giovedì 23 aprile 2009

Batman: death mask

Contrariamente a quanto potreste pensare dal titolo, quello di cui voglio parlarvi in questa occasione è un manga. Nella storia del fumetto, è successo molto raramente che personaggi dei comics americani venissero scelti come protagonisti di opere di autori giapponesi. Quello del fumetto orientale è stato sempre un mondo particolare, che per tradizione e qualità non ha nulla da invidiare al fumetto europeo o americano. Tuttavia il concetto del supereroe è sempre stato praticamente un’esclusiva delle produzioni americane. Negli ultimi anni, però, si è assistito ad un fenomeno di commistione tra questi due mondi così distinti. In alcune occasioni, protagonisti dei comics sono stati reinterpretati da autori giapponesi, e uno dei primi fu proprio Batman, con la miniserie “Il figlio dei sogni” ad opera di Kia Asamya. Questo stesso autore ha poi lavorato su alcuni supereroi della Marvel comics, in particolare gli X-Men, curandone per un certo periodo i disegni. E su questa scia, anche altri eroi Marvel hanno avuto una interpretazione in chiave orientale. Tuttavia, fino ad ora, si trattava solo di una impostazione grafica tipicamente giapponese di opere che per il resto restavano occidentali. Con l’opera di Yoshinori Natsume, invece, assistiamo alla creazione del primo vero manga con protagonista un eroe americano.

Contrariamente a quanto può sembrare, il manga non è solo un modo di disegnare, ma un vero e proprio stile concettuale del fumetto. Infatti, accanto ai tratti grafici tipicamente orientali (ragazze dai grandi occhi luccicanti, uomini dal fisico scultoreo, scene d’azione in pieno stile arti marziali, ecc.), possiamo trovare tutte le caratteristiche del fumetto del Sol levante. Intanto l’impaginazione e l’impostazione delle tavole è quella tipica del fumetto giapponese, da destra a sinistra. Inoltre, anche la densità del testo rispetto alle tavole ricorda in pieno altre opere manga. Essendo queste ultime prodotte principalmente, se non esclusivamente, da un singolo autore, la narrazione della storia è affidata molto alla componente grafica piuttosto che alle parole. Infine, mentre gli autori occidentali lavorano quasi sempre su protagonisti che sono proprietà delle case editrici, offrendone un’interpretazione più o meno personale, i mangaka lavorano su loro creature, caratterizzandole come vogliono e senza dover fare i conti con un passato di storie molto spesso ingombrante e limitante.

Proprio per questo, in “Batman: death mask” non troviamo nessuno dei nemici classici dell’uomo pipistrello, e la storia che leggiamo ha solo qualche lieve richiamo al passato del protagonista. Non di meno, Natsume riesce a cogliere e rappresentare alla perfezione tutti gli aspetti peculiari del personaggio, in particolare il suo rapporto con la maschera che indossa. Un rapporto molto spesso conflittuale e angosciante per Bruce Wayne, che molte volte si è soffermato a chiedersi se il suo vero io sia il miliardario playboy o il tenebroso giustiziere della notte. Proprio su queste basi si sviluppa il tema della maschera, con una interpretazione quasi pirandelliana del rapporto tra soggetto osservante e soggetto osservato. Chi è reale, Brice Wayne o Batman? Quanto di quello che fa scaturisce dalla sua volontà e quanto è dettato dal fatto stesso di indossare quel mantello e quella maschera? L’autore non manca di inserire in questa concezione del cavaliere oscuro anche elementi soprannaturali propri della tradizione del suo paese. Gli Oni (spiriti demoniaci) che si impossessano del corpo degli uomini controllandone le azioni sono un perfetto esempio della tradizione popolare giapponese. Infine, non manca una riflessione sulle motivazioni che spingono ad agire, e su cosa renda realmente diversi i ‘buoni’ dai ‘cattivi’, posto che ci sia spazio per queste distinzioni in un mondo come quello in cui si muove Batman, un mondo costantemente avvolto dalle ombre, un mondo in cui i confini netti perdono gran parte del loro reale significato per farsi labili e facilmente valicabili. Solo una ferma disciplina e una profonda sicurezza nelle proprie motivazioni possono impedire di sconfinare dalla parte sbagliata. Ma questo il cavaliere oscuro l’ha imparato a sue spese già da molto tempo.

Per concludere, “Batman: death mask” è un’opera perfetta per tutti gli appassionati di fumetti manga, per tutti i fan dell’uomo pipistrello, e per tutti quelli che vogliono leggere un fumetto senza il peso di settant’anni di storie precedenti ma che esprime perfettamente tutto quello che quelle storie hanno consolidato in tanto tempo.

domenica 19 aprile 2009

Le braci

Non so bene perché mi sia tornato in mente questo libro, letto ormai più di cinque anni fa. Ogni tanto mi capita di stare in piedi davanti alla mia libreria, scorrendo le dita sulle coste dei libri e dei fumetti, accarezzandoli leggermente, e prendendone qualcuno in mano, come per rivivere col tatto alcune emozioni che mi hanno trasmesso quando li ho letti. So che può sembrare una cosa stupida, ma a volte solo guardarli mi mette un senso di serenità, come se nella mia mente si proiettasse l’immagine di una vita futura dedicata alla tranquillità e al piacere della lettura. Tenendolo in mano, mi sono ricordato del messaggio di questo libro, della sua storia, delle sue emozioni. Emozioni che, forse, in questo frammento della vita, mi piacerebbe provare di persona, e che mi devo accontentare di leggere.

Le braci non sono altro che quello che resta di un fuoco, qualcosa che ha già perso la vitalità e la forza della fiamma viva, ma che ancora non si rassegna al silenzio della cenere. Le braci non fanno luce, ma non si abbandonano all’oscurità. Sono solo un chiarore che serve a ricordarti di qualcosa. Le braci sono la memoria. E proprio la memoria e il ricordo sono i protagonisti del romanzo, molto più di quanto non lo siano Henrik e Konrad. Due amici di quelli che forse solo nei libri si riesce a trovarli, divisi dall’amore per la stessa donna, Krisztina, la moglie di Henrik. Ci sono pochi modi per risolvere questo tipo di situazioni, e uno è quello che sceglie Konrad: la fuga. Incapace di sopportare quel miscuglio di amicizia e rivalità, il terzo incomodo lascia il campo, per rifugiarsi chissà dove. Ma i due sono destinati a rincontrarsi, dopo un attimo di silenzio durato quarantuno anni. Krisztina è morta, i sentimenti si sono assopiti, il fuoco della passione è diventato brace. Henrik e Konrad sono ormai dei superstiti, dei sopravvissuti della Grande guerra che ha devastato l’Europa, in cui sono scomparsi gli imperi, in cui si è perso lo splendore della Vienna di Francesco Giuseppe, degli Strauss e di Klimt. E si ritrovano, sull’orlo di un nuovo, devastante conflitto mondiale, l’uno di fronte all’altro, anche se solo idealmente e non fisicamente, a rendersi conto di quanto sono patetici e inadeguati i loro ricordi. Che senso può avere tenere ancora accese le braci di quei sentimenti e quelle emozioni che hanno infiammato i loro cuori più di quarant’anni fa? E il lungo monologo di Henrik si conclude, ancora una volta dopo tanto tempo, con delle domande, cui solo Konrad potrà trovare le risposte, se vorrà sollevare l’ultimo velo. Poi il Tempo proseguirà per la sua strada, lasciando i due protagonisti nella loro solitudine, a guardare le braci spegnersi nei loro cuori. Il Tempo, che alla fine si rivela essere l’unico vero vincitore.

mercoledì 15 aprile 2009

Battle royale

In occasione della ristampa di cui è da pochissimo uscito il primo volume, in questo post vi parlo dell’opera che ha fatto conoscere Masayuki Taguchi al grande pubblico occidentale. Confesso che, nell’ormai lontano maggio 2003, ad attirarmi di questo fumetto furono proprio i bellissimi disegni del mangaka di cui ho più volte parlato (in occasione di “Lives” e “Black Jack Neo”). Ho detto ‘confesso’ perché più volte, in questa e in altre sedi, mi sono battuto perché il fumetto non sia considerato solo come qualcosa di disegnato, ma una vera e propria opera molto sfaccettata, con contenuti e linguaggi suo propri. E ho sempre detto che dei disegni curati e ricchi, se non sono sostenuti da una sceneggiatura e da dialoghi di adeguato livello, risultano in un mero esercizio grafico, a volte strumentalizzato all’esaltazione dei disegnatori di talento. Quindi non bisognerebbe mai scartare un fumetto solo perché “non mi piacciono i disegni” (frase che sento ripetere in continuazione frequentando la fumetteria), così come non è una buona strategia quella di leggere solo le opere che abbiano disegni particolarmente curati. A mia discolpa posso però dire che, nel rispetto di queste piccole regole, anche quando la mia attenzione viene catturata dalla componente grafica, non mi fermo mai soltanto a questa. Proprio così è successo con “Battle royale”.

In un prossimo futuro, gran parte dell’Asia è retta da un governo totalitario. In questa situazione, anche l’educazione dei giovani è affidata a principi e strumenti molto ‘estremi’ e discutibili. Nelle scuole giapponesi, infatti, ogni anno si tiene una particolare competizione tra studenti chiamata “il programma”. Gli alunni di una classe, scelta a caso, vengono trasportati in un’isola dalla quale non è possibile uscire, e vengono sottoposti ad una prova di sopravvivenza. Ad ognuno viene dato un kit base, contenente dei viveri, carta, bussola e orologio, e un’arma a caso, dopodichè vengono fatti allontanare dall’edificio della direzione del programma. L’unico modo che gli studenti hanno per lasciare l’isola è uccidersi a vicenda, fino a che non ne rimarrà vivo uno solo, il quale sarà proclamato vincitore del gioco. Ovviamente è ammesso qualunque mezzo per raggiungere lo scopo, ma ci sono delle regole aggiuntive. L’isola è divisa in settori, e ogni ragazzo è dotato di un collare che ne permette di rilevare la posizione. In diversi momenti della giornata, il responsabile del gioco annuncia quali aree sono interdette ai giocatori, e se questi dovessero entrare in una di queste aree, i loro collari esploderebbero uccidendoli. Inoltre, ogni ventiquattro ore deve morire almeno uno dei concorrenti, altrimenti verranno uccisi tutti senza nessun vincitore. Così ha inizio la caccia.

La storia parte dal classico concetto che le situazioni estreme mettono in luce la reale natura delle persone, e ha il suo punto di forza nella grande varietà dei personaggi. La maggior parte di questi verrà infatti analizzata dal punto di vista personale, così come si vedranno momenti significativi del loro passato che hanno contribuito a creare la loro personalità attuale. Ovviamente ci troveremo davanti a ‘buoni’ e ‘cattivi’, sebbene una distinzione così netta risulta difficoltosa in una situazione come quella descritta. Alcuni dei ragazzi si ribelleranno al programma, rifiutandosi di uccidere i loro compagni e cercando, in maniera palese o attraverso sotterfugi, di fermare gli organizzatori e di scappare. Ma altri si troveranno molto a loro agio nella situazione, prendendo gusto al gioco e facendo di tutto, per le ragioni più disparate, per vincere, eliminando tutti quelli che fino al giorno prima erano i loro compagni di classe.

Sebbene il tema di fondo suoni un po’ come qualcosa di già visto, gli autori riescono a renderlo particolarmente interessante e avvincente, concentrandosi molto sulle dinamiche sociali di gruppo e sulla psicologia e la storia dei tanti personaggi, tutti a loro modo particolari e privi di banalità. Ovviamente non rivelo nulla di come evolverà la vicenda, per non togliere, a chi volesse cogliere l’occasione della ristampa, il piacere di scoprire pagina dopo pagina il destino dei ragazzi. Un occhio di riguardo (anche se questa considerazione potrà sembrare ripetitiva a chi ha già letto altri miei post) meritano i bellissimi disegni di Masayuki Taguchi, il quale si trova molto a suo agio con le anatomie, e che ci delizia con ambientazioni e particolari estremamente curati. Se ci si aggiunge il fatto che si tratta di una serie di soli quindici numeri, credo che questa ristampa sia un’occasione da non perdere per gustarsi l’opera, ormai difficilmente reperibile nell’edizione originale.

giovedì 9 aprile 2009

Io sono il Tenebroso

Se un libro ti dura meno di due giorni qualche motivo ci deve essere. Forse è perché, contrariamente a quanto succede di solito, quelli che ti stanno intorno sul treno sono silenziosi. Forse è perché ci sono dieci gradi e piove dalla mattina alla sera. Forse è perché c’è la stufa a legna accesa e i tuoi genitori hanno la felice idea di riposare il pomeriggio e uscire a cena fuori il sabato sera, permettendo a quel dannato aggeggio chiamato televisore di stare zitto per un po’. Certo, tutto questo contribuisce. Ma se il libro fa schifo, di tutto questo se ne frega. Se non ci tiene ad attirare la tua attenzione, non puoi farci niente. Ma quando, al contrario, il libro decide che ti deve coinvolgere, non hai scampo, non puoi fare a meno di leggerlo. Te ne freghi del fatto che tra cinque giorni hai un esame, o che domani sul treno non avrai niente da leggere, o che sono le due di notte. La stufa è ancora accesa e il libro vuole essere letto.

Un tizio per cui calza alla perfezione la definizione che il dizionario dà per ‘idiota’ spia per cinque giorni di fila due donne, e poi regala a ciascuna un vaso con una pianta. Il giorno dopo il regalo, ognuna delle due viene uccisa brutalmente. È stato lui, non c’è dubbio, la polizia ne è convinta. Ma Clement dice di essere innocente, e chiede aiuto all’unica persona che non l’ha mai chiamato imbecille: Marthe. Conosce un mucchio di gente, Marthe, anche le persone perfette per coprire e nascondere un presunto assassino. Ma nasconderlo non basta. Bisogna trovare quello vero. Bisogna trovare quello che ha telefonato a Clement dicendogli di spiare le donne, e lo ha pure pagato per farlo. Un mezzo tedesco che svolgeva indagini per il ministero degli interni e il cui attuale interesse consiste nell’ordinare scatole di scarpe e portarsi un rospo nella tasca della giacca sembra al persona perfetta per scoprirlo. Ammesso che sia disposto a credere alla storia dell’idiota. Ma un ex sbirro può non bastare per il lavoro (dimostrare alla polizia che due più due può non fare quattro). Molto meglio mettergli accanto qualcun altro, e tre storici spiantati, sul lastrico, senza famiglia, senza amori, complessivamente nella merda, sono la cosa migliore che si possa trovare. Comincia così la lunga marcia nei meandri di Parigi, della sua provincia, e di un passato pieno di misteri irrisolti che si vanno collegando uno alla volta, fino a che un piccolo segnale fa scoccare la scintilla nella mente di Marc, il Medievista, lo studioso dei contratti agrari del XIII secolo. D’altronde, farsi i fatti degli altri è quello che sa fare meglio. La brillantezza di Lucien, la calma di Mathias e la saggezza del padrino Vandoosler il Vecchio gli daranno certamente una mano, ma è la mente di Marc che alla fine riesce a trovare la vera forma della mosca che ronza nella zucca dell’assassino. Marc, che quando trova l’idea giusta, corre e va dritto al sodo, senza ripensamenti e senza deviazioni, è il suo lavoro, non importa che si tratti di contratti agrari o di assassini. Alla fine, si tratta sempre di trovare qualcosa di preciso in un mare di informazioni caotiche. Chi potrebbe farlo meglio di uno storico?

– Quella donna, – riprese Marc dopo alcuni minuti, – Julie Lacaize. È stata deliziosa con me. Ma mi sembra abbastanza normale, dato che le ho salvato la pelle.
– E allora?
– Allora niente. A essere sinceri, non ho avuto la sensazione che la cosa potesse aprirmi grandi prospettive.
– Bello mio, – disse Lucien senza interrompersi, – non puoi pretendere di fare atto di intelligenza e di coraggio e in più portarti a casa la ragazza.
– E perché no?
– Perché allora non sarebbe più un gesto eroico, sarebbe una farsa.
– Ah, ecco, – disse Marc a bassa voce. – Potendo scegliere, credo che avrei preferito la farsa.

giovedì 2 aprile 2009

Full Metal Panic? Fumoffu!





Fare uno spin-off è molto più complicato di quanto può sembrare. Intanto diciamo che per spin-off si intende un film o una serie che isola un personaggio o un argomento di un precedente film o una precedente serie e ne fa una storia più o meno indipendente. Per capirci, il film con protagonista Wolverine (di cui ho parlato in precedenza) che uscirà tra pochi mesi nelle sale può essere considerato uno spin-off della fortunata e ben condotta trilogia sugli X-Men. Come dicevo, uno spin-off è complicato da realizzare, perché a isolare qualcosa da un’opera che di per sé ha una sua continuità e unicità si corre il rischio di storpiarne il significato originale. Potrebbe capitare che certi aspetti caratteriali di un personaggio vengano trascurati o esaltati, cosa che lo renderebbe difforme dalla sua controparte originale. Inoltre, se parliamo di una serie, in genere abbiamo di fronte un’opera di una certa complessità, dove più motivi narrativi si intrecciano a creare la storia, e isolarne uno solo per svilupparlo separatamente potrebbe appiattirne la vicenda e renderla monotona e ripetitiva. Per fortuna, anzi, per abilità degli autori, tutto questo non è successo con “Full Metal Panic? Fumoffu!”.

Fumoffu è lo spin-off della serie anime “Full Metal Panic!”, di cui ho già parlato ampiamente in un post di qualche tempo fa, e volevo qui esaltare la qualità di questo suo fratello minore. Fumoffu parla dei protagonisti dell’opera originale, calati nel contesto della loro vita quotidiana di liceali, senza guerre, terroristi, missioni segrete e scontri armati. Sousuke, Kaname e gli altri non sono che semplici studenti dell’Istituto superiore Jindai, che vivono, o meglio dovrebbero vivere, i normali avvenimenti della vita dei liceali: gite scolastiche, lezioni, vendita dei panini, appuntamenti, lettere d’amore, incomprensioni e amicizie. E in effetti è proprio questo che succede nei corridoi del liceo Jindai e nei suoi dintorni. Ma quando si ha a che fare con Sousuke Sagara, niente può essere così semplice. L’aver vissuto praticamente tutta la vita nei campi di battaglia come mercenario, il far parte di un’organizzazione militare, l’avere il compito di proteggere Kaname, e la sua totale mancanza di esperienza nella vita di tutti i giorni lo rendono incapace di vedere la realtà per quello che è. Sousuke va in giro sempre armato, nell’eventualità che a scuola ci sia un attacco terroristico, se trova una lettera nella sua scarpiera, la prima cosa che pensa è che sia una trappola, e quindi la rimuove con una carica di esplosivo ad alto potenziale, se Kaname si allontana in spiaggia e tarda a ritornare, l’opzione più probabile è che abbia messo il piede su una mina. Il mondo del sergente Sagara è così, la sua mente non ha un filtro normale per la vita di tutti i giorni, pensa solo in maniera ‘militare’. E questo, ovviamente, causa grande imbarazzo e nervosismo a Kaname, che non è solo sua amica, ma anche capoclasse e vicepresidente del comitato studentesco, quindi si sente responsabile per i suoi comportamenti sconsiderati. Ma Kaname è tutt’altro che una ragazza indifesa, anzi il lato combattivo del suo carattere viene qui esaltato più che nella serie originale, in modo da allestire siparietti comici ad ogni scena, con lei che picchia selvaggiamente Sousuke ogni volta che lui ne combina una delle sue. Tuttavia è innegabile che la ragazza sia molto attratta dal giovane sergente, e anche questo aspetto è molto più palese qui che nell’opera madre, e nonostante le sue esagerazioni, i suoi metodi brutali e la sua goffaggine, non può non notare con piacere che tutto quello che Sousuke fa è fatto per aiutarla, per proteggerla. È vero che per lui è una missione, è vero che vede pericoli dove non ce ne sono, è vero che i suoi metodi sono quelli di un mercenario, ma le sue intenzioni sono sincere, e questo non può lasciare indifferente Kaname, che in cuor suo non può non sperare che un giorno quello ‘stupido sergente imbronciato che si crede sempre in guerra’ impari a distinguere le situazioni della vita di tutti i giorni e si trasformi in una persona alla quale è più facile stare accanto.

In “Full Metal Panic? Fumoffu!” tornano anche tutti i personaggi secondari della serie madre, Kurtz Weber, Melissa Mao, Teletta Testarossa e tutti i compagni di scuola di Kaname e Sousuke, e se ne aggiungono di nuovi, come il presidente del comitato studentesco Ayashimizu e la sua fedele assistente Mikyhara, che contribuiscono tutti ad arricchire le vicende di Kaname e Sousuke. Una serie nella quale si comincia a ridere al primo minuto del primo episodio e non si smette neanche dopo la fine dell’ultimo, che va vista e apprezzata per la sua grande capacità di far sorridere. Un’ultima curiosità. Il titolo “Fumoffu” prende origine dal verso di un pupazzo di peluche, Bontakun, che è la mascotte di un parco giochi, e che Sousuke utilizza dapprima solo come travestimento, ma che in seguito svilupperà come vera e propria arma da guerra camuffata. Come se non ci fosse già abbastanza roba per ridere!