mercoledì 29 settembre 2010

Una stagione selvaggia

Eccoci dunque alla prima avventura che vede come protagonisti Hap Collins e Leonard Pine, i due sgangherati amici che abbiamo conosciuto in “Mucho mojo”. In effetti, “Una stagione selvaggia” è il primo dei romanzi che Joe R. Lansdale ha scritto con loro come protagonisti, e si colloca subito prima di “Mucho mojo”, tanto che in quest’ultimo si potevano leggere parecchi riferimenti alla loro prima avventura, che certamente è una di quelle storie che lasciano il segno. Motivo per cui consiglierei a chi volesse leggere per la prima volta qualcosa di questo autore, di cominciare proprio con questo romanzo, che certamente rappresenta il punto d’inizio ideale per imparare a conoscere i nostri (anti)eroi.

Come ho detto la volta scorsa, Hap e Leonard non potrebbero essere più diversi, ad una prima occhiata, ma in realtà condividono molti aspetti della loro vita, cosa che li ha uniti al punto che considerarli semplici amici sarebbe riduttivo. Nelle loro vite ai margini di tutto, del benessere ma senza cadere nella disperazione, della legalità ma senza cadere nella delinquenza, e via dicendo, arriva quel qualcosa che sempre è stato e sempre sarà capace di far perdere la bussola: uno schianto di donna. Trudy è l’ex moglie di Hap, una che si innamora facilmente degli uomini, ma che se ne stanca con altrettanta facilità, e che sa benissimo come persuadere un maschio a fare quello che vuole. Tutti tranne Leonard, ovviamente, che in quanto omosessuale sa come rendersi immune al fascino femminile, e sente puzza di manipolazione lontano un miglio quando Trudy, dopo essere stata lontana per anni ed aver sposato un altro, misteriosamente ritorna a cercare Hap. E la puzza diventa ancora più forte quando lei chiede l’aiuto di Hap promettendogli dei soldi facili facili. Un bel po’ di soldi facili facili. E sebbene Hap sa benissimo quanto Trudy sappia essere manipolatrice, l’idea di tirare su un po’ di grana per sé e per Leonard non gli dispiace per niente. Ma le cose sono ovviamente destinate a complicarsi. Come, lo lascio scoprire a chi vorrà leggere il romanzo.

Un romanzo che, al di là della storia d’azione e dei continui colpi di scena, ha il grande pregio di farci conoscere dei personaggi davvero vivi e sfaccettati. Bellissimo è in questo senso il ritratto che ne viene fuori dell’amicizia tra Hap e Leonard, pronti a prendersi in giro e ad insultarsi a vicenda alla prima occasione, ma anche capaci di una lealtà e uno spirito di sacrificio l’uno nei confronti dell’altro che chiunque invidierebbe. Altrettanto bello il diverso vissuto generazionale, con Leonard ex combattente in Vietnam e Hap che si è fatto diciotto mesi di carcere per aver rifiutato di prestare servizio militare. Abbiamo quindi nella storia uno spaccato di America dagli anni Sessanta ad oggi, con tutte le sue contraddizioni e i suoi ideali o pseudo tali. E abbiamo anche un po’ di sesso, qualche birra, proiettili, risse e un bel malloppo in fondo a un fiume. Se non è un’offerta speciale questa, ditemi voi!

Dio, com’era bella Trudy. Giovane da far paura, un prototipo di Eva. Aveva lunghi capelli biondi ondulati che scendevano fino alla vita e occhi così verdi e luminosi da sembrare soprannaturali. Portava pendenti d’argento scintillanti. Indossava una camicetta bianca annodata, una minigonna di jeans e zoccoli di legno. Sotto la camicetta si vedevano la pancia piatta e abbronzata e un meraviglioso ombelico, e dalla minigonna spuntavano gambe come quelle che Dio avrebbe dato alla sua donna.

giovedì 16 settembre 2010

Il mistero di Dio

Finalmente vede la luce la ristampa di questa graphic novel della Vertigo, la linea che si potrebbe definire ‘impegnata’ della DC Comics. Una storia partorita dalla mente del visionario Grant Morrison e impressa su carta dal meraviglioso disegnatore (ma definirlo così è riduttivo) John J. Muth, una storia che per le sue qualità narrative è considerata una delle più ambiziose tra quelle dell’autore scozzese.

Nella tranquilla, monotona e piccolo borghese cittadina di Townely va in scena una rappresentazione teatrale di alcuni episodi della Bibbia, ma durante la prima serata, la Genesi, l’attore che interpreta Dio viene ucciso. Inizia così un’indagine che dovrà necessariamente portare a un colpevole, perché una comunità così per bene non può accettare che al suo interno si nasconda un assassino. Di questa indagine viene incaricato uno strano detective di città, taciturno, sospettoso, che va in giro sempre intabarrato in un impermeabile nero. Un detective convinto che questo non sia un normale delitto di paese, alla base del quale ci possono essere soldi, o corna, o delinquenza varia. Il detective Carpenter è convinto che la componente simbolica giochi un ruolo fondamentale in questa storia, e il suo compito deve essere non solo quello di trovare tutti i pezzi del puzzle, ma anche di metterli insieme e di trovare infine la giusta distanza da cui guardare il disegno finale. Qualcuno ha ucciso Dio. Non è una cosa che succede tutti i giorni. E nella tranquilla, monotona e piccolo borghese cittadina di Townely, più di una persona ha qualche macchia nel proprio passato. A cominciare dal detective Carpenter.

Ancora una volta, Grant Morrison dà prova di sapersi muovere alla perfezione in un mondo fatto di follia e simbolismo, dove tutte le ossessioni dell’uomo (forse, le sue ossessioni?) prendono forma e sostanza, al punto che il quadro d’insieme cambia in continuazione a seconda di quale sia il paio d’occhi che lo sta guardando in quel momento. Un viaggio onirico e intimista in alcuni passaggi, crudelmente reale in altri, scandito meravigliosamente dalle tavole ad acquerello di Muth, che ci regala un vero e proprio quadro ad ogni pagina. E non sperate troppo intensamente di scoprire chi ha ucciso Dio. Mai fidarsi di uno scrittore, mente per mestiere.

venerdì 10 settembre 2010

The Lady and the Reaper

Nel mio lavoro capita di aver a che fare con questa entità, che nell’immaginario comune è associata a quanto di peggio possa esistere. Devo dire che questo mi rammarica un po’, perché mi rendo conto che ancora oggi, con tutta la nostra evoluzione e il nostro progresso, non riusciamo a scostarci da idee radicate nelle zone più profonde della nostra mente. Ancora oggi, non ho mai avuto occasione di sentire qualcuno che parli di una ‘bella morte’. Con sottile ironia e con una impostazione francamente parodistica, questo cortometraggio di matrice spagnola a mio giudizio si propone proprio questo: rivalutare l’idea di questa entità dalla quale tutti fuggiamo, e familiarizzare con il concetto che dovremmo preoccuparci di vivere e morire bene, piuttosto che semplicemente di allungare la sopravvivenza.