mercoledì 15 dicembre 2010

Il tempio delle signore

Uno di quei romanzi capaci di cambiare completamente in base a chi lo sta leggendo. Per qualcuno potrebbe essere un giallo / thriller, per qualcun altro romanzo ironico e grottesco, altri ancora potrebbero leggerlo come una satira politica. Di fatto, tutte queste manifestazioni sono una precisa scelta di Eduardo Mendoza, uno dei principali rappresentanti della memoria critica della Spagna post-franchista. Non a caso, praticamente tutti i personaggi che si alternano nella complicata vicenda sono paradigmatici di una classe sociale o di una categoria umana di cui rappresentano pregi e difetti.

“Il tempio delle signore” è la storia di uno strampalato personaggio senza nome, che narra in prima persona le vicende in cui, spesso suo malgrado, si trova coinvolto. Ex detenuto, lasciato a marcire per anni in un manicomio criminale, si ritrova, con sua grande gioia, nuovamente in possesso della sua libertà. Ma trovarsi fuori da un luogo dove, sebbene in condizioni pessime, ti danno da mangiare e da dormire, non deve essere una cosa facile da affrontare, per cui il nostro eroe dovrà ricorrere a tutte le sue risorse e soprattutto all’aiuto della sorella e del cognato per tirare avanti. Ma non appena conquistata una parvenza di stabilità, ecco che immancabilmente accade qualcosa che turba la sua vita. Per tutta una serie di vicende si trova invischiato, a causa di una donna di cui si invaghisce, nella morte di un facoltoso uomo d’affari. A questo punto, comincia un geniale alternarsi di strane figure sulla scena della rappresentazione tragicomica, figure misteriose e ambigue, a tratti drammatiche, a tratti comiche, fino a sconfinare nel grottesco. Così, tra un ambiguo industriale e un politico corrotto e corruttore, una arrampicatrice sociale e una famme fatale dai secondi fini, un sicario e un avvocato adultero, a aiutato da un autista nero che si scopre maestro delle acconciature femminili, il nostro antieroe riuscirà a sbrogliare la matassa del delitto e soprattutto a salvarsi il collo in più di un’occasione.

Con una scrittura facile e scorrevole, ma allo stesso tempo pungente e spietata, Mendoza traccia il ritratto di una Spagna piena di contraddizioni tra l’essenza e l’apparenza, che viene rappresentata, tutta intera, nel paradigma della città di Barcellona. Tuttavia, non dobbiamo pensare che nelle sue parole ci sia un senso di disprezzo per la patria, anzi. Gli attacchi e le critiche, per quanto espressi in senso ironico, sono sempre rivolti agli abitanti, alla classe politica e alle figure del potere, mai alla città stessa, per la quale invece traspare un profondo affetto attraverso la figura di un personaggio che, in alcuni tratti, potrebbe forse contenere qualche nota autobiografica.

Ascoltavo affascinato il discorso del nostro primo cittadino, e intanto meditavo con grande emozione che, grazie a un sistema sociale aperto e democratico come il nostro (ben diverso dal quello indiano per esempio), una persona della mia infima estrazione sociale e dall’infame condotta poteva frequentare quegli spregevoli palloni gonfiati. Ma in quel momento la visione di Magnolio che saltellava per attirare la mia attenzione sbracciandosi come un forsennato mi ricordò il vero motivo della nostra presenza in quel posto e il cumulo di bugie che l’aveva resa possibile.

giovedì 9 dicembre 2010

Northlanders

L’epopea delle terre del nord creata da Brian Wood circa un anno fa è ormai giunta al terzo volume, il che consente di avere a disposizione un po’ di materiale di cui parlare. La cosmogonia dei popoli del Nordeuropa ha sempre costituito un terreno fertile per narratori di tutti i tipi, pensiamo per esempio alle decine di romanzi dal sapore fantasy ma allo stesso tempo calati nella storia reale che hanno per protagonisti i Celti, i Sassoni o i Vichinghi. Un altro esempio potrebbe essere l’ultimo capitolo della saga di Tomb Raider, dove la protagonista Lara Croft si trova catapultata in una avventura intrisa, dall’inizio alla fine, della mitologia vichinga. Non ultimo, il mondo del fumetto ha negli anni attinto a piene mani da questo pantheon, ricordiamo ad esempio il mitico Thor della Marvel comics.

In questo contesto si inserisce anche “Northlanders”, una saga in più parti che ha per protagonisti i popoli del nord. Tuttavia, rispetto al passato, questa serie mostra delle caratteristiche peculiari. La più significativa, a mio modo di vedere, è che abbiamo di fronte storie che hanno per protagonisti personaggi reali inseriti in un periodo storico ben preciso, vale a dire il primo Medioevo. Non abbiamo a che fare con supereroi, demoni, spiriti, folletti o quant’altro, ma con soldati, navigatori, contadini, sicari, esploratori, mercanti, monaci. Di fatto, leggiamo la cronaca romanzata di quella che era la vita reale di quei popoli in quel periodo storico. Le spedizioni vichinghe e le loro scorribande lungo le coste della Francia e dell’Inghilterra, le rivalità tra possidenti terrieri che davano origine a faide lunghe decenni, i tentativi di conversione alla ‘vera fede’ dei popoli definiti barbari da parte dei monaci missionari in quelle terre lontane. Tutto questo raccontato come sfondo alle vicende di singoli personaggi, che si alternano nei vari capitoli dello stesso palcoscenico, le fredde e desolate terre dell’Europa del nord. Forse è proprio questo che rende coinvolgenti queste storie: il mondo in cui sono ambientate. Il fascino di qualcosa di sconosciuto, di lontano, di profondamente diverso da quello che siamo abituati a vedere affacciandoci dalle nostre finestre. Valli di neve bianca che si estendono a perdita d’occhio, foreste talmente fitte che non vi penetrano neanche i raggi del sole, mari in tempesta che scuotono le navi con le vele squarciate dal vento. E in mezzo a tutto questo, uomini e donne che si confrontano con forze ben più grandi di loro, in un mondo dove tutto, perfino un letto su cui riposare, rappresenta una sfida prima e una conquista poi.

Una bella saga, orchestrata in maniera interessante da Brian Wood, coordinatore di una varietà di disegnatori (tra i quali un cenno merita l’italianissimo Davide Gianfelice, autore del primo volume) che hanno saputo adattare molto bene i loro tratti alle atmosfere narrate. Una lettura che potrebbe interessare chi, come me, subisce il fascino delle terre del nord e della loro caratteristica peculiare: il freddo.

giovedì 25 novembre 2010

Gioco 01 - Wari

Inauguro qui una nuova serie di post, che spero possa essere lunga e divertente, e che avrà come argomento il gioco. Potrà sembrare strano, ma lo ritengo una delle cose più importanti dell’esperienza umana, e quindi rientra appieno nello spirito fondante di questo blog, cioè dare valore alle cose preziose. Il gioco non è solo qualcosa riservato ai bambini, né tanto meno un’attività futile o una perdita di tempo. Credo di poter dire che il gioco è la ragione per cui siamo quello che siamo. Non è un caso che i bambini, subito dopo la nascita, comincino a interagire col mondo proprio giocando. E non è una cosa limitata solo alla specie umana. Chiunque abbia avuto occasione di avere dei cuccioli avrà notato che una quota importante del loro tempo la trascorrono giocando tra loro. Questo perché è dimostrato che il gioco permette di formare e potenziare tutte quelle attività e capacità che saranno fondamentali nella vita adulta. I felini, ad esempio, giocando da cuccioli, imparano a muoversi nell’ambiente circostante, a cacciare e a interagire con i loro simili. Non è un caso che i bambini che da piccoli dedicano molto spazio ai giochi di gruppo si rivelano più socievoli e più portati a stare in compagnia. Allo stesso modo, i giochi che stimolano le attività cerebrali rendono più attivi e produttivi nel mondo del lavoro. È anche dimostrato che l’attivazione in età precoce di più sistemi nervosi contemporaneamente, come è richiesto dai giochi complessi, migliora le capacità intellettive. In definitiva, giocare rende più intelligenti, più svegli, più attivi. È questo il motivo per cui credo che il gioco dovrebbe far parte anche della vita adulta, in tutte le sue forme. Personalmente trovo molto belle quelle immagini in cui si vedono gli anziani che giocano a carte seduti all’ombra del primo pomeriggio. Se ho deciso di inaugurare questa rubrica (chiamiamola così), è perché i giochi hanno una storia e, uno per volta, avrei piacere di condividere queste storie con quanti vorranno leggere queste pagine.

Gioco 1 – Wari

Il primo gioco di cui parlo è il Wari. È uno dei tanti giochi da scacchiera che si praticano in molte parti del mondo. È anche noto con il nome di Mancala ed è stato giocato per migliaia di anni in Egitto, dove ne sono state trovate tracce negli scavi della piramide di Keope e dei templi di Karnak e Luxor. Il gioco si diffuse in Asia e in Africa, dove gli Arabi vi apportarono alcune varianti. In questo modo, si trasmesse fino ai viaggiatori europei del XIX secolo, diventando così noto anche alle culture occidentali. La semplicità dei materiali necessari per giocare al Wari ne ha determinato la grande diffusione nei paesi più poveri. Ad esempio, i bambini africani sono soliti giocare in scacchiere scavate direttamente nel terreno, usando come pedine piccoli sassolini o noccioli di frutta. Secondo la tradizione, si gioca al Wari per divertimento o per il prestigio che offre, mai per denaro. In alcune regioni ha perfino un significato religioso. Nel Surinam, i familiari di un defunto giocano al Wari il giorno prima della sepoltura, per tenere compagnia all’anima del morto che non si è ancora allontanata, ma al calar della notte smettono, perché se continuassero i fantasmi, attirati dal gioco, verrebbero a portare via le loro anime.

La tavoletta del Wari è costituita da due file di sei cavità, più altre due cavità alle estremità che servono solo a contenere i pezzi catturati da ciascun giocatore e possono anche non esserci quando ciascuno tenga il suo bottino da parte. Ognuna delle sei cavità delle due file viene riempita con quattro piccoli oggetti, come semi, sassolini, ceci, ecc. Nel proprio turno, il giocatore preleva tutti i pezzi contenuti in uno dei sei buchi del suo campo di gioco e li distribuisce, uno per volta, nei buchi successivi in senso orario. In questo modo, durante la partita, le cavità potranno contenere un numero variabile di pezzi. Lo scopo del gioco è riuscire a depositare uno o più dei pezzi prelevati dal proprio lato in uno o più buchi dell’avversario che contengano solo uno o due pezzi. Quando questo accade, il giocatore che dispone i suoi pezzi nelle caselle avversarie, che a questo punto conterranno due o tre pezzi, cattura tutto quello che c’è in quelle caselle e le tiene da parte come suo bottino. Il gioco termina quando tutti i buchi del lato di un giocatore sono vuoti e tocca a lui giocare. In questo caso, l’altro giocatore avrà conquistato tutti i pezzi messi in gioco all’inizio, o mettendoli da parte come catturati o tenendoli nel suo campo di gioco, e sarà il vincitore della partita.

sabato 13 novembre 2010

Lucca Comics & Games 2010

Seconda esperienza al Lucca Comics, che si conferma essere una manifestazione coinvolgente per chi come me è appassionato del mondo del fumetto e delle arti grafiche e narrative in generale. Come è ovvio, l’entusiasmo e lo stupore dell’anno scorso sono un po’ scemati, in fondo quest’anno sapevo cosa mi aspettava, ma nonostante questo sono tornato piacevolmente soddisfatto. Tanto per cominciare, per motivi lavorativi e di studio, buona parte dei miei amici è attualmente lontana dalla Sicilia, per cui Lucca ha significato poterci rivedere e passare quattro giorni in compagnia, e anche solo per questo ne è valsa la pena. Seconda considerazione, per chi vive in una realtà come la mia, dove il mercato del fumetto e dell’animazione è relegato a piccole nicchie che a stento sopravvivono, agonizzando nella difficile situazione economica generale, una fiera come quella di Lucca rappresenta una boccata d’ossigeno, mettendo a disposizione una quantità e una varietà di roba che è difficile da descrivere. Terzo, e non ultimo, ci sono gli autori, che per chi è abituato a pensarli come figure astratte dedite solo al disegno, molto meno reali dei personaggi che realizzano su carta, rappresentano una attrattiva non indifferente. Su questo ultimo punto, però, vorrei fare delle considerazioni.

Come mi faceva notare qualcuno, da una fiera come il Lucca Comics, una delle più importanti manifestazioni d’Europa inerenti il fumetto, ci si potrebbe aspettare qualche grosso nome in più. In effetti, l’improvvisa e imprevista assenza di Grant Morrison ha privato la fiera di una delle grosse attrattive di quest’anno. Tuttavia, da qui a dire che non c’è proprio nessuno ce ne vuole! Tanto per dire un paio di nomi, si sono visti Mike Allred, Gary Frank, Ken Niimura, Scott Morse, che certamente non sono gli ultimi arrivati nel panorama del fumetto mondiale. In più, aggiungiamoci una nutrita schiera di autori italiani, operanti sia in patria che all’estero, che hanno arricchito i vari stand con la loro presenza e i loro sketches. Quest’ultimo è forse uno dei punti dolenti di quest’anno, se la vediamo nell’ottica puramente italiana della fiera. Di fatto, non c’è più nessuno che disegna gratis. Fino all’anno scorso, bastava avvicinarsi a un tizio con la matita e al peggio fare un po’ di coda per avere un disegno. Al massimo, gli editori che ospitavano l’autore chiedevano di comprare l’albo presentato come novità. Quest’anno, invece, non solo quest’ultima è diventata una regola, ma addirittura comincia a prendere piede l’abitudine alla commissione, nello stesso stile delle convention americane in cui gli autori hanno, fuori dai loro stand, una sorta di listino prezzi a seconda del tipo di disegno richiesto. Da un certo punto di vista, questo restituisce dignità ad un lavoro che veniva visto come un qualcosa di dovuto nei confronti di chi si avvicinava allo stand, quando in altri posti, per lo stesso tipo di lavoro, i disegnatori vengono strapagati. Dall’altro, però, bisogna fare i conti con le illusioni di chi, con gli occhi estasiati, guarda quelle linee uscire fuori dalle dita e prendere la forma dei personaggi tanto amati, e che si vede privato di questo piacere dal fatto che non si può permettere di pagare cinquanta euro o più per un disegno.

Proprio in questo discorso si inserisce la piacevole scoperta di quest’anno, vale a dire lo stand dei Drawers, una combriccola di simpatici personaggi che ha deciso di prendersi un piccolo spazio dedicato solo al disegno. Unica merce in vendita, delle stampe degli autori presenti, che si alternavano nei vari orari e facevano disegni a tutti quelli che ne acquistavano anche una sola. Come premio a chi acquistava un folder con tutte le stampe a tema Halloween, la partecipazione alla estrazione finale di tre gruppi di originali, nella quale, con mia grande gioia, sono stato il primo ad essere sorteggiato! Ma al di là del premio, la cosa che mi ha veramente fatto piacere è stata trovare un ambiente allegro e divertente, proprio come io mi aspetto che sia un luogo dove nascono i fumetti. È qui che ho conosciuto Daniela, Alessia, Luca, Sabrina, Enrico, Andrea, Elena, e tanti altri maestri della linea e del colore. Tutto sommato, è proprio questo che cerco a Lucca: conoscere le persone che creano i sogni. E poi, parafrasando una ben nota pubblicità, vedere D.D.M. che mangia un cornetto alle nove di mattina mentre disegna non ha prezzo!

sabato 6 novembre 2010

Quello che ti meriti

Esordio italiano per la scrittrice norvegese Anne Holt, che con questo romanzo si inserisce a pieno titolo nel filone dei romanzi gialli dal sapore letterario. Dalle poche ma incisive righe biografiche in quarta di copertina, si capisce che la sua non è una passione solo narrativa ma anche professionale. Laureata in legge ma con un passato di giornalista televisiva, collaboratrice della Polizia di Stato norvegese, avvocato, con una piccola parentesi di un paio di anni come Ministro della Giustizia. Fin dai suoi esordi letterari, nei primi anni Novanta, ha riscosso molto favore da parte di pubblico e critica, vincendo perfino il più prestigioso premio norvegese per il crime novel, The Riverton Prize. “Quello che ti meriti” è il primo di una serie di thriller investigativi che ha per protagonisti l’investigatore Stubo e la criminologa Vik.

Nel freddo della Norvegia sembra che tutto debba muoversi seguendo la lenta e monotona routine che ci si aspetta dai popoli nordici, ma la realtà è molto più complessa di come ce la aspettiamo. Quando sparisce un bambino senza che nessuno se ne accorga, scattano la preoccupazione dei genitori e le ricerche delle autorità locali, ma le ipotesi riguardo alla scomparsa sono molte. Nella maggior parte dei casi si tratta di piccole fughe da casa di bambini troppo vivaci e sicuri di loro stessi. Quando il numero comincia a crescere e i bambini non si trovano, la preoccupazione sale e si cominciano a fare ipotesi molto più serie e angoscianti, soprattutto se non arriva nessuna richiesta di riscatto. Quando una coppia di genitori riceve un misterioso pacco che si scopre contenere il cadavere del figlio, con sopra un biglietto dove si legge l’enigmatica frase ‘Adesso hai quello che ti meriti’, il problema diventa un caso di polizia criminale. Ma l’investigatore Yngvar Stubo non sa dove sbattere la testa, dato che i bambini rapiti e ritrovati morti non sembrano avere nessun collegamento tra loro, così come i loro genitori, i luoghi dove sono scomparsi o le circostanze del rapimento. Forse, potrebbe aiutarlo Johanne Vik, una persona che si occupa di analizzare tutto quello che succede nelle menti criminali. È così che si mette insieme una improbabile squadra di detective in cui alla percettività ed esperienza dell’uomo di legge si mescoleranno le speculazioni logico – psicologiche della donna di ricerca. E il tempo stringe, perché gli assassini come quello che ha ucciso i bambini in genere non si fermano da soli, vogliono essere fermati, e visto che manca all’appello un cadavere, c’è la possibilità che la prima bambina scomparsa sia ancora viva.

Muovendosi in maniera altalenante tra l’interpretazione psicologica dei personaggi e le scene d’azione, Anne Holt intesse una trama sottile e variegata, che alterna più filoni di un’unica narrazione, che convergeranno solo alla fine. I tormenti passati dell’investigatore Stubo si uniscono alla vita complicata di Johanne e di sua figlia Kristian, e a un caso giudiziario di molti anni prima, che ha suscitato la curiosità della criminologa, e in cui un innocente ha scontato anni di galera e odio sociale per qualcosa che non ha mai commesso. Ma proprio nelle ultime pagine del romanzo, si insinua un sospetto: che Aksel Seier abbia pagato in anticipo le colpe di qualcuno che non potrà più essere punito?

I bambini non sanno di dover morire. Non hanno il concetto della morte. Lottano per vivere istintivamente, come le lucertole che se minacciate sono pronte a rinunciare alla coda. Tutte le creature sono geneticamente programmate per cercare di sopravvivere. Anche i bambini. Loro però non hanno il concetto della morte. Ai bambini fanno paura le cose concrete. Il buio. Gli sconosciuti, forse; essere separati dalla famiglia, il dolore, i rumori spaventosi, la perdita di un oggetto. La morte, invece, è incomprensibile per una mente non ancora matura. I bambini non sanno di dover morire.

martedì 26 ottobre 2010

Siamo solo all'inizio! Anzi, ancora prima!


Non abbiamo neanche cominciato, e guarda qua che roba! Fuguratevi quando torno! Grazie ancora, Lobo (detto anche Giuseppe)! ^^

sabato 16 ottobre 2010

Here they come!



















Eccoli che arrivano! È una frase tipica di film d’azione, il buono che guarda in lontananza un folto gruppo di nemici che si avvicina, esaltato dal desiderio di confrontarsi con loro, eccitato al pensiero della sfida. Anche per me è lo stesso. Quel mucchio selvaggio di carta colorata si avvicina a grandi passi, inesorabile, incontrastato. Il 29 ottobre si apriranno i cancelli della fantasia, come accade una sola volta ogni anno, lasciando entrare tutti coloro che saranno così pazzi da avventurarsi in un mondo di caos, esaltazione, divertimento, magia. Personaggi ai confini con la realtà quotidiana, se non ben oltre, che nei giorni normali si nascondono dietro la facciata di sceneggiatori e disegnatori, ma che in quei quattro giorni si trasformano in creature dalla dubbia natura, circondate da altre ancora più strane, per aspetto e comportamenti. Uno di questi sarò io. Lucca sta arrivando. Ne rimmarrà uno solo!








God of war - La trilogia

Quella di “God of war” è una delle più famose saghe realizzate nel mondo dei videogiochi, e se è così ci sarà un motivo. A mio modo di vedere, questo risiede nella capacità di saper sintetizzare diversi generi che questo prodotto ha dimostrato fin dal primo capitolo, comparso ormai diversi anni fa. Da un lato, infatti, “God of war” era il classico gioco d’azione, in cui la dinamica fondamentale consisteva nel far fuori orde di nemici agguerrite più che mai per proseguire nel percorso. E in effetti questa è una delle tematiche che più di frequente ricorre nei videogiochi. Su questo substrato, però, gli autori sono stati bravi a inserire tutta una serie di elementi che hanno reso “God of war” un prodotto particolare e interessante. Primo di questi elementi, la storia. Le battaglie di Kratos, il generale spartano protagonista dell’avventura, non sono solo una manifestazione di violenza simulata, ma rappresentano l’unico mezzo che il personaggio ha per proseguire nella sua storia. Un generale, ingannato e tradito dal dio della guerra Ares, giura di vendicarsi di quest’ultimo e inizia un percorso irto di pericoli e scontri che lo porterà ad affrontare ed uccidere il suo avversario, per prenderne poi il posto come nuovo dio della guerra. Così arriviamo al secondo elemento che raramente si è visto in un gioco di avventura, vale a dire la mitologia greca. Sotto questo punto di vista, occorre una precisazione. È chiaro che si tratta comunque di un prodotto di fantasia, e quindi non ci si deve aspettare una fedele corrispondenza con i miti classici, ma piuttosto un loro adattamento funzionale alla storia. Così, non ha senso storcere il naso come fa qualcuno quando Kratos si avventura nel tempio di Pandora, sostenendo che nella mitologia classica non è mai esistito un tempio dedicato a Pandora in quanto quest’ultima non era una divinità. Per la narrazione delle avventure del soldato spartano, era funzionale che esistesse questo luogo, e tanto basta. Un altro elemento che ho apprezzato molto è il velo di mistero che avvolge il passato del protagonista, e che viene svelato poco per volta ma mano che si prosegue nella storia, attraverso dei flashback che rivelano momenti particolarmente dolorosi della vita del generale e che spiegano cosa e chi è responsabile della sua attuale sete di vendetta. Una vendetta che si compierà appieno ed in maniera sconvolgente solo nel terzo capitolo della saga, che si è affacciato sul mercato solo da pochi mesi e che già è in testa alle classifiche di vendita, a dimostrare che la casa produttrice e gli autori hanno saputo sfruttare appieno le potenzialità hardware della nuova macchina PS3. ma l’altra operazione molto intelligente che vorrei sottolineare con piacere è stata rieditare i primi due capitoli della saga, usciti per PS2, in versione rimasterizzata su supporto blueray, che ne ha permesso un miglioramento dal punto di vista grafico. Sebbene si riconoscano le differenze rispetto all’ultimo capitolo, creato di sana pianta per PS3, le prime due avventure sono godibilissime in questo formato. Inoltre, l’edizione Trilogy consente di avere tutti e tre i titoli con una aggiunta di soli venti euro rispetto al prezzo di lancio del solo terzo capitolo. Se non è un’occasione questa... Speriamo che la Sony, forte di questo successo, decida di editare altre saghe rieditate in passato, e che hanno fatto la storia del videogioco. Ogni riferimento alla saga di Metal Gear Solid NON è puramente casuale!

mercoledì 29 settembre 2010

Una stagione selvaggia

Eccoci dunque alla prima avventura che vede come protagonisti Hap Collins e Leonard Pine, i due sgangherati amici che abbiamo conosciuto in “Mucho mojo”. In effetti, “Una stagione selvaggia” è il primo dei romanzi che Joe R. Lansdale ha scritto con loro come protagonisti, e si colloca subito prima di “Mucho mojo”, tanto che in quest’ultimo si potevano leggere parecchi riferimenti alla loro prima avventura, che certamente è una di quelle storie che lasciano il segno. Motivo per cui consiglierei a chi volesse leggere per la prima volta qualcosa di questo autore, di cominciare proprio con questo romanzo, che certamente rappresenta il punto d’inizio ideale per imparare a conoscere i nostri (anti)eroi.

Come ho detto la volta scorsa, Hap e Leonard non potrebbero essere più diversi, ad una prima occhiata, ma in realtà condividono molti aspetti della loro vita, cosa che li ha uniti al punto che considerarli semplici amici sarebbe riduttivo. Nelle loro vite ai margini di tutto, del benessere ma senza cadere nella disperazione, della legalità ma senza cadere nella delinquenza, e via dicendo, arriva quel qualcosa che sempre è stato e sempre sarà capace di far perdere la bussola: uno schianto di donna. Trudy è l’ex moglie di Hap, una che si innamora facilmente degli uomini, ma che se ne stanca con altrettanta facilità, e che sa benissimo come persuadere un maschio a fare quello che vuole. Tutti tranne Leonard, ovviamente, che in quanto omosessuale sa come rendersi immune al fascino femminile, e sente puzza di manipolazione lontano un miglio quando Trudy, dopo essere stata lontana per anni ed aver sposato un altro, misteriosamente ritorna a cercare Hap. E la puzza diventa ancora più forte quando lei chiede l’aiuto di Hap promettendogli dei soldi facili facili. Un bel po’ di soldi facili facili. E sebbene Hap sa benissimo quanto Trudy sappia essere manipolatrice, l’idea di tirare su un po’ di grana per sé e per Leonard non gli dispiace per niente. Ma le cose sono ovviamente destinate a complicarsi. Come, lo lascio scoprire a chi vorrà leggere il romanzo.

Un romanzo che, al di là della storia d’azione e dei continui colpi di scena, ha il grande pregio di farci conoscere dei personaggi davvero vivi e sfaccettati. Bellissimo è in questo senso il ritratto che ne viene fuori dell’amicizia tra Hap e Leonard, pronti a prendersi in giro e ad insultarsi a vicenda alla prima occasione, ma anche capaci di una lealtà e uno spirito di sacrificio l’uno nei confronti dell’altro che chiunque invidierebbe. Altrettanto bello il diverso vissuto generazionale, con Leonard ex combattente in Vietnam e Hap che si è fatto diciotto mesi di carcere per aver rifiutato di prestare servizio militare. Abbiamo quindi nella storia uno spaccato di America dagli anni Sessanta ad oggi, con tutte le sue contraddizioni e i suoi ideali o pseudo tali. E abbiamo anche un po’ di sesso, qualche birra, proiettili, risse e un bel malloppo in fondo a un fiume. Se non è un’offerta speciale questa, ditemi voi!

Dio, com’era bella Trudy. Giovane da far paura, un prototipo di Eva. Aveva lunghi capelli biondi ondulati che scendevano fino alla vita e occhi così verdi e luminosi da sembrare soprannaturali. Portava pendenti d’argento scintillanti. Indossava una camicetta bianca annodata, una minigonna di jeans e zoccoli di legno. Sotto la camicetta si vedevano la pancia piatta e abbronzata e un meraviglioso ombelico, e dalla minigonna spuntavano gambe come quelle che Dio avrebbe dato alla sua donna.

giovedì 16 settembre 2010

Il mistero di Dio

Finalmente vede la luce la ristampa di questa graphic novel della Vertigo, la linea che si potrebbe definire ‘impegnata’ della DC Comics. Una storia partorita dalla mente del visionario Grant Morrison e impressa su carta dal meraviglioso disegnatore (ma definirlo così è riduttivo) John J. Muth, una storia che per le sue qualità narrative è considerata una delle più ambiziose tra quelle dell’autore scozzese.

Nella tranquilla, monotona e piccolo borghese cittadina di Townely va in scena una rappresentazione teatrale di alcuni episodi della Bibbia, ma durante la prima serata, la Genesi, l’attore che interpreta Dio viene ucciso. Inizia così un’indagine che dovrà necessariamente portare a un colpevole, perché una comunità così per bene non può accettare che al suo interno si nasconda un assassino. Di questa indagine viene incaricato uno strano detective di città, taciturno, sospettoso, che va in giro sempre intabarrato in un impermeabile nero. Un detective convinto che questo non sia un normale delitto di paese, alla base del quale ci possono essere soldi, o corna, o delinquenza varia. Il detective Carpenter è convinto che la componente simbolica giochi un ruolo fondamentale in questa storia, e il suo compito deve essere non solo quello di trovare tutti i pezzi del puzzle, ma anche di metterli insieme e di trovare infine la giusta distanza da cui guardare il disegno finale. Qualcuno ha ucciso Dio. Non è una cosa che succede tutti i giorni. E nella tranquilla, monotona e piccolo borghese cittadina di Townely, più di una persona ha qualche macchia nel proprio passato. A cominciare dal detective Carpenter.

Ancora una volta, Grant Morrison dà prova di sapersi muovere alla perfezione in un mondo fatto di follia e simbolismo, dove tutte le ossessioni dell’uomo (forse, le sue ossessioni?) prendono forma e sostanza, al punto che il quadro d’insieme cambia in continuazione a seconda di quale sia il paio d’occhi che lo sta guardando in quel momento. Un viaggio onirico e intimista in alcuni passaggi, crudelmente reale in altri, scandito meravigliosamente dalle tavole ad acquerello di Muth, che ci regala un vero e proprio quadro ad ogni pagina. E non sperate troppo intensamente di scoprire chi ha ucciso Dio. Mai fidarsi di uno scrittore, mente per mestiere.

venerdì 10 settembre 2010

The Lady and the Reaper

Nel mio lavoro capita di aver a che fare con questa entità, che nell’immaginario comune è associata a quanto di peggio possa esistere. Devo dire che questo mi rammarica un po’, perché mi rendo conto che ancora oggi, con tutta la nostra evoluzione e il nostro progresso, non riusciamo a scostarci da idee radicate nelle zone più profonde della nostra mente. Ancora oggi, non ho mai avuto occasione di sentire qualcuno che parli di una ‘bella morte’. Con sottile ironia e con una impostazione francamente parodistica, questo cortometraggio di matrice spagnola a mio giudizio si propone proprio questo: rivalutare l’idea di questa entità dalla quale tutti fuggiamo, e familiarizzare con il concetto che dovremmo preoccuparci di vivere e morire bene, piuttosto che semplicemente di allungare la sopravvivenza.

martedì 24 agosto 2010

Almost blue

Romanzo particolare e molto variegato dal punto di vista narrativo quello intessuto da Carlo Lucarelli, che probabilmente è più noto per le sue performance come conduttore e autore televisivo che non come scrittore. In realtà queste due strade hanno sempre corso in parallelo, e sono state mantenute unite da un comune denominatore, rappresentato dai misteri. Infatti, la fortunata trasmissione “Blu notte” ha come sottotitolo “Misteri italiani”, e nella sua produzione letteraria Lucarelli si è sempre dedicato al giallo. Inoltre il suo particolare modo di narrare, che lo ha reso famoso in televisione, ho scoperto essere presente anche nella parola scritta. Una narrazione fatta di frasi brevi e scattanti, di incidentali, di ripetizioni, di punteggiatura sincopata che sembra scandire il racconto come le battute scandiscono la melodia di un’orchestra. Espediente molto particolare, e che personalmente ho trovato molto interessante, e quello del cambio del narratore. Non uno solo, infatti, ma ben tre sono i punti di vista di questo romanzo, che di fatto seguono il ruolo della vicenda dei tre protagonisti principali.

Anche se nessuno vuole ammetterlo, a Bologna è in azione un assassino seriale, che uccide gli studenti universitari con un rituale macabro e inquietante. Ma quello che lo rende particolare è la capacità di assumere di volta in volta l’identità delle sue vittime, sicché ognuna di esse di fatto è uccisa dalla precedente. Non lo fa per cattiveria o per esaltazione della violenza, semplicemente è l’unico modo che ha per far tacere le campane dell’inferno che gli rimbombano nelle orecchie e lo fanno impazzire, a stento tenute a bada dal rock metallico che ascolta a tutto volume con le cuffie. L’ingrato compito di capire chi è, dov’è e come prenderlo è affidato a Grazia, ispettore di polizia ma soprattutto donna in un club per soli uomini. Per lei sarebbe quasi impossibile riuscire a catturare l’assassino, se non potesse contare sull’aiuto di Simone. Un ragazzo schivo, isolato, senza amici, con una madre ossessiva, che vive rinchiuso in una mansarda da dove ascolta i suoni del mondo attraverso degli scanner audio. Piccolo particolare: Simone è cieco. Vede solo col naso e con le orecchie, non gli piace usare il tatto, preferisce i suoi e gli odori, con i quali interpreta il mondo a modo suo. Per lui i colori sono consonanti e vocali, ma anche sensazioni, atteggiamenti, emozioni. Così, la voce dell’assassino che cambia pelle come un rettile e che Simone ha captato con lo scanner è una voce brutta, pesante, verde, mentre quella di Grazia è delicata, dolce, blu.

Alternando un mondo fatto di odori e suoni ad uno fatto di pensieri deliranti e corpi che si trasformano, dove a fare da intermezzo tra questi ci sono le paure e le insicurezze di una donna immersa nei pregiudizi di una società sessista, Lucarelli tesse una trama avvincente e ci dà la possibilità di incarnarci di volta in volta nei tre protagonisti, con le loro emozioni e i loro pensieri, al punto che, leggendo questo romanzo, possiamo scegliere se essere un assassino, una donna poliziotto o un ragazzo cieco.

Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardano. Dicono lucido, opaco, luminosi, invisibile. Come in quella favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire, in cui c’era una principessa così bella e con la pelle così fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro. Per me significava che le dita ci passavano attraverso.

martedì 17 agosto 2010

Casi violenti

Neil Gaiman e Dave McKean sono due grandi del fumetto internazionale. Ma come tutti i grandi, anche loro hanno avuto un principio, e si dà il caso che il principio (o quasi) di questi due sia proprio questa storia. Gaiman era un giornalista alle prime armi, McKean un illustratore che iniziava a mostrare il suo portfolio in giro, stiamo parlando di circa venticinque anni fa, ed era l’Inghilterra in cui fiorivano artisti del calibro di Alan Moore e Bill Sienkiewicz. Si conoscono per caso, reclutati dalla stessa rivista che conoscerà una fortuna alquanto misera, e si scoprono entrambi convinti che il fumetto può essere un mezzo di comunicazione ben più potente e ‘adulto’ di quanto non fosse stato fino ad allora. Così cominciano a pensare, e nasce l’idea di realizzare e pubblicare su “Escape” una storia breve, che alla fine tanto breve non si rivelerà, crescendo da cinque a quarantaquattro pagine in corso d’opera. Questa storia è “Casi violenti”.

La storia non è altro che la rievocazione di un incontro avvenuto durante l’infanzia del narratore, tra lui e un osteopata che dice di essere stato al servizio di Al Capone. Come spesso accade con la memoria, alcuni ricordi sono confusi e sfumati, altri precisi e nitidi, e tutti vengono filtrati dalla mente di un bambino con la sua personalissima scala di valori e significati. Così, l’Inghilterra degli anni Sessanta si alterna con L’America degli anni Venti, quelli del proibizionismo e dei gangster, e le due realtà poco a poco si fondono, fino a formare un affresco indistinto che è una sentita e profonda riflessione sul concetto di Male.

In parte memorie dell’infanzia, in parte ricostruzioni di un’epoca violenta che ha segnato la storia, il tutto legato da un’alchimia magica che trascende il tempo e lega in frammenti con fili tanto resistenti quanto impercettibili. Un’opera che è capace di evocare sentimenti e sensazioni inusuali in modi altrettanto inusuali. La narrazione di Gaiman si amalgama alla perfezione all’illustrazione innovativa e avveniristica (per l’epoca) di McKean in un sodalizio che non solo la rende ancora adesso un’opera di grande pregio, ma che getta le basi per tutti quelli che saranno i lavori futuri dei due artisti, sia insieme che separatamente. Da quest’opera nasceranno cose come “Sandman”, “Cages”, “Mr. Punch”, e tutto quello che in questi ultimi venticinque anni, i due autori sono stati capaci di produrre, anche solo per aver rappresentato il punto di inizio di tutto questo non possiamo esimerci dall’obbligo di leggere e apprezzare questa graphic novel.

giovedì 12 agosto 2010

Summertime...


Estate è tempo di leggere, e quando si torna, si scrivono i post su quello che si è letto. Non preoccupatevi (oppure sì, se volete), sto per tornare!

sabato 24 luglio 2010

Air - Lettere da nazioni perdute

In un mondo in cui è diventato sempre più difficile leggere storie innovative e interessanti, questo fumetto mi ha piacevolmente colpito. Comprato più che altro per i commenti che grandi autori del mondo del fumetto avevano rilasciato e che sono stati riportati in copertina, si è rivelato un degnissimo primo volume di quella che potrebbe essere una serie molto interessante, e che, nel piattume delle opere a fumetti di questi ultimi periodi, dove solo pochi riescono a svettare su un pantano di mediocrità, secondo me merita di essere seguita nei suoi prossimi appuntamenti.

La protagonista della storia, Blythe, è una assistente di volo di quella che sembra essere una normale compagnia aerea, con il piccolo particolare che Blythe è acrofobica, cioè ha paura delle altezze. Cosa strana, per una persona che ha scelto di passare per mestiere gran parte della sua vita su degli aerei in volo. A un certo punto, compare nella sua vita uno strano personaggio, che sembra cambiare identità come una persona normale cambierebbe la maglietta, e che si trova spesso nelle sue vicinanze. Con l’allarme terrorismo sempre ai massimi livelli, non c’è da stupirsi che la cosa desti più di qualche sospetto. Ma parallelamente a questo, Blythe e la compagnia aerea per cui lavora sembrano essere oggetto delle attenzioni di un misterioso gruppo di persone che, almeno secondo quello che dicono, sembrano intenzionate a combattere la minaccia del terrorismo aereo con metodi piuttosto sbrigativi e violenti. Ma le cose stanno realmente così? Tutti sono quello che sembrano o dicono di essere? E quali misteri nasconde la compagnia aerea Clearfleet, dato che il criterio che regola le assunzioni del personale sembra essere la stranezza? Guidata da messaggi in codice, sentimenti contrastanti e apparizioni oniriche, Blythe dovrà dimostrarsi capace di compiere evoluzioni aeree molto impegnative per non precipitare o schiantarsi e raggiungere sana e salva la sua destinazione (scusate la metafora aeroplanistica!). E sapere quale questa sia sarebbe già un grosso passo avanti.



Scritto da G. Willow Wilson e disegnato da M. K. Parker, la serie “Air” ha saputo dimostrare uno spessore narrativo non comune per il panorama fumettistico attuale, muovendosi con il giusto equilibrio tra fantasy e realismo, tra satira sociale e azione, tra ironia e dramma, una miscela di elementi che gli hanno fatto guadagnare commenti di apprezzamento da autori del calibro di Neil Gaiman, Brian Wood, Gail Simone, Brian Azzarello, e molti altri tra autori e riviste di narrativa, oltre a numerose nomination agli Eisner Awards. Aspettiamo di vedere se gli autori saranno in grado di mantenere questa qualità narrativa e grafica che hanno espresso nel primo volume. Ma, ad essere onesti, per la mia piccola e per nulla professionistica opinione, le premesse ci sono tutte.

lunedì 19 luglio 2010

Mucho mojo

A quanto risulta dalle cronache ufficiali, ho appena inaugurato un’altra serie: ora mi tocca recuperare anche tutte le avventure di Hap e Leonard. Me li ha fatti conoscere un amico che mi ha regalato, insieme ad altri, questo libro in occasione del mio ultimo compleanno, dicendomi che forse è la loro migliore storia. E come al solito, quando leggo qualcosa, mi piace, e ha un seguito, sono quasi costretto a leggere anche tutto il resto. Inoltre, al di là della storia di cui tra poco dirò, mi ha colpito molto l’introduzione scritta dall’autore, in cui diceva che Hap e Leonard erano venuti a fargli visita una volta che stava scrivendo una storia e poi l’aveva abbandonata, fino a quando, tempo dopo, sono tornati a chiedere insistentemente la loro storia, tanto che lui è stato quasi costretto a scrivere questo romanzo. Mi ha molto colpito questo concetto della necessità del personaggio di essere raccontato, della sua pressante richiesta nei confronti dell’autore di veder scritte le proprie storie. Personaggi talmente reali e vivi da ridurre l’autore a un mero dattilografo del loro racconto in prima persona. Il saper entrare in contatto con il proprio personaggio al punto da renderlo persona è secondo me una qualità che solo i grandi scrittori dimostrano e che Joe R. Lansdale mi ha dimostrato.

Hap Collins e Leonard Pine sono praticamente due facce della stessa medaglia. Uno bianco e l’altro nero, uno etero e l’altro gay, immersi nel profondo dell’America sudista dove queste caratteristiche ti rendono diverso, a seconda dell’ambiente di riferimento in cui ti trovi. In un quartiere di neri, quello diverso è il bianco. Ma Hap e Leonard hanno anche molto in comune. Un passato difficile, qualche periodo dietro le sbarre, un presente incerto vissuto nell’arrabattarsi con qualche lavoretto da poco, un futuro che non viene neanche preso in considerazione in termini di programmazione. Tutti e due hanno qualche debito di amicizia nei confronti dell’altro, tutti e due quando c’è da menare le mani non si tirano indietro, tutti e due intelligentissimi, a dispetto del pregiudizio secondo cui essere in condizioni disagiate vuol dire essere stupidi perché gli intelligenti trovano sempre il modo di fare i soldi. Un bel giorno però lo zio di Leonard muore, e lascia la nipote una vecchia casa malandata e una grossa somma di denaro. A causa del rapporto molto conflittuale che c’era con lo zio Chester, Leonard decide di andare a stare a casa sua per sistemarla, e così scopre anche il resto della sua eredità. In effetti, ci sono tutti gli elementi per pensare che lo zio Chester abbia perso per strada un bel po’ delle sue rotelle, visto che gli lascia un sacco di buoni omaggio scaduti, una stanza piena di giornali vecchi, un libro di Dracula chiuso in una cassetta di sicurezza. E una cassa sotterrata con dentro lo scheletro di un bambino. Lo zio Chester ha ucciso un bambino? Era un pedofilo? Leonard non ci crede neanche un po’, nemmeno ammettendo che con la vecchiaia fosse un po’ rimbambito. Hap fa un po’ di ragionamenti logici, da persona meno coinvolta, ma tutti e due capiscono che c’è qualcosa sotto. E vogliono vederci chiaro. Soprattutto se nel quartiere c’è una storia di bambini scomparsi, tutti figli di nessuno, e c’è qualcuno un zona che pensa che siano una manifestazione del peccato e vadano ‘rimossi’.

Mischiando un bel po’ di mistero, qualche rissa, un po’ di sano razzismo all’americana, diverse birre, sbirri e avvocatesse sensuali, Lansdale imbastisce una trama avvincente e divertente. Senza lungaggini e senza retorica, dipinge un frammento di America che abbiamo sempre conosciuto attraverso i film e che è molto difficile raccontare in modo efficace e semplice allo stesso tempo. Il linguaggio vero, quello delle strade, dei bar e delle risse, e quello un po’ filosofico e malinconico di certi momenti della vita si mischiano alla perfezione nella narrazione di Hap in prima persona. Ora non resta che leggere tutte le altre avventure di Hap Collins e Leonard Pine.

- Le minoranze sono una cosa. Le scelte un’altra. Vai un po’ a vedere quanti orientali vivono dell’assistenza pubblica. Non ne troverai molti.
- Vai un po’ a vedere quanti di questi orientali hanno antenati che erano di proprietà dei bianchi e sono stati venduti come schiavi. Francamente, Leonard, penso che qui ci voglia una citazione dalla Bibbia. Non giudicare se non vuoi essere giudicato. Più o meno.
- Già. Be’, ho una citazione anch’io. Se decidi di prenderlo in culo, lo prenderai in culo.
- In quale Bibbia si trova?
- La Bibbia di Leonard.

lunedì 12 luglio 2010

Le [di]visioni imperfette

Mi piacciono i fumetti classici, e questa non è una novità. Chi frequenta queste pagine si sarà accorto che non sono mai stato particolarmente interessato ai prodotti underground, o estremamente concettuali, o dall’altro lato iperrealisti. Per me, l’immaginario, il fantastico, l’irreale sono ingredienti fondamentali di un’opera a fumetti, e anche se ho apprezzato in passato cose come “Maus” o “Uomo faber”, i miei generi preferiti rimangono comunque altri. Allora vi chiederete: “Che diavolo ci fai con un fumetto di Makkox?”. La risposta è molteplice e forse suonerà un po’ incoerente con quello che ho detto finora, ma, a dirla tutta, non me ne frega proprio niente.

Cominciamo dal fatto che per me i titoli sono molto importanti nella scelta di qualcosa, quantomeno nel catturare l’attenzione nel momento iniziale, e quelle parentesi quadre a incarcerare il “di”, creando un doppio titolo – Le divisioni o Le visioni? – mi aveva molto colpito. Poi avevo letto un po’ di vignette passate in giro per il web, e mi erano piaciute. Terzo, un po’ di tempo fa avevo colto un fuori onda, in cui l’amico Salvatore, parlando con qualcuno che adesso non ricordo chi fosse, prendeva in mano questo volume e diceva: “Questo, per adesso, è il mio autore preferito”. Insomma, c’erano abbastanza motivi per leggere questo volumetto. Il colpo di grazia alla indecisione l’ha dato la notizia che l’autore sarebbe venuto in fumetteria per autografi, disegni, chiacchiere e sfincione (cui poi si è aggiunta anche la caponata), per cui non ho avuto più nessun appiglio per rinunciare. Ecco come “Le [di]visioni imperfette” è finito nella mia libreria.

Ma ora devo parlare del fumetto, e qui le cose si complicano. Marco Dambrosio (Makkox per gli amici), per sua stessa ammissione, prende molto spunto dalla televisione e in particolare dalle serie televisive. E in effetti, non so se questa ‘cosa’ si possa definire un vero e proprio fumetto. L’introduzione di Recchioni ci fa sapere che in realtà rappresenta una raccolta di tavole, legate da un unico filo narrativo, che continua una serie iniziata sul web e misteriosamente interrotta. Tuttavia la storia è godibilissima anche entrando in sala quando inizia il secondo tempo. Ci caliamo subito nelle vicende complicate e realissime di Piero, Roberto, Sveva e Mirella, personaggi, o forse persone, che è difficile capire quanto siano inventate e quanto reali (questo forse non lo sa neanche il buon Marco...). la narrazione telegrafica, incisiva, i continui cambi di scena, il costante arrivo di personaggi che non conosciamo e che compaiono come se tutti sapessero chi sono, tutto contribuisce a mantenere alta l’attenzione e costringe a girare tavola dopo tavola, soffermandosi su ognuna giusto il tempo necessario per ammirare i tratti e gli acquerelli che danno un contrasto bellissimo tra irrealtà grafica ed estremo realismo narrativo.

Ma il punto di forza del volume, secondo me, è la seconda parte, il capitolo “Le divisioni interrotte”, dove l’autore rende davvero la sua opera una fiction, con scene tagliate in cui i personaggi diventano dei veri attori che commentano il modo in cui è finita la serie, cioè la morte dello sceneggiatore. Una carica narrativa davvero invidiabile quella che Makkox esprime in queste ultime dodici tavole. Anche solo per queste, vale la pena di leggere quest’opera. E poi, mi ha anche fatto il disegno sul foglio!

venerdì 9 luglio 2010

All star Superman


Non sono mai stato e non credo che sarò mai un fan di Superman, ma non c’è dubbio che rappresenta una pietra miliare della storia del fumetto e dei supereroi. Leggo alcune storie dell’uomo d’acciaio più che altro per avere un quadro completo dell’universo DC, dove sicuramente gioca un ruolo di protagonista e spesso compare in eventi legati ad altri personaggi. Vi chiederete allora perché io abbia deciso di comprare un volume che raccoglie una miniserie fuori collana e fuori continuty, senza nessun aggancio a particolari saghe o eventi attuali o passati. Beh, sarò onesto, l’unica ragione iniziale è rappresentata dal team creativo. Grant Morrison per me fa parte di una trinità inviolabile del mondo del fumetto, anche con i suoi alti e bassi narrativi (gli altri due sono Alan moore e Neil Gaiman). Senza nulla togliere ad altri autori di grande levatura, sia del passato che del presente panorama fumettistico americano, questi tre riescono sempre a trovare motivi narrativi che non posso fare a meno di ammirare e invidiare. Quando accade che Morrison si unisce a Frank Quitely, la cosa acquista ancora di più un carattere imperativo, perché, sebbene il mio gusto per il disegno sia più legato a un’impostazione classica del fumetto (uno stile fratelli Kubert, per capirci), e le tavole di Quitely possono dirsi tutto fuorché classiche, i due insieme formano un’accoppiata vincente sotto tutti i punti di vista. Sarà per una questione geografica (entrambi scozzesi, entrambi di Glasgow), non lo so, fatto sta che già sugli X-Men, e adesso in questa miniserie di Superman, così come in altre opere forse meno note, quali “Flex Mentallo” e “We3”, i due insieme acquistano uno storytelling armonioso e coinvolgente nonostante si discostino molto, narrativamente il primo, graficamente il secondo, dalla tradizione.

Tuttavia, mi è bastato arrivare in fondo all’introduzione per sospettare che ci doveva essere qualcosa di più. questo sospetto è sorto quando ho letto che un certo Mark Waid, firmatario di questa introduzione, affermava di aver letto ogni storia mai scritta di Superman e di non averne mai lette di migliori. Considerando che il buon Mark ha praticamente scandito la sua intera vita a colpi di storie dell’universo DC, credo che la sua frase sia ben più di un’opinione. Poi l’ho letto. E credo di poter dire che questo è un volume che non può mancare nella libreria di nessun appassionato dell’uomo d’acciaio. Come al solito, con Grant Morrison niente è facile, quindi non mi sentirei di consigliare questa storia agli amanti di letture lineari, o con ampi spazi per l’azione pura e semplice. Qui abbiamo a che fare con una storia sottile e complessa, e a volte ci sembrerà di non capire certe frasi, certi scambi di battute, avremo la sensazione di aver saltato una pagina. È una storia che va letta, metabolizzata, e poi riletta con grandissima attenzione ai più piccoli dettagli, sia narrativi che grafici, che si intrecciano oltrepassando il limite fisico del capitolo in corso, tanto che una frase delle prime pagine può essere compresa solo dopo aver letto le ultime due. Tutta la storia è ricca di questi artifici, che la impreziosiscono anche dal punto di vista del messaggio generale. Mi sentirei di poter dire, da non appassionato dell’eroe in questione, che questa storia spiega a tutti chi è Superman, che cosa rappresenta per il mondo e che cosa il mondo rappresenta per lui. Leggetela. E non vi preoccupate se Superman sta morendo. Come dice Lois Lane nell’ultimo capitolo, quando avrà finito di fare quello che sta facendo, Superman tornerà.

martedì 22 giugno 2010

Snake eater


What a thrill...
With Darkness and silence through the night
What a thrill
I'm searching and I'll melt into you
What a fear in my heart
But you're so supreme!

I give my life
Not for honor, but for you (snake eater)
In my time there'll be no one else
Crime, it's the way I fly to you (snake eater)
I'm still in a dream of the snake eater

Someday you go through the rain,
Someday you feed on a tree frog,
It's ordeal, the trial to survive
For the day we see new light

I give my life
Not for honor, but for you (snake eater)
In my time there'll be no one else
Crime, it's the way I fly to you (snake eater)
I'm still in a dream of the snake eater



Che emozione,
con le tenebre e il silenzio attraverso la notte,
sto cercando e mi fonderò in te.
Che paura nel mio cuore,
ma tu sei così maestoso.

Io do la mia vita
Non per onore, ma per te (Snake Eater),
nel mio tempo non ce ne saranno altri,
il crimine è il modo in cui volo da te (Snake Eater),
sono ancora in un sogno del mangiatore di serpenti.

A volte hai attraversato la pioggia,
a volte tu sei nutrito da una raganella
è un esperienza terribile la prova per la sopravvivenza,
per il giorno in cui vedremo nuova luce.

Io do la mia vita
non per onore, ma per te (Snake Eater),
nel mio tempo non ce ne saranno altri,
il crimine è il modo in cui volo da te (Snake Eater),
sono ancora in un sogno del mangiatore di serpenti.






giovedì 10 giugno 2010

Fumetti e fumettari


Forse con un po’ di ritardo, anche questo blog si unisce alla campagna di sostegno per la fumetteria palermitana AltroQuando. Ma prima un po’ di storia (ma proprio poca poca).

AltroQuando nasce a Palermo nel 1991, in una città in cui se dicevi fumetteria ti prendevano per drogato (il termine veniva confuso con fumeria d’oppio in puro stile China Town!), ed è la prima libreria specializzata in fumetti di Palermo. Non mantiene un campo ristretto ad un solo genere ma si allarga a tutto quello che il mercato italiano, e a volte anche quello internazionale, del fumetto offrono. Nel 2001 mi immatricolo all’università, e pochi mesi dopo comincio a frequentare questo luogo che mi appare come una chimera. Nella mia realtà di paese, l’idea di un negozio specializzato in fumetti era un’utopia. Da quel momento è responsabile di un buon 70% delle uscite del mio bilancio economico.

Ma questo non è bastato. Io non sono né un poliziotto, né un avvocato, né un giudice, quindi non farò né accuse né apologie, e non voglio nemmeno fare il medico, in questa occasione, cercando una causa per attuare poi una cura. Voglio fare la persona. Una persona che da anni vive di lettura e per cui la lettura dei fumetti è parte integrante della vita quotidiana. AltroQuando mi ha dato la possibilità di fare questo in modo più approfondito e variegato di quanto non facessi prima. Che sia un problema limitato all’immediatezza di alcune scadenze o proiettato più sul lungo periodo poco importa. Importa il fatto che proteggere questa attività dall’imminente chiusura non vuol dire solo permettere a chi la gestisce di continuare a fare il suo lavoro con passione. Significa lasciare a tutta la città la possibilità di attingere a una risorsa da non sottovalutare nell’economia della cultura quotidiana. Sarebbe come lasciar chiudere un teatro, un cinema, un museo. Giusto per fare un esempio, tutto quello che riguarda i fumetti che avete letto su queste pagine attinge a prodotti che vengono da AltroQuando. Molti si stanno dando da fare. Molti altri potrebbero farlo. Per tutte le informazioni pratiche, qui sotto ecco un elenco di link utili.














Il collezionista di sogni

Storia curiosa, quella di questo romanzo a fumetti ad opera di Enrique Breccia, che avevo già avuto modo di apprezzare come disegnatore in “Lovecraft”. Qui, in veste anche di scrittore, propone i primi capitoli dell’opera a un editore spagnolo, che in seguito rescinde il contratto, motivo per cui Breccia lo ripropone ad un autore argentino, che lo lascia assolutamente libero di impostare il racconto come voleva. Da questo ha origine quella minima discrepanza che notiamo nel passaggio dai primi quattro capitoli ai successivi, dove si legge un maggiore legame con la sua patria.

In un luogo al di fuori del tempo e dello spazio, l’unica cosa che mantiene vivi gli spiriti degli uomini è la lotta. E quando ci si rende conto che si può superare la lotta abbracciando la pace, l’umanità viene investita dalla piaga della ‘peste sottile’, una noia mortale che uccide in poco tempo tutti quelli che contagia. I luminari dell’epoca decidono che l’unico modo per combattere la peste è il Sir-ko Roman-ho, in cui uomini e animali si affrontano per il divertimento degli spettatori. Così, viene ingaggiato Nato, un mercenario, che da quel momento sarà chiamato Il collezionista di sogni, incaricato di andare alla ricerca di Mister Hyde, del Lupo mannaro, del Minotauro, e di altri personaggi mitologici da far combattere nel Sir-ko. Comincia così il suo lungo viaggio attraverso i luoghi più disparati della realtà, dall’isola di Creta alla Londra vittoriana, passando per luoghi del tutto al di fuori del tempo e dello spazio, fino all’approdo su un’isola di ristoro che non rappresenta un epilogo ma solo l’inizio di un nuovo viaggio.

Scritta e disegnata in maniera magistrale, quest’opera è a pieno titolo considerata la più personale tra quelle di Enrique Breccia, in quanto l’averla prodotta e pubblicata nel suo paese natale gli ha dato modo di metterci dentro non solo la sua personalissima visione del mondo e della vita, ma soprattutto della storia moderna e contemporanea che ha visto come protagonista il suo paese, l’Argentina. Soprattutto nella parte centrale del racconto, infatti, leggiamo una profonda critica al golpe militare che ha portato al regime che per molti anni ha retto le sorti del paese, e soprattutto alla distruttiva influenza che i vicini Stati Uniti hanno esercitato con la loro politica neo-imperialista, dove la musica rock ha ucciso le melodie delle canzoni popolari argentine e dove pochi privilegiati hanno svenduto le risorse del paese per il loro tornaconto, senza curarsi delle tradizioni e della cultura del loro stesso popolo. Con un profondo senso di rammarico, leggiamo un Breccia turbato anche dalla incapacità politica di quanti, nelle intenzioni o nelle parole, avrebbero dovuto opporsi a questi eventi, e che di fatto non ne sono stati capaci.

Un viaggio onirico verso mondi fantastici e tempi remoti che scopriamo essere profondamente legati alla nostra realtà quotidiana. Un capolavoro del maestro argentino del chiaroscuro e della china, ma anche della parola.

sabato 29 maggio 2010

I ragazzi di Anansi

Comprato come al solito per una delle mie fissazioni (nel mio dialetto si direbbe ‘fisima’), cioè di avere il più possibile di quello che scrive Neil Gaiman, devo dire che questo romanzo ha piacevolmente soddisfatto le aspettative che ripongo sempre nell’autore inglese. Aspettative che, devo essere onesto, qualche volta sono state un po’ deluse, soprattutto con alcune opere a fumetti. I romanzi invece finora mi sono piaciuti tutti (ne ho letti solo tre, ma spero al più presto di avere il tempo per leggere anche gli altri), e se dovessi fare una classifica, direi che questo sorpassa alla curva finale “American Gods”, che mi era piaciuto tanto e di cui ho già parlato in un precedente post. Ancora una volta Gaiman si confronta con il suo amato mondo della mitologia, ma stavolta, con una scelta secondo me molto efficace dal punto di vista narrativo, invece che costruire il solito pantheon con decine di divinità e affini, si concentra su uno solo di questi, rendendo la narrazione più lineare e coinvolgente di quanto non fosse quella di “American Gods”.

Charles Nancy, da tutti chiamato Ciccio Charlie con suo particolare fastidio, è una persona comune. Potremmo dire assolutamente mediocre. Forse l’unica cosa che lo distingue dalla media della popolazione è una forma quasi patologica di timidezza, retaggio di un’infanzia vissuta con un padre che non perdeva occasione per sbeffeggiarlo e fargli fare brutte figure. Però c’è un’altra cosa che rende Ciccio Charlie speciale, anche se lui non lo sa: suo padre non è altri che Anansi, il dio ragno di origine africana, il padrone di tutte le storie. Ma il signor Nancy (quello stesso che avevamo conosciuto in “American Gods”) decide di passare a miglior vita in una frenetica sessione di karaoke in pubblico, lasciando al figlio Charles un’eredità tanto inattesa quanto indesiderata. Tanto per cominciare, si scopre che ha un fratello gemello, Ragno, che di lui è praticamente il riflesso opposto: spavaldo, piacente, sicuro di sé, spericolato. Ciccio Charlie all’inizio è curioso di conoscere questo fratello di cui non sospettava nemmeno l’esistenza, e, aiutato da alcune simpatiche vecchiette, riesce ad entrare in contatto con lui. Cosa che avrà tutta una serie di conseguenze ben poco piacevoli per lui e per la sua normalissima vita.

Che cosa combinerà Ragno al fratello, alla sua fidanzata, al suo lavoro e più in generale alla sua vita, vale la pena di scoprirlo leggendo il romanzo, che, intrecciando gli elementi mitologici con una trama quasi poliziesca, riesce a coinvolgere e a far divertire pur mantenendo un certo livello di drammaticità e trasporto, soprattutto nelle vicissitudini sentimentali con cui il povero Charles sarà costretto a cimentarsi. Il tutto scandito da un espediente che a me piace molto in Neil Gaiman, vale a dire il sottotitolo di ogni capitolo dove una frase assolutamente criptica spiega quello che succederà senza in realtà dire niente, del tipo: “Capitolo nove in cui Ciccio Charlie va ad aprire la porta e Ragno incontra i fenicotteri”. Un accorgimento letterario che Gaiman aveva già usato in altre opere, per esempio “La stagione delle nebbie”, una parte della saga di Sandman, che secondo me incuriosisce e diverte il lettore con una semplice frase che una volta letto il capitolo è quasi scontata ma che tutti, leggendola, si trovano a pensare ‘l’avrei voluta scrivere io una cosa del genere’. In definitiva, se qualcuno non conosce il Gaiman romanziere e volesse fare un primo passo, questo libro è, secondo me, la scelta ideale.

Le storie di Anansi risalgono a quando gli uomini hanno cominciato a raccontarsi le storie. In Africa, dove tutto è cominciato, ancora prima che gli uomini dipingessero sulle pareti delle caverne i leoni e gli orsi, prima che raccontassero le storie delle scimmie, dei leoni e dei bufali. Grandi storie da sogno. Gli uomini hanno sempre avuto questa predisposizione. È così che interpretavano il mondo: tutto ciò che correva o strisciava o penzolava o serpeggiava doveva passare per le storie, tribù diverse di uomini veneravano creature diverse.

lunedì 24 maggio 2010

Cos'è successo al Cavaliere oscuro?

Immagino sia la storia che tutti vorrebbero scrivere, ma anche quella che nessuno vorrebbe mai scrivere. Così come chi ama una persona considera un grande onore pronunciarne l’orazione funebre, ma allo stesso tempo non vorrebbe mai farlo perché significherebbe che quella persona è morta, allo stesso modo scrivere l’ultima storia di Batman deve essere un onore e un peso indescrivibili. Però tutto questo presuppone che Batman possa morire, cosa di cui Neil Gaiman non sembra essere così sicuro. Ed è proprio per questo che Batman muore. Un sacco di volte. Bene, adesso che siete tutti veramente confusi, possiamo parlare di “Batman – Cos’è successo al Cavaliere oscuro?”, una storia in cui Gaiman dà prova della sua grande fantasia miscelata ad un profondo e sentito legame con il personaggio e gli autori che nel corso di settant’anni ne hanno raccontato le storie, cimentandosi allo stesso tempo con un contesto che non è propriamente il suo, quello in cui l’autore inglese si sente più a suo agio, vale a dire il fantasy. Se esiste il contrario si fantasy, questo è proprio Gotham city, e se dovessi pensare al contrario di Sogno, credo che lo chiamerei Batman. Ci sono un sacco di eroi, e un sacco di supereroi, però è strano trovare un supereroe che non abbia niente di super, anzi, ce n’è uno soltanto: Batman. In mezzo a un tizio che può far esplodere un pianeta con gli occhi, ad uno che corre alla velocità della luce, uno che legge nel pensiero ed uno che dà forma alla sua volontà, ce n’è uno che lancia strani aggeggi a forma di ali di pipistrello, che per arrampicarsi ha bisogno di una fune, che se gli sparano sanguina. Eppure è il più forte in assoluto. Quando l’hanno accusato di essere peggio dei peggiori criminali, ha risposto che si sbagliavano, che lui era quello che stava tra i peggiori criminali e la città. Quando gli hanno detto che se fosse tornato a Gotham l’avrebbero ucciso, ha sorriso, dicendo che provando ad uccidere lui, non avrebbero potuto uccidere persone innocenti, ed è tornato a casa. La storia di Gaiman è un tributo, sia al personaggio sia agli autori che in tanti anni lo hanno reso tale, al punto che sia lui che il meraviglioso Andy Kubert hanno, nei loro rispettivi ruoli, cercato di immaginare cosa avrebbero fatto gli autori del passato se avessero scritto le frasi e disegnato le tavole della storia.

Batman è morto. E Gotham city viene a rendergli omaggio, nello squallido retro di un sudicio bar dove Joe Chili fa il barista, mentre Alfred sistema la sala e accoglie gli ospiti. Jim Gordon accanto al Joker, Selina Kyle accanto a Due facce, Superman accanto a Ras Al Ghul, tutti a vegliare quel corpo nella bara che cambia ad ogni tavola in omaggio ai suoi disegnatori. Nella stanza c’è uno spirito, lo stesso Batman, che non capisce cosa sta succedendo davanti ai suoi occhi, e un altro spirito, femminile, che cerca di aiutarlo a capire. Ognuno fa la sua orazione, ognuno racconta come è morto Batman, perché è morto Batman. Ma solo il più grande detective del mondo può scoprire la verità dietro quel corpo, dietro quella maschera.

Attraverso le parole di Gaiman, scopriamo una grande verità, per mezzo di un finale meraviglioso e poetico nella sua semplicità. Ci sarà sempre un Superman, perché è bello che ci sia, così come una Lanterna verde, un Flash, una Wonder Woman. Ma ci sarà sempre un Batman perché è necessario, perché solo lui può fare quello che fa, solo lui ha quella forza e quel coraggio che servono a Gotham city. Non fa quello che fa per rendere il mondo un posto migliore, o per ispirare gli altri, lo fa perché è necessario che qualcuno si opponga, a prescindere dal risultato finale. Superman non avrebbe la forza di combattere senza la certezza che le sue azioni renderanno il mondo migliore di com’è adesso. Batman ha la forza di combattere con la certezza che non otterrà alcun risultato sulla lunga distanza. Ha la forza di accettare che i suoi sforzi non ripuliranno le strade dalla criminalità. Ci saranno sempre un Thomas e una Martha Wayne che moriranno in un vicolo buio uccisi da un Joe Chili, lasciando da solo un piccolo Bruce Wayne. Ci sarà sempre un Joker che evaderà da Arkham. Per questo ci sarà sempre un Batman nel cielo di Gotham. Superman cerca di cambiare il mondo. Ci vuole molta più forza per fare del proprio meglio per lasciarlo così com’è. Credere che ci sarà sempre il male è molto più difficile che credere nel bene. Batman è morto. Lunga vita a Batman.