giovedì 25 novembre 2010

Gioco 01 - Wari

Inauguro qui una nuova serie di post, che spero possa essere lunga e divertente, e che avrà come argomento il gioco. Potrà sembrare strano, ma lo ritengo una delle cose più importanti dell’esperienza umana, e quindi rientra appieno nello spirito fondante di questo blog, cioè dare valore alle cose preziose. Il gioco non è solo qualcosa riservato ai bambini, né tanto meno un’attività futile o una perdita di tempo. Credo di poter dire che il gioco è la ragione per cui siamo quello che siamo. Non è un caso che i bambini, subito dopo la nascita, comincino a interagire col mondo proprio giocando. E non è una cosa limitata solo alla specie umana. Chiunque abbia avuto occasione di avere dei cuccioli avrà notato che una quota importante del loro tempo la trascorrono giocando tra loro. Questo perché è dimostrato che il gioco permette di formare e potenziare tutte quelle attività e capacità che saranno fondamentali nella vita adulta. I felini, ad esempio, giocando da cuccioli, imparano a muoversi nell’ambiente circostante, a cacciare e a interagire con i loro simili. Non è un caso che i bambini che da piccoli dedicano molto spazio ai giochi di gruppo si rivelano più socievoli e più portati a stare in compagnia. Allo stesso modo, i giochi che stimolano le attività cerebrali rendono più attivi e produttivi nel mondo del lavoro. È anche dimostrato che l’attivazione in età precoce di più sistemi nervosi contemporaneamente, come è richiesto dai giochi complessi, migliora le capacità intellettive. In definitiva, giocare rende più intelligenti, più svegli, più attivi. È questo il motivo per cui credo che il gioco dovrebbe far parte anche della vita adulta, in tutte le sue forme. Personalmente trovo molto belle quelle immagini in cui si vedono gli anziani che giocano a carte seduti all’ombra del primo pomeriggio. Se ho deciso di inaugurare questa rubrica (chiamiamola così), è perché i giochi hanno una storia e, uno per volta, avrei piacere di condividere queste storie con quanti vorranno leggere queste pagine.

Gioco 1 – Wari

Il primo gioco di cui parlo è il Wari. È uno dei tanti giochi da scacchiera che si praticano in molte parti del mondo. È anche noto con il nome di Mancala ed è stato giocato per migliaia di anni in Egitto, dove ne sono state trovate tracce negli scavi della piramide di Keope e dei templi di Karnak e Luxor. Il gioco si diffuse in Asia e in Africa, dove gli Arabi vi apportarono alcune varianti. In questo modo, si trasmesse fino ai viaggiatori europei del XIX secolo, diventando così noto anche alle culture occidentali. La semplicità dei materiali necessari per giocare al Wari ne ha determinato la grande diffusione nei paesi più poveri. Ad esempio, i bambini africani sono soliti giocare in scacchiere scavate direttamente nel terreno, usando come pedine piccoli sassolini o noccioli di frutta. Secondo la tradizione, si gioca al Wari per divertimento o per il prestigio che offre, mai per denaro. In alcune regioni ha perfino un significato religioso. Nel Surinam, i familiari di un defunto giocano al Wari il giorno prima della sepoltura, per tenere compagnia all’anima del morto che non si è ancora allontanata, ma al calar della notte smettono, perché se continuassero i fantasmi, attirati dal gioco, verrebbero a portare via le loro anime.

La tavoletta del Wari è costituita da due file di sei cavità, più altre due cavità alle estremità che servono solo a contenere i pezzi catturati da ciascun giocatore e possono anche non esserci quando ciascuno tenga il suo bottino da parte. Ognuna delle sei cavità delle due file viene riempita con quattro piccoli oggetti, come semi, sassolini, ceci, ecc. Nel proprio turno, il giocatore preleva tutti i pezzi contenuti in uno dei sei buchi del suo campo di gioco e li distribuisce, uno per volta, nei buchi successivi in senso orario. In questo modo, durante la partita, le cavità potranno contenere un numero variabile di pezzi. Lo scopo del gioco è riuscire a depositare uno o più dei pezzi prelevati dal proprio lato in uno o più buchi dell’avversario che contengano solo uno o due pezzi. Quando questo accade, il giocatore che dispone i suoi pezzi nelle caselle avversarie, che a questo punto conterranno due o tre pezzi, cattura tutto quello che c’è in quelle caselle e le tiene da parte come suo bottino. Il gioco termina quando tutti i buchi del lato di un giocatore sono vuoti e tocca a lui giocare. In questo caso, l’altro giocatore avrà conquistato tutti i pezzi messi in gioco all’inizio, o mettendoli da parte come catturati o tenendoli nel suo campo di gioco, e sarà il vincitore della partita.

sabato 13 novembre 2010

Lucca Comics & Games 2010

Seconda esperienza al Lucca Comics, che si conferma essere una manifestazione coinvolgente per chi come me è appassionato del mondo del fumetto e delle arti grafiche e narrative in generale. Come è ovvio, l’entusiasmo e lo stupore dell’anno scorso sono un po’ scemati, in fondo quest’anno sapevo cosa mi aspettava, ma nonostante questo sono tornato piacevolmente soddisfatto. Tanto per cominciare, per motivi lavorativi e di studio, buona parte dei miei amici è attualmente lontana dalla Sicilia, per cui Lucca ha significato poterci rivedere e passare quattro giorni in compagnia, e anche solo per questo ne è valsa la pena. Seconda considerazione, per chi vive in una realtà come la mia, dove il mercato del fumetto e dell’animazione è relegato a piccole nicchie che a stento sopravvivono, agonizzando nella difficile situazione economica generale, una fiera come quella di Lucca rappresenta una boccata d’ossigeno, mettendo a disposizione una quantità e una varietà di roba che è difficile da descrivere. Terzo, e non ultimo, ci sono gli autori, che per chi è abituato a pensarli come figure astratte dedite solo al disegno, molto meno reali dei personaggi che realizzano su carta, rappresentano una attrattiva non indifferente. Su questo ultimo punto, però, vorrei fare delle considerazioni.

Come mi faceva notare qualcuno, da una fiera come il Lucca Comics, una delle più importanti manifestazioni d’Europa inerenti il fumetto, ci si potrebbe aspettare qualche grosso nome in più. In effetti, l’improvvisa e imprevista assenza di Grant Morrison ha privato la fiera di una delle grosse attrattive di quest’anno. Tuttavia, da qui a dire che non c’è proprio nessuno ce ne vuole! Tanto per dire un paio di nomi, si sono visti Mike Allred, Gary Frank, Ken Niimura, Scott Morse, che certamente non sono gli ultimi arrivati nel panorama del fumetto mondiale. In più, aggiungiamoci una nutrita schiera di autori italiani, operanti sia in patria che all’estero, che hanno arricchito i vari stand con la loro presenza e i loro sketches. Quest’ultimo è forse uno dei punti dolenti di quest’anno, se la vediamo nell’ottica puramente italiana della fiera. Di fatto, non c’è più nessuno che disegna gratis. Fino all’anno scorso, bastava avvicinarsi a un tizio con la matita e al peggio fare un po’ di coda per avere un disegno. Al massimo, gli editori che ospitavano l’autore chiedevano di comprare l’albo presentato come novità. Quest’anno, invece, non solo quest’ultima è diventata una regola, ma addirittura comincia a prendere piede l’abitudine alla commissione, nello stesso stile delle convention americane in cui gli autori hanno, fuori dai loro stand, una sorta di listino prezzi a seconda del tipo di disegno richiesto. Da un certo punto di vista, questo restituisce dignità ad un lavoro che veniva visto come un qualcosa di dovuto nei confronti di chi si avvicinava allo stand, quando in altri posti, per lo stesso tipo di lavoro, i disegnatori vengono strapagati. Dall’altro, però, bisogna fare i conti con le illusioni di chi, con gli occhi estasiati, guarda quelle linee uscire fuori dalle dita e prendere la forma dei personaggi tanto amati, e che si vede privato di questo piacere dal fatto che non si può permettere di pagare cinquanta euro o più per un disegno.

Proprio in questo discorso si inserisce la piacevole scoperta di quest’anno, vale a dire lo stand dei Drawers, una combriccola di simpatici personaggi che ha deciso di prendersi un piccolo spazio dedicato solo al disegno. Unica merce in vendita, delle stampe degli autori presenti, che si alternavano nei vari orari e facevano disegni a tutti quelli che ne acquistavano anche una sola. Come premio a chi acquistava un folder con tutte le stampe a tema Halloween, la partecipazione alla estrazione finale di tre gruppi di originali, nella quale, con mia grande gioia, sono stato il primo ad essere sorteggiato! Ma al di là del premio, la cosa che mi ha veramente fatto piacere è stata trovare un ambiente allegro e divertente, proprio come io mi aspetto che sia un luogo dove nascono i fumetti. È qui che ho conosciuto Daniela, Alessia, Luca, Sabrina, Enrico, Andrea, Elena, e tanti altri maestri della linea e del colore. Tutto sommato, è proprio questo che cerco a Lucca: conoscere le persone che creano i sogni. E poi, parafrasando una ben nota pubblicità, vedere D.D.M. che mangia un cornetto alle nove di mattina mentre disegna non ha prezzo!

sabato 6 novembre 2010

Quello che ti meriti

Esordio italiano per la scrittrice norvegese Anne Holt, che con questo romanzo si inserisce a pieno titolo nel filone dei romanzi gialli dal sapore letterario. Dalle poche ma incisive righe biografiche in quarta di copertina, si capisce che la sua non è una passione solo narrativa ma anche professionale. Laureata in legge ma con un passato di giornalista televisiva, collaboratrice della Polizia di Stato norvegese, avvocato, con una piccola parentesi di un paio di anni come Ministro della Giustizia. Fin dai suoi esordi letterari, nei primi anni Novanta, ha riscosso molto favore da parte di pubblico e critica, vincendo perfino il più prestigioso premio norvegese per il crime novel, The Riverton Prize. “Quello che ti meriti” è il primo di una serie di thriller investigativi che ha per protagonisti l’investigatore Stubo e la criminologa Vik.

Nel freddo della Norvegia sembra che tutto debba muoversi seguendo la lenta e monotona routine che ci si aspetta dai popoli nordici, ma la realtà è molto più complessa di come ce la aspettiamo. Quando sparisce un bambino senza che nessuno se ne accorga, scattano la preoccupazione dei genitori e le ricerche delle autorità locali, ma le ipotesi riguardo alla scomparsa sono molte. Nella maggior parte dei casi si tratta di piccole fughe da casa di bambini troppo vivaci e sicuri di loro stessi. Quando il numero comincia a crescere e i bambini non si trovano, la preoccupazione sale e si cominciano a fare ipotesi molto più serie e angoscianti, soprattutto se non arriva nessuna richiesta di riscatto. Quando una coppia di genitori riceve un misterioso pacco che si scopre contenere il cadavere del figlio, con sopra un biglietto dove si legge l’enigmatica frase ‘Adesso hai quello che ti meriti’, il problema diventa un caso di polizia criminale. Ma l’investigatore Yngvar Stubo non sa dove sbattere la testa, dato che i bambini rapiti e ritrovati morti non sembrano avere nessun collegamento tra loro, così come i loro genitori, i luoghi dove sono scomparsi o le circostanze del rapimento. Forse, potrebbe aiutarlo Johanne Vik, una persona che si occupa di analizzare tutto quello che succede nelle menti criminali. È così che si mette insieme una improbabile squadra di detective in cui alla percettività ed esperienza dell’uomo di legge si mescoleranno le speculazioni logico – psicologiche della donna di ricerca. E il tempo stringe, perché gli assassini come quello che ha ucciso i bambini in genere non si fermano da soli, vogliono essere fermati, e visto che manca all’appello un cadavere, c’è la possibilità che la prima bambina scomparsa sia ancora viva.

Muovendosi in maniera altalenante tra l’interpretazione psicologica dei personaggi e le scene d’azione, Anne Holt intesse una trama sottile e variegata, che alterna più filoni di un’unica narrazione, che convergeranno solo alla fine. I tormenti passati dell’investigatore Stubo si uniscono alla vita complicata di Johanne e di sua figlia Kristian, e a un caso giudiziario di molti anni prima, che ha suscitato la curiosità della criminologa, e in cui un innocente ha scontato anni di galera e odio sociale per qualcosa che non ha mai commesso. Ma proprio nelle ultime pagine del romanzo, si insinua un sospetto: che Aksel Seier abbia pagato in anticipo le colpe di qualcuno che non potrà più essere punito?

I bambini non sanno di dover morire. Non hanno il concetto della morte. Lottano per vivere istintivamente, come le lucertole che se minacciate sono pronte a rinunciare alla coda. Tutte le creature sono geneticamente programmate per cercare di sopravvivere. Anche i bambini. Loro però non hanno il concetto della morte. Ai bambini fanno paura le cose concrete. Il buio. Gli sconosciuti, forse; essere separati dalla famiglia, il dolore, i rumori spaventosi, la perdita di un oggetto. La morte, invece, è incomprensibile per una mente non ancora matura. I bambini non sanno di dover morire.