lunedì 31 marzo 2008

In memoria 14 - I guardiani della porta

E a me disse: “Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’alla difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nuova,
che già l’usaro a men secreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.”

Inferno, canto VIII versi 121-126

mercoledì 26 marzo 2008

Il fascino del male - Il Joker

Nel mondo dei fumetti è il nemico per antonomasia, la manifestazione di tutto ciò che di malvagio si annida nella natura umana. È l’assassino che uccide divertendosi, che commette una strage solo per sperimentare una sostanza, che va sulla sedia elettrica col sorriso sulle labbra e poi impazzisce quando gli dicono che non ci saranno le telecamere per trasmettere la sua morte. Insomma: è il Joker.

Il Joker è un personaggio che la fa da padrone sulle storie di Batman fin dai tempi della sua creazione da parte di Bill Finger e Bob Kane ormai più di sessant’anni fa. E se è riuscito a farsi largo tra la miriade di personaggi malvagi che affollano le pagine delle storie dedicate al cavaliere oscuro, un motivo deve pur esserci. Senza nulla togliere a personaggi come Killer Croc, Faccia d’argilla, Catwoman, Poison Ivy e via dicendo, il Joker è tutta un’altra storia. Nessuno sa chi sia realmente, né l’esatta sequenza degli eventi che lo hanno trasformato nel criminale psicopatico che è. L’ipotesi più accreditata è che sia finito dentro ad una cisterna contenente una sostanza tossica che gli ha sbiancato la pelle, reso verdi i capelli, e deformato la faccia nel ghigno mefistofelico di cui ha fatto il suo biglietto da visita. Oltre, ovviamente, ad averlo reso completamente folle.
Nel corso di tanti anni di storie, il Joker ne ha fatte di cotte e di crude, passando da semplice criminale di alto livello, a terrorista senza scrupoli, a cervellotico inventore di piani criminali messi a punto al solo scopo di mettere alla prova il suo arcinemico Batman. Ma niente di tutto questo lo renderebbe diverso da altri malviventi. Per distinguersi veramente in una città corrotta come Gotham city, bisogna fare di meglio, bisogna colpire direttamente il suo difensore, l’unico che pur di fermare i criminali ha rinunciato alla sua vita per vestire un manto di terrore. Ed ecco due eventi fondamentali della vita del cavaliere oscuro, e della sua lotta contro il crimine, che vedono nel Joker il loro artefice: l’attentato a Barbara Gordon, la prima Batgirl e figlia del commissario omonimo, nel quale lei perderà l’uso delle gambe (“The killing Joke”), e l’omicidio efferato di Jason Todd, il secondo Robin (“Morte in famiglia”). Soprattutto quest’ultimo è un evento che getterà Batman in una profonda crisi, perché rappresenta il vero e unico fallimento dell’uomo pipistrello. La cosa sconvolgente è che queste azioni vengono vissute dal Joker come momenti di profonda esaltazione, quasi che, in preda ad una sorta di estasi mistica, si renda conto che l’unico scopo della sua esistenza sia riempire di sofferenza la vita di Batman. Paradigmatica in questo senso, è una sequenza della storia “Crimine di guerra”, in cui il criminale Maschera nera tortura e uccide Stephanie Brown, che di sua iniziativa aveva vestito i panni di Robin dopo l’abbandono di Tim Drake. Nella sequenza di cui parlo, il Joker scova Maschera nera e si accanisce contro di lui, e questo è il loro scambio di battute:


[Maschera nera]: Allora volevi solo me, Joker?
[Joker]: Proprio così!
[Maschera nera]: Perché?
[Joker]: Perché mi hai soffiato il lavoro, stupido.
[Maschera nera]: E da quando comandare la malavita di Gotham è...
[Joker]: No, non quel lavoro.
[Maschera nera]: Sei geloso perché sto distruggendo la vita di Batman? Che sfigato.
[Joker]: Oh, mascherina, mascherina nera... Si sa che tra tutti i lavori del mondo, quello che preferisco è uccidere Robin! Mi hai rovinato la vita quando hai ucciso Stephanie Brown... la più dolce, piccola Robin in cui potessi mai sperare! Non sapevi che quel lavoro è mio? E ora, per colpa tua, anche se ucciderò tantissimi Robin in futuro, me ne sarà sempre sfuggito uno.

Bastano queste poche battute per capire in quale dimensione disturbata viva questo individuo, e come sia del tutto separato dalla quotidiana vita criminale degli altri personaggi. Non è il desiderio di denaro, o di potere, o di vendetta, quello che lo spinge a compiere le sue azioni, ma il semplice, puro, genuino desiderio del male fine a se stesso. È questa logica e razionale coscienza della propria malvagità che rende il Joker il personaggio più affascinante tra quelli scelti per rappresentare il male. Il Joker non è un semplice nemico: è il nemico.

martedì 25 marzo 2008

In memoria 13 - Filippo Argenti degli Adimari

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un, pien di fango,
e disse: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?”
E io a lui: “S’io vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì s’è fatto brutto?”
Rispose: “Vedi che son un che piango.”
E io a lui: “Con piangere e con lutto,
spirito maledetto, ti rimani!
Ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto.”
Allora stese al legno ambo le mani;
per che il maestro accorto lo sospinse,
dicendo: “Via, costà, con gli altri cani!”
Lo collo poi con le braccia mi cinse,
baciommi il volto, e disse: “Alma sdegnosa,
benedetta colei che in te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furiosa.
Quanti si tengon or lassù gran regi,
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!”

Inferno, canto VIII versi 31-51

lunedì 24 marzo 2008

Il ritorno a casa di Enrico Metz

In quel periodo navigavo sul torrente di letture intimistiche, di viaggi nelle realtà di personaggi complessi, di storie intense e riflessive, poca azione e molti pensieri. Era il periodo di “Non ti muovere”, di “Labilità”, de “Il quinto esilio”. E “Il ritorno a casa di Enrico Metz” si inserisce a pieno titolo in questo filone. Quello che domina ogni pagina del romanzo è il tema della calma, del riposo. Ma non una calma o un riposo forzati, imposti, piuttosto desiderati e accolti.

Enrico Metz ha vissuto cinquant’anni a mille all’ora, a pieno regime, senza fermarsi. Al vertice di una delle più grosse aziende del paese, ha visto il mondo dal lato del successo, del denaro, del potere. Poi ha assistito al crac finanziario, e ha deciso di tirarsi fuori da quel mondo, e di tornare alla sua cittadina d’origine, costretto ad ammettere che le voci che sentiva da ragazzo erano vere, che chi è nato in quella città prima o poi ci ritorna, e che il tempo che trascorre lontano non è altro che un esilio passato a desiderare di tornare. Torna ad abitare nella vecchia casa di famiglia, riduce il suo lavoro a poche selezionate consulenze, riscopre i ritmi e i luoghi che erano nella sua memoria di ragazzo, ritrova alcuni amici. E con la saggezza che solo una certa età può regalare, riesce ad apprezzare quei momenti di calma, quel silenzio, quelle foglie che cadono nel parco. Ma in una confortevole e quasi desiderata solitudine psicologica, irrompe tutta una schiera di personaggi femminili, destinati a scandire le sue giornate. Ivana, una moglie distante che si riavvicina, Rita, segretaria, governante e a volte confidente, Eleonora, bellissima e sensuale figlia dell’amico Alberto. E lui è costretto a barcamenarsi tra l’affetto coniugale, il desiderio dell’amicizia, e l’infatuazione della giovinezza.

Allo stesso tempo però, altri personaggi turbano la sua quiete, stavolta in maniera più corale. Sono i piccoli protagonisti del teatrino della politica locale, che a lui, abituato a confrontarsi con persone di spessore ben maggiore a questo livello, non possono non sembrare goffi e quasi ridicoli nella loro foga di entrare nelle sue grazie. Ma le piccole città sono universi a parte, e un politicante qualunque in quel mondo è importante tanto quanto il re d’Inghilterra, anzi anche di più, visto che l’Inghilterra si trova fuori dalla città in questione. Così, Enrico Metz non può non scatenare sconcerto, inimicizia e sospetti quando rifiuta in maniera netta e decisa la proposta di far parte di quella realtà, ricoprendo una importante carica amministrativa. E come antidoto alle urla assordanti del mondo, Metz oppone una diversa percezione di sé, una rarefazione delle azioni e delle emozioni, che lo conduce serenamente ad una calma rassicurante.

Non c’è nulla di malinconico nel romanzo di Claudio Piersanti, né tanto meno di triste o di nichilista, ma piuttosto c’è un omaggio estremo e potente alla vita e alla bellezza, che non vanno solo contemplate ma, per quanto possibile, vissute.

giovedì 20 marzo 2008

In memoria 12 - La palude Stige - Iracondi

Noi ricidemmo il cerchio all’altra riva
sovra una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L’acqua era buia assai più che pensa:
e noi in compagnia dell’onde bigie
entrammo giù per una via diversa.
Una palude fa, che ha nome Stige,
questo tristo ruscel, quando è disceso
al piè delle maligne piagge grigie.
E io, che di mirar mi stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte e con sembiante offeso.
Questi si percotean, non pur con mano,
ma con la testa, col petto e co’ piedi,
troncandosi coi denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: “Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
ed anco vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, che s’aggira.”

Inferno, canto VII versi 100-120

martedì 18 marzo 2008

Deus ex machina

Se un giorno poteste incontrare il vostro creatore, che cosa gli direste?

Ho scelto questa storia per la seconda (e credo proprio anche ultima) volta in cui parlo di Animal Man, per la sua particolarità, che non ho ritrovato mai più in nessuna altra storia che ho letto fino ad ora. L’altra volta il personaggio mi era servito per parlare del tema dell’animalismo, mentre adesso voglio parlare solo della storia e del suo autore.

Senza alcun dubbio, Grant Morrison non ha tutte le rotelle al loro posto, anzi parecchie (per fortuna) devono girare in modo decisamente anomalo, viste le storie che scrive. Credo che “Deus ex machina” sia l’avvio di tutto un crescendo di situazioni psichedeliche sul quale si baseranno tutte le sue produzioni successive. Basta guardare cosa sono “Doom Patrol”, “The Invisibles”, “Flex Metallo”, “Seaguy”, e altre ancora, per capire che tutto ha inizio da qui.Ecco cosa succede.

Buddy Baker torna a casa, e trova la sua famiglia massacrata da un misterioso assassino. Raccoglie informazioni e uccide i colpevoli. Cerca un modo per far sì che l’omicidio dei suoi cari non accada, viaggiando nel tempo, ma fallisce. Alla fine, dopo un lungo viaggio verso dimensioni astratte, arriva ad una casa isolata e bussa alla porta. Chi gli apre è... Grant Morrison!
Ecco che la realtà e il fumetto si fondono, ma non in modo semplice come potrebbe sembrare. La realtà della storia raccontata dal fumetto si fonde con la realtà della vita vissuta dallo scrittore, e la situazione surreale in cui si trova il personaggio si fonde con i pensieri surreali dello scrittore. Senza contare che, di fatto, lo scrittore, che è persona reale, diventa personaggio del suo stesso fumetto, e Animal Man, personaggio inventato, diventa reale in quanto creato dallo scrittore. In fondo, il fumetto, così come i suoi due estremi, cioè il libro e il disegno, sono degli strumenti molto potenti dal punto di vista della creazione, nel senso che sono oggetti reali, fisici, con i quali si può creare qualcosa di irreale, dandogli concretezza. In sostanza, il personaggio di Animal Man è un soggetto astratto, ma le pagine del fumetto sono di vera carta e impregnate di vero inchiostro, sono tangibili, materiali, reali, e perciò esistono. Ed esistono anche i personaggi.

Buddy è confuso, ma si rende conto che la sua vita, tutta la sua esistenza presente e passata, è controllata, anzi creata da qualcun altro. Anche la morte della sua famiglia, il suo dolore e la sua sofferenza sono stati creati e scritti da Morrison. E come lo stesso autore dice, Animal Man è tutto ciò che lui decide che sia, perché l’autore, se lo vuole, può entrare nel mondo del personaggio, mentre il personaggio, anche volendo, non può entrare nel mondo dell’autore. Inoltre, raramente i personaggi sanno di essere creati dalla mente di qualcun altro, anzi, molto spesso, di più persone contemporaneamente:

[Animal Man]: Tutta questa roba. Il mondo intero. Sono solo... storie? Tu scrivi anche la Doom Patrol?
[Grant Morrison]: Sì, ma loro non lo sanno.
[Animal Man]: Tu scrivi tutto?
[Grant Morrison]: Non essere ridicolo! Se scrivessi tutto, non riuscirei a dormire. Scrivo solo un paio di fumetti e tu sei uno dei miei personaggi. Altri scrittori sono responsabili dei loro personaggi. Vivi in un mondo creato da un comitato. Qualcun altro scrive la tua vita quando sei con la Justice League. Non te ne eri accorto?
[Animal Man]: Beh, forse... Non mi sembra di fare mai niente di che quando sono con la Justice League.
Ecco un altro paradosso: non esiste in realtà un personaggio dei fumetti, ma tanti personaggi uguali solo nel nome, e qualche volta nell’aspetto. Non c’è un Batman, ma tanti Batman quanti sono i suoi scrittori, passati, presenti e futuri. Se io adesso prendessi un foglio bianco e una penna e scrivessi una storia di Batman, ecco che ci sarebbe un altro Batman. Potrebbe avere un costume rosso a pois, abitare nel bungalow di un villaggio vacanze e avere come unica missione quella di raccogliere ciottoli del peso esatto di centodiciassette grammi, ma sarebbe comunque Batman perché io l’ho creato così. Ecco la verità: tutto ciò che un personaggio è, è solo quello che il suo scrittore pensa di lui:

[Grant Morrison]: Qualcun altro scriverà la tua vita. [...] Potrebbero fare l’ovvio e cercare lo shock facendoti mangiare la carne. Non lo so.
[Animal Man]: Come possono costringermi a mangiare la carne? Io non mangio la carne! Io non voglio mangiare la carne! Io sono vegetariano!
[Grant Morrison]: No, io sono vegetariano. Tu sarai tutto ciò che verrà scritto.

In effetti, deve sembrare una condizione opprimente, quella del personaggio: sapere che la propria vita non è altro che la fantasia di qualcuno, che può decidere di farti agire come più gli aggrada. Che potrebbe persino farti diventare un violento, un assassino. Ma c’è un rovescio della medaglia, come spiega il Morrison personaggio: della storia si è certi di chi è l’artefice, ma della realtà?

[Animal Man]: Hai ucciso la mia famiglia! Hai rovinato tutto! Ti rendi conto di cosa mi hai fatto? [...] non è giusto.
[Grant Morrison]: No, non lo è. L’anno scorso è morta la mia gatta. [...] Si chiamava Jarmara. Neanche questo è stato giusto, ma io con chi mi lamento? Vedi, il tuo mondo è molto più semplice del nostro. Può essere invaso dagli alieni o subire catastrofi e non importa. Tutto torna come prima, come nuovo. Non ci sono problemi che non possono essere risolti da un idiota in calzamaglia. Quindi non venire a lamentarti con me di cosa è giusto e cosa non lo è.

In realtà, potrebbe essere così anche per noi. Potremmo essere i burattini nelle mani di qualcuno e non saperlo. Forse la mano che teneva la penna mentre scrivevo questo post, o le dita che adesso battono sui tasti, sono guidati dai fili invisibili di un grande burattinaio. Se esistesse un dio, noi non dovremmo essere altro che le sue bambole... In effetti, sarebbe comodo se fosse così: come Buddy, avremmo qualcuno con cui prendercela per le disgrazie che ci capitano.

Da piccoli ci insegnavano che Dio ha creato gli uomini ma li ha lasciati liberi di scegliere. Ma se questa libertà è un costrutto di Dio, allora non è anche questa una costrizione?

lunedì 17 marzo 2008

In memoria 11 - Avari e prodighi

Dissi: “Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fur cherci
questi chercuti alla sinistra nostra.”
Ed egli a me: “Tutti quanti fur guerci
sì della mente in la vita primaria,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vengono ai duo punti del cerchio,
ove colpa contraria li dispaia.
Questi fur cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soverchio.”

Inferno, canto VII versi 37-48

giovedì 13 marzo 2008

Lila, Lila

L’estate era agli sgoccioli, avevo già da un po’ ripreso in mano i libri di studio, ma il caldo e il fatto che non mi ero ancora ritrasferito a Palermo (le vacanze estive le passo a Cefalù) rendevano arduo ogni tentativo di concentrazione. Più che ogni altro periodo dell’anno, l’estate è dedicata alla lettura, è così fin da quando ero ragazzino (non che adesso sia proprio vecchio, ma insomma…), non ho mai aspettato l’estate per fare nottate in discoteca o per rimorchiare turiste norvegesi. Oddio, la seconda cosa non mi dispiacerebbe, ma visto che non sono quasi mai alla mia portata, preferisco dedicarmi a traguardi più raggiungibili. Andare a mare e leggere sono le due cose in cui spendo la gran parte del mio tempo libero estivo.

Ho letto “Lila, Lila” subito dopo “Eredi di un mondo lucente”, libro bellissimo, ma piuttosto impegnativo, di cui prima o poi parlerò. Per questo, “Lila, Lila” doveva essere un libro di svago, per spezzare l’impegno dello studio, ma, un po’ come è stato di recente con “Io sono di legno”, di cui ho già parlato, mi sono dovuto ricredere. In realtà, più che un ricredersi, il mio è stato un constatare. Mi spiego meglio. Avevo comprato “Lila, Lila” come tappabuchi, avevo fatto un po’ di spesa in libreria prima dell’estate, e decisi di prenderlo senza saperne niente, forse perché costava qualche euro meno di altri, forse perché fa parte di una collana che compro spesso e mi piace vederli tutti insieme sulla mensola, fatto sta che anche lui finì nel mucchio presentato alla cassa, per poi guadagnarsi un rispettabile posto nella mia casella mentale etichettata come ‘da leggere’. E infatti passarono circa due mesi da quando l’avevo comprato a quando l’ho aperto. Ma, pagina dopo pagina, la storia intessuta da Martin Suter mi coinvolgeva sempre di più, tanto che quello che doveva essere un libro ‘a lunga scadenza’ finì per durare pochi giorni, una decina al massimo.

David è un giovane barman che un giorno entra in possesso di un manoscritto che cambierà radicalmente la sua vita. Nel cassetto di un vecchio comodino c’è una copia scritta a macchina di un romanzo, che David comincia a leggere solo per svago e che ad un tratto avvolge completamente la sua vita. È una storia d’amore, come quella che lui desidera avere con Marie, e per averla è disposto a tutto, persino ad assumere una falsa identità, quella dello scrittore che ha scritto il romanzo. A poco a poco, David si trova trascinato in un vortice di menzogne che non avrebbe mai potuto immaginare. Quella che era cominciata come una bugia innocente finisce per trasformarsi in un disastro che sconvolgerà la sua vita e quella dell’amata.

Tutto giocato sul contrasto tra sentimenti e propositi positivi da un lato, e azioni negative o comunque discutibili dall’altro, il romanzo procede a ritmo incalzante, assumendo quasi i toni del giallo e dipanandosi tra amori, tradimenti e morte. Martin Suter tesse sapientemente una trama che ci mostra uno spaccato dell’amore nel XXI secolo, una galleria dolce-amara di ritratti di personaggi che potremmo essere benissimo noi stessi, rappresentando la menzogna come collante della nostra società. E chi sa cosa vuol dire desiderare qualcuno al punto di fingersi qualcun altro per conquistarlo, non potrà non commuoversi a leggere la storia di questo moderno antieroe, sempre in bilico tra un ricatto e una bugia, ma comunque molto, molto umano.

mercoledì 12 marzo 2008

In memoria 10 - Cerbero

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, la barba unta ed atra,
e il ventre largo, ed unghiate le mani;
graffia gli spiriti, ed iscuoia ed isquarta,
urlar li fa la pioggia come cani.

Inferno, canto VI versi 13-19

lunedì 10 marzo 2008

Nel nome del porco

È un giallo. C’è il cadavere, c’è l’assassino, c’è il poliziotto, e tutto finisce come al solito, giusto? Sbagliato. Non c’è niente di tutto questo nel romanzo di Pablo Tusset, o meglio, questi elementi ci sono, ma non sono che un contorno al vero dramma che va in scena nella Spagna contemporanea, ma che estende le sue propaggini fino a New York.

Lungi da me il voler sembrare offensivo, ma sul titolo mi devo soffermare, perché è quello che mi ha colpito e mi ha spinto a comprare il libro. È chiaro a tutti che il riferimento è alla formula rituale che è il principale invito alla preghiera della religione cattolica: ‘Nel nome del padre’ qui diventa ‘Nel nome del porco’, ma non c’è il minimo intento blasfemo in questo. La frase è semplicemente quella che l’assassino lascia in un biglietto sul cadavere della vittima, e non c’è poi tutto questo mistero su chi sia il colpevole di quel delitto raccapricciante, visto che fin dal principio le indagini e l’intuito del commissario portano nella direzione giusta. Tutto sommato, c’è ben poco del classico poliziesco in questa storia. Il miglior parallelismo è invece, per quel poco che posso sapere, con un grande romanzo più legato al filone horror che al giallo, ma che a sua volta è atipico come horror. Sto parlando de “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Robert Luis Stevenson. Nel romanzo di Tusset, il dottor Jekyll è Tomas, o meglio T, come viene chiamato in alcuni capitoli. Ma T è anche P, ossia Pedro, l’identità che assumerà per infiltrarsi nel paesino di San Juan de Horlà, dove è avvenuto l’omicidio, per svolgere indagini in incognito. Si costruisce così una meravigliosa galleria di personaggi, a volte delicati come la Suzanne di New York (chiamata non a caso ‘il paradiso’ nei vari capitoli), a volte grotteschi e violenti come gli abitanti di San Juan (che diventa ‘l’inferno’). E in questa galleria si muove T/P, costantemente in bilico tra questi due lati del suo essere, ognuno pronto a dare il meglio di sé, nel bene e nel male, fino ad un finale sconvolgente, che riprende un po’ quello del romanzo di Stevenson, solo che stavolta la soluzione del dottr Jekyll alla follia di Hyde potrebbe non essere risolutiva, soprattutto perché un grosso dubbio rimane, al personaggio come al lettore: chi, tra T e P, è Jekyll, e chi Hyde?

Tra il paradiso e l’inferno c’è ‘la Terra’, vale a dire lo spazio in cui vivono il commissario capo Pujol, mentore e sorta di padre adottivo per T, e sua moglie Mercedes, anche loro investiti da una tragedia. Una tragedia come ne succedono ogni giorno a chissà quanti di noi, e di cui nessuno sa mai niente, perché un cadavere di donna squartato in un macello fa notizia, un incidente stradale in cui muore un uomo che lascia una donna con tutte le sue speranze di una nuova vita ridotte in frantumi non interessa a nessuno. Forse è proprio questa la vicenda più tragica e commovente di tutto il romanzo, non l’omicidio, non la violenza, l’odio o il cinismo di luoghi come il paradiso o l’inferno, ma la costante, quotidiana indifferenza che va in scena in tutto quello che tra questi due luoghi sta in mezzo.

giovedì 6 marzo 2008

In memoria 9 - Paolo e Francesca

“Amor, che al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende.
Amor, che a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi vita ci spense.”
Queste parole da lor ci fur porte.
[...]
“Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto, e come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci sospinse
quella lettura e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il desiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò, tutto tremante.
Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse!
Quel giorno più non vi leggemmo avante.”

Inferno, canto V versi 100-108 e 127-138

martedì 4 marzo 2008

La stagione delle nebbie

Secondo appuntamento con la saga di Sandman scritta da Neil Gaiman (il primo era stato “Calliope”). È la volta di quella che a mio parere è la migliore storia di tutta la saga, la bella tra le belle, vale a dire “La stagione delle nebbie”. Una storia meravigliosa ma allo stesso tempo cattiva con chi la legge. Riprendo le parole di Harlan Ellison, dall’introduzione all’opera:

“Perfezione. Eccellenza. Che amante appassionata. Ma una volta che si sono provate le labbra dell’eccellenza, una volta che ci si è donati alla perfezione, quanto diventano cupe e gravose e insulse le proprie ore di veglia imprigionate nelle pastoie della piatta normalità, dell’ordinaria mediocrità, della sufficienza stentata”.

Aggiungere qualcosa a quanto scritto dall’autore di cinquantotto libri che è listato nella Enciclopedia nazionale svedese sarebbe da parte mia offensivo, così come è troppo facile dire adesso che anch’io ho provato le stesse sensazioni leggendo questa storia. Eppure è la verità. Poche altre volte mi è rimasto l’amaro in bocca quando avevo finito di leggere qualcosa come in questa occasione.

“La stagione delle nebbie” è la storia di una riunione, di un viaggio, di un lascito, di una cerimonia, di un verdetto. Ma, insieme a tutto questo, è un meraviglioso caleidoscopio di immagini.
Prima immagine: nel giardino di Destino, il luogo di tutto ciò che è, è sempre stato e sempre sarà, si manifestano le tre dame grigie con una profezia.
Seconda immagine: Destino riunisce la famiglia nella sua fortezza. Si presentano tutti tranne uno: Morte, Sogno, Desiderio, Disperazione, Delirio. Solo Distruzione manca all’appello. Lo scopo della riunione è la riunione stessa. Nel libro di Destino è scritto che gli Eterni si ritroveranno nel suo salone, in quel momento, e così è perché così deve essere.
Terza immagine: Sogno torna all’Inferno, in cui regna Lucifero, che tempo prima aveva giurato a Sogno che l’avrebbe distrutto. Lucifero è stanco, e conduce Sogno per tutti i luoghi dell’Inferno, serrandone le porte, per poi consegnargliene l’unica chiave. L’Inferno non ha più un re.
Quarta immagine: in molti reclamano il diritto di avere l’Inferno per sé. Dei e Demoni di ogni razza e natura lo desiderano, avanzando diritti o appellandosi alla bontà di Sogno. Perché l’Inferno deve avere un re, non si può permettere ai peccatori morti di tornare sulla terra. Due emissari del regno dei Cieli, gli angeli Ramiel e Duma, assisteranno all’udienza che Sogno concederà, ad ogni rappresentante, nel suo regno, il Sogno, il regno di tutto ciò che non è, non è mai stato né mai sarà.
Quinta immagine: il significato dell’Inferno e la scelta di Sogno.

Per mezzo di questa galleria, Gaiman ci conduce attraverso le rappresentazioni dell’intera cosmologia umana. Ogni dio creato dalla mente dell’uomo in ogni epoca storica, così come ogni desiderio e speranza che alberga nei sogni, tutto trova spazio nella storia che si sviluppa una pagina dopo l’altra a ritmo incalzante. Molto belle a questo proposito sono le proposte che le diverse divinità fanno a Sogno per avere in cambio il dominio dell’Inferno. E altrettanto interessante è la concezione di questo luogo che viene data per bocca dei due angeli testimoni dell’udienza per conto del regno dei Cieli. Vedendoli come metafore, Inferno e Paradiso non sono altro che le manifestazioni di Male e Bene, e si capisce qui come l’uno sia necessario all’altro per il suo stesso essere. Così come ha un valore la mesta contemplazione del divino che fanno gli angeli, allo stesso modo ha valore l’accanimento dei demoni nel torturare i dannati.

Un’antologia del mistico con interludi carichi di umanità, come il dialogo tra Sogno e Morte, visti solo come fratello e sorella e non come Eterni, e il confronto tra Sogno e Nada, la donna da lui amata che non si volle sottomettere e fu maledetta da lui a diecimila anni di tormenti infernali. Storia di dei, quindi, e di esseri sovrannaturali, che in tutto e per tutto condividono l’essenza dell’umano.

lunedì 3 marzo 2008

In memoria 8 - Minosse

Stavvi Minòs orribilmente e ringhia,
esamina le colpe nell’entrata,
giudica e manda secondo che avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
gli vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor delle peccata
vede qual loco d’inferno è da essa:
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte,
vanno a vicenda, ciascuna a giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
“O tu che vieni al doloroso ospizio”,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto uffizio;
“Guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza dell’entrare!”
E il duca mio a lui: “Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.”

Inferno, canto V versi 4-24

sabato 1 marzo 2008

Questo libro ti salverà la vita

Mi sembra ovvio: a colpirmi è stato il titolo. La scelta di un titolo è forse la cosa più difficile nel definire un romanzo: deve poter racchiudere in due, tre, quattro parole al massimo tutta l’essenza di centinaia di pagine. Trovare il titolo giusto credo sia un’arte dentro l’arte, la sublimazione della potenza della scrivere. Un secondo colpo, contemporaneo al primo, mi è arrivato anche dalla copertina, che, salvo l’immagine, mi riportava alla mente il bianco de “Il giovane Golden” di Salinger, che avevo letto parecchi anni fa e che mi era piaciuto tanto. Anche allora a colpirmi era stato quel bianco, e in questo caso, all’assenza del colore quasi totale, si sommava quella sorta di messaggio subliminale che il titolo inviava al mio cervello intontito dal caldo di luglio.

Richard Novack è un uomo arrivato. Ricco, indipendente, divorziato con un figlio lontano, felicemente solo. Le uniche persone che gli stanno intorno, e di cui sente il bisogno, sono il personal trainer, la nutrizionista e la governante. Non va in ufficio, gestisce il suo lavoro dal computer di casa, mangia solo le striminzite porzioni che gli vengono preparate, e guarda dalla finestra la donna dal costume rosso che ogni giorno nuota nella piscina della villa accanto alla sua. Fuori c’è Los Angeles, surreale, caotica, esclusiva, eccentrica. Sembra che ad una persona comune sia vietato vivere nella città degli angeli, tra terremoti, incendi, smottamenti.Tutto questo fino a ieri. Perché ieri è successo qualcosa che ha estirpato Richard dal suo mondo, per scaraventarlo in uno nuovo e assurdo, popolato da filosofeggianti gestori di fast food, attori di grande successo che abitano nella villetta accanto, casalinghe disperate, medici opportunisti, grandi scrittori carismatici che vivono praticamente nell’anonimato, cavalli caduti in un cratere nel giardino di casa. Richard è confuso, non c’è spazio nella sua mente per tutti questi strani tasselli di esistenza che continuano ad andare fuori posto creando disordine nella sua vita. Ma la cosa più perturbante di tutte è il suo desiderio, a lui stesso inconcepibile, di riallacciare i rapporti col figlio abbandonato, che vive con la madre a New York, e con il quale non sarà per niente facile avere a che fare. Perché Ben ha un’identità complessa tutta da scoprire, e la mancanza della figura paterna negli anni passati non lo ha certo aiutato in questo senso. Ma in fondo, un padre è sempre un padre. Giusto?

Come scrive Stephen King in quarta di copertina, “Questa storia coraggiosa di un uomo perduto a se stesso che si riaggancia al mondo potrebbe diventare una pietra miliare generazionale [...]. C’è molto ottimismo nel romanzo, ma la tonalità asciutta della Homes fa sì che non suoni fasullo come un biglietto d’auguri. E a questo contribuisce l’atmosfera del romanzo che è quella della stravagante Los Angeles del ventunesimo secolo. E poi, chissà, forse davvero salverà la vita a qualcuno...”. Se lo dice un maestro come King, non posso che essere d’accordo.