di Sugar, in un miscuglio di amore e sesso che nessuno, nemmeno lui, riesce bene a delineare. E intanto, Sugar risale la scala della società, non senza provare anche lei qualcosa di molto simile all’amore per il suo salvatore, ma sempre consapevole dei suoi obiettivi. E alla fine del romanzo, chi può dire quanti di questi abbia realizzato? Forse poteva finire in modo diverso? No, non credo. Sugar ha scritto così la sua storia, non c’era niente di più e niente di meno da dire. Se qualcuno ha voglia di essere scritto dalla sua mano, non ha altro da fare che aprire il libro, e immergersi in quel mondo.

Attento. Tieni la testa a posto: ti servirà. La città in cui ti conduco è vasta e intricata, e tu non ci sei mai stato prima. Puoi immaginare, da altre storie che hai letto, di conoscerla bene, ma quelle storie ti hanno illuso, accogliendoti come un amico, trattandoti come se fossi uno del posto. La verità è che tu sei un alieno, in tutto e per tutto, arrivato da un altro tempo e da un altro luogo. [...] I personaggi principali di questa storia, di cui vorresti diventare intimo amico, non sono qui. Non ti stanno aspettando: tu non significhi niente per loro. Se pensi che abbiano intenzione di lasciare i loro letti caldi per venirti a conoscere, ti sbagli. [...] Quello che ti manca sono i contatti giusti, per questo siamo venuti qui, per i contatti. Una persona che non conta nulla ti presenterà a una persona che non conta quasi nulla, e quella persona a un’altra, e così via fino a quando potrai finalmente varcare la soglia, quasi come uno di famiglia.

In memoria 56 - Ulisse e Diomede

Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
alla vendetta vanno come all’ira;
e dentro della lor fiamma si geme
l’aguato del caval, che fe’ la porta
ond’uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevasi entro l’arte per che morta
Deidamia ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta.”
“S’ei posson dentro di quelle faville
parlar,” diss’io, “maestro, assai ten priego,
e ripiego che il priego vaglia mille,
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
vedi che del desio ver lei mi pingo.”
Ed egli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, ed io però l’accetto;
ma fa’ che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’io ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’ei fur Greci, forse del tuo detto.”

Inferno, canto XXVI versi 55-75