martedì 24 marzo 2009

Tre cavalli

L’avevo comprato per l’unico motivo per cui copro i romanzi in versione economica: fare conto paro. Poi qualche settimana fa ho visto Erri De Luca intervistato a “Che tempo che fa”. Non lo conoscevo, mai visto né sentito parlare, prima. Mai letto niente. L’intervista mi è piaciuta, soprattutto la parte sulla Bibbia. A quanto pare, quando si alza al mattino, legge la Bibbia in ebraico antico. Dice che è una sua esigenza di risveglio, ha bisogno di svegliarsi “in ebraico antico e con caffé napoletano”. È molto bella l’immagine di una persona che si alza in un lingua. Come se quella lingua possa servire come prima interfaccia tra il mondo del sonno e quello della veglia. Mi è piaciuto perché anche io, sebbene non proprio sempre, ho bisogno di svegliarmi in un certo modo. Niente di così intellettuale come Erri De Luca, ma ognuno è fatto a modo suo. Sentendo quell’intervista, mi è venuta voglia di leggere l’unico libro che ho di questo autore, che a quanto pare è piuttosto famoso, ma che io non conoscevo.

A quanto dice il titolo (e pare che sia vero), tutto il mondo è diviso in tre. E anche la vita di un uomo è divisa in tre. Tre anni una siepe, tre siepi un cane, tre cani un cavallo, tre cavalli un uomo. Qui si raccontano i primi due cavali di un uomo, lui stesso li racconta, a se stesso, a chi lo circonda, a noi che lo leggiamo. Non ci sono verbi al passato, per lui, tutto è qui e ora, anche quello che era da qualche altra parte e prima. L’altra parte è quel triangolo rettangolo di terra che si chiama Argentina, e in Argentina un italiano ci va per tanti motivi. Lui ci è andato per amore, ed è finito a combattere la dittatura quando gli hanno ucciso la ragazza. Una guerriglia clandestina fatta di toccate (poche) e fughe (molte). L’ultima di queste lo porta fino al corno più a sud del paese, e qui scopre una grande verità: il sud è il cappello, non le scarpe, del mondo. Devi appendere una cartina al contrario per capire veramente il mondo. Ma il presente dell’Argentina, della guerra e della morte, lascia il posto al presente del giardiniere, della poesia, dei libri usati. Di parole senza articoli, senza preposizioni. Parole che colgono il significato puro della realtà. Una per tutte è amore. Amore di oggi, Laila, gli fa ricordare amore di ieri, in Argentina, ed è bello e triste allo stesso tempo vedere come si accartocciano i ricordi nella mente di un giardiniere. Un extracomunitario che vive vendendo mazzetti di mimose gli insegna cos’è l’onestà, la gratitudine e il dovere. Glielo insegna (o forse solo ricorda) nel modo peggiore possibile. Ma io non sono riuscito a non ammirarlo. Con una macchia su un marciapiede, muore il secondo cavallo. Il primo era morto su una nave che partiva dall’Argentina. Come e dove morirà il terzo, nemmeno il più saggio può dirlo.

Vado per il campo con un nuovo alberello di melo da piantare.
Lo metto giù, lo giro, guardo i suoi rami appena accennati tentare posto nello spazio intorno.
Un albero ha bisogno di due cose: sostanza sotto terra e bellezza fuori. Sono creature concrete ma spinte da una forza di eleganza. Bellezza necessaria a loro è vento, luce, uccelli, grilli, formiche e un traguardo di stelle verso cui puntare la formula dei rami.
La macchina che negli alberi spinge linfa in alto è bellezza, perché solo la bellezza in natura contraddice la gravità.
Senza bellezza l’albero non vuole. Perciò mi fermo in un punto del campo e chiedo: “Qui vuoi?”.
Non mi aspetto una risposta, un segno nel pugno in cui tengo il suo tronco, però mi piace dire una parola all’albero. Lui sente i bordi, gli orizzonti e cerca un punto esatto per sorgere.
Un albero ascolta comete, pianeti, ammassi e sciami. Sente le tempeste sul sole e le cicale addosso con la stessa premura di vegliare. Un albero è alleanza tra il vicino è il perfetto lontano.
Se viene da un vivaio e deve attecchire in suolo sconosciuto, è confuso come un ragazzo di campagna al primo giorno di fabbrica. Così lo porto a spasso prima di scavargli il posto.

martedì 17 marzo 2009

Black Jack Neo

Contrariamente a quanto avviene nel mondo letterario, cinematografico e delle serie televisive, in quello del fumetto è raro trovare opere che abbiano come argomento la medicina. Soprattutto negli ultimi anni, e soprattutto in televisione, infatti, si è assistito a una vera e propria invasione di storie che hanno come protagonisti i medici e il loro mondo, sia lavorativo che personale, i quali tra l’altro quasi di regola si intrecciano a doppio filo. Invece, nel panorama dei fumetti, le storie di questo tipo rappresentano rarissime eccezioni. “Black Jack” è una di queste.

Mi sono sempre chiesto, facendo parte di questo mondo, come mai la medicina susciti tanto interesse. Molti pensano che sia perché il nostro è un lavoro che prevede un contatto con il lato umano molto profondo. In realtà non credo sia questo. In fondo, anche gli avvocati che gestiscono le liti ce l’hanno, o i nostri insegnanti a scuola, così come, anche se indirettamente, gli architetti che progettano le nostre case e i palazzi dove lavoriamo, o gli ingegneri delle autostrade su cui viaggiamo. Forse la risposta sta nel fatto che i medici si trovano a confrontarsi con una dimensione umana che raramente, e mai serenamente, viene condivisa: quella del dolore. Il dolore di una persona è il suo universo privato, e nessuno dovrebbe entrarci se non invitato. Credo quindi che sia la particolare relazione che deve instaurarsi tra i medici e tutti gli altri a suscitare l’interesse e la curiosità di chi legge o guarda, così come le situazioni particolari con cui i medici si confrontano.

“Black Jack Neo” è una miniserie manga in due volumi che si configura come rielaborazione e omaggio alla precedente e ben più corposa serie “Black Jack” di Osamu Tezuka. Purtroppo, pur avendone sentito parlare, non ho mai avuto il piacere di leggere quella serie, da tempo conclusa, anche se è una di quelle cose che andrebbero recuperate in quanto costituiscono un classico della letteratura a fumetti. Ma la miniserie da poco pubblicata (realizzata graficamente da quel Masayuki Taguchi già disegnatore di “Battle royale” e autore della miniserie “Lives!” di cui ho parlato in precedenza) risulta godibilissima e molto interessante anche nella sua brevità.

Il dottor Black Jack è un medico, ma un medico molto diverso dagli altri. Lo si potrebbe definire un dio della medicina, un chirurgo per cui quasi niente è impossibile. La sua non è solo una manualità fuori dall’ordinario, che gli consente operazioni ai limiti del sovrannaturale, ma una vera e propria arte. Ricercato in tutto il mondo per le sue prestazioni, chiede compensi esorbitanti per la sua opera, sebbene effettuata senza alcuna licenza, ma non è per nulla avido, visto che, quando lo ritiene opportuno, interviene anche gratuitamente. Il denaro gli serve per mantenere in efficienza il luogo dove lavora, una sala operatoria attrezzata con tutte le più moderne tecnologie nei sotterranei della sua casa. Ma c’è molto di più in questo personaggio taciturno ed enigmatico. Per lui, la conoscenza delle persone che ha di fronte, della loro storia personale e familiare, delle loro paure e delle loro speranze, è fondamentale tanto quanto e forse più di una diagnosi corretta o di una perfetta sutura. I due volumi contengono storie tutte molto belle e intense, ma quella che a mio parere è la migliore è “Una pepita d’oro”, in cui emergono con forza e passione tutte le sfaccettature del personaggio, dal contatto con i pazienti alle motivazioni che lo spingono, dalle sue tariffe milionarie al suo rifiuto per le autorità mediche ufficiali.

Nelle storie c’è spazio anche per qualche scena ironica, come la presenza della piccola Pinoko (sebbene la sua origine sia tutt’altro che comica), e per una quantità enorme di citazioni di opere storiche del fumetto giapponese, tutte dettagliatamente riportate in calce ai volumi. Infine, un cenno particolare meritano i sempre più curati disegni di Taguchi, che dalla qualità già molto alta di “Battle royale” ha spiccato il volo in queste ultime miniserie (“Lives!” e “Black Jack Neo”, appunto) verso soluzioni grafiche di livello eccezionale. Una lettura che consiglio a tutti coloro che conoscono i manga e a tutti coloro che vorrebbero conoscerli e non sanno da cosa cominciare.

venerdì 13 marzo 2009

Sostiene Pereira

L’avevo letto nel 1996, due anni dopo la sua pubblicazione, me lo ricordo perché la prima volta me lo prestò la professoressa di storia che ho avuto al primo anno di liceo, sul finire dell’anno scolastico, da leggere nelle vacanze. Una settimana dopo glielo avevo già restituito, ma questo è poco importante. Ovviamente, l’avevo comprato per me alla prima occasione, senza neanche aprirlo se non per firmarlo e datarlo, come faccio con tutti i miei libri. Però le fredde giornate d’inverno passate in una casa in campagna sono l’ideale per leggere, quindi, quando finisci un libro che ti sei portato appresso, e ne cominci un altro che ti dura un giorno scarso, l’unica cosa che ti resta da fare per passare un pomeriggio prima di prendere il treno è ficcare il naso nella libreria secondaria e ripescare qualcosa. Il romanzo che ha fatto conoscere Antonio Tabucchi al grande pubblico mi è sembrato perfetto. Tra l’altro, ricordo perfettamente anche le immagini del film tratto dal romanzo, visto al cinema quando uscì, con un Marcello Mastroianni ingrassato e invecchiato, ma straordinario come sempre nelle sue interpretazioni.

Un verbale giudiziario, forse una denuncia, anche una specie di testamento ideologico, quello che un ignoto scrivano raccoglie dalle parole del dottor Pereira. Siamo in Portogallo, nell’agosto del 1938. Paese strano, il Portogallo, a guardare la carta geografica lo si direbbe uno dei più liberi, da qui sono partite decine di esploratori che nel Cinquecento hanno ridisegnato la carta del mondo, proteso sull’Atlantico a guardare con fare quasi beffardo quelle Americhe di cui conosceva l’esistenza ancora prima che qualcuno la inventasse, una caravella. Eppure, forse, è anche uno dei paesi più prigionieri che esistano. L’oceano può offrire all’uomo grandi speranze, ma può anche diventare la grata di una invisibile prigione, che ti impedisce qualunque contatto con il resto del mondo, a meno che non accetti di passare per quell’unica, stretta porta che ti fa rimanere attaccato all’Europa e che si chiama Spagna. Ma in Spagna, nell’agosto del ’38, si fanno le prove generali, sono due decenni che l’Europa si prepara, almeno alcuni paesi, mentre gli altri sonnecchiano pigramente incapaci di vedere al di là del loro naso. E al Portogallo piace far parte dell’elenco dei forti, almeno a parole, e quindi niente simpatie per Francia e Inghilterra, lodi alla Germania e all’Italia, sguardo interessato ai movimenti del Caudillo e soprattutto nessuno spazio per i sovversivi. Pereira è vecchio, grasso, stanco e cardiopatico, trascina la sua vita tranquilla tra una omelette alle erbe aromatiche, una limonata, qualche riga scritta a macchina e una conversazione col ritratto della sua defunta moglie. Pereira è tranquillo, ne ha avute abbastanza di emozioni in trent’anni di cronaca nera, ora per il suo cuore malato l’ideale è la pagina culturale di un giornale del pomeriggio, cattolico e apartitico, per quanto possa esserlo un giornale in un regime totalitario. Ma ben poco, nella vita dell’uomo, è fatto per durare. Un giovane aspirante giornalista e la sua ragazza irrompono nella sua vita, turbandola e scuotendola intimamente. Pereira resiste, a parole, alle strane idee che i due giovani manifestano, più o meno esplicitamente, ma ne fatti non può fare a meno di lasciarsi coinvolgere. Quello che succede possiamo immaginarlo. A un certo punto qualcuno bussa, entra, si parla, si insulta, si picchia, e alla fine vincono loro. È sempre così, in un regime. A quelli che restano, si aprono ben poche strade. Se sei un vecchio giornalista cardiopatico, una sola: andartene. Ma non in silenzio, Pereira sa che ha passato fin troppo tempo in silenzio, l’ultima parola deve essere la sua, non quella del suo direttore, o peggio ancora della polizia politica. Così, si mette alla macchina, e scrive. Denuncia. Il romanzo non ci dice che cosa ne è stato di quella denuncia, quali effetti ha avuto (se ne ha avuti), lo lascia alla nostra immaginazione. Tanto, Pereira è già in Francia, la Francia che ha tanto amato nei suoi romanzieri dell’Ottocento, quella Francia che, da lì a pochi mesi, sarà calpestata dallo stivale con la croce uncinata. Ma se c’è un significato nel verbale di Pereira, è che chiunque può rialzarsi da sotto il tacco di uno stivale.

Gli chiuse quegli occhi chiari spalancati e gli coprì il volto con l’asciugamano. Poi gli distese le gambe, per non lasciarlo così rattrappito, gli distese le gambe come devono essere distese le gambe di un morto. E pensò che doveva fare presto, molto presto, ormai non c’era più tanto tempo, sostiene Pereira.

domenica 8 marzo 2009

La principessa e l'antiquario

Libro piuttosto vecchio, che mi sono ritrovato in casa, forse proveniente da quella di mio nonno, forse da qualche scatolone dove stavano altri libri dei miei genitori, non saprei dire. I miei libri, cioè quelli comprati e letti da me, stanno tutti nella libreria, con un loro ordine, forse imperscrutabile e noto a me soltanto. Nessuno sa perché alcuni stiano insieme per casa editrice, altri per autore, altri ancora per genere. Questo stava nel gruppo del ‘chi se ne frega di quello che c’è accanto’, vale a dire un gruppo in cui ci trovi tutto e niente, messi lì solo perché esistono e non saprei dove altro metterli. Chissà perché, con diversi altri libri in attesa di essere letti, ho scelto questo che stava lì da non so più quanto tempo.

Strane storie, quelle che si intrecciano in questo romanzo, accomunate prevalentemente da quella che viene definita ‘passione antiquariale’. Cos’è la passione antiquariale? Un desiderio, una strana forma d’amore, che nasce non si sa da dove, per l’arte morta. Come dice uno dei personaggi del romanzo, “studiamo l’arte morta perché c’è qualcosa che va morendo in noi e trascina con sé ogni residuo entusiasmo”. La vicenda prende vita da una raccolta di fogli trovata da uno studioso di antichità in un angolo dello scaffale di una biblioteca, e da lui trafugata senza permesso in preda ad un’attrazione quasi sovrannaturale. In queste carte sparse e ambigue, si ripercorre un frammento della storia di Hugo, giovane studente di origini baltiche che trascorre un’estate nella Roma di fine Settecento. È un periodo e un ambiente particolare, in cui le eco delle rivoluzioni di Francia e delle idee dell’Illuminismo si scontrano con le monumentali antichità della città eterna e con le attività e le trame della corte papale, che ben lontana dall’occuparsi delle cose dello spirito, non disdegna interessarsi a vicende ben più terrene. Il viaggio di Hugo non è solo un viaggio di studio in una città che offre alla passione antiquaria forse il più fecondo terreno di lavoro e apprendimento. Una sconosciuta ‘Eccellenza’ del suo paese lo ha spinto a quel viaggio alla ricerca di una figlia, la principessa Marianne, andata in sposa ad un principe romano e di cui da tempo non si hanno più notizie. Così Hugo, con la scusa dello studio e della sua missione di ricerca, si lascia investire da quella violenta ondata di emozioni che Roma gli rovescia contro ogni giorno, turbando allo stesso tempo la sua mente dedita allo studio delle antichità quanto alle vicende della variegata popolazione romana, e i suoi sensi, forse ancora troppo poco maturi e vulnerabili alle esperienze ambigue e perturbanti che uomini e donne di quella città gli offrono o gli negano.

Un romanzo che diventa quindi la storia di una ricerca, continuamente differita e intralciata non solo da truffe, intrighi, sospetti, pericoli, tentazioni e distrazioni carnali, ma soprattutto da una sorta di incantesimo oscuro che ne amministra il meccanismo e ne ritarda gli esiti. Tuttavia si giungerà a svelare il segreto della scomparsa della bella principessa, un segreto che si intravede, si intuisce, per accenni, premonizioni e confidenze. Dimensioni oniriche e romantiche si fondono con gli aspetti reali della Roma architettonica e artistica, guidando il giovane Hugo, l’antiquario che ne legge gli scritti, e noi stessi che leggiamo la storia, attraverso un dedalo di estetica ed emozioni, fino al loro centro più profondo in cui, al dissolversi degli stessi incantesimi che le avevano generate, si rivela finalmente la realtà del presente.

giovedì 5 marzo 2009

Abraxas e il Terrestre

Anche chi non l’ha letto, ne avrà certamente sentito parlare, dato che è uno dei romanzi più famosi della letteratura mondiale. Sto parlando di “Moby Dick” di Herman Melville, di cui nel tempo le riedizioni illustrate, animate e cinematografiche sono state tante da non potersi contare. L’ho letto parecchi anni fa, ma ne ricordo ancora bene alcune scene cardine. Chi pensa che sia solo un libro di avventure per ragazzi si sbaglia di grosso. È opinione unanime dei critici letterari che l’opera di Melville sia una metafora del comportamento umano, in particolare di quell’aspetto tutto proprio della nostra razza che va sotto il nome di ossessione. La balena bianca è quel qualcosa di angosciosamente irraggiungibile cui tutti tendono nella vita, chi più chi meno, e che arriva a dominare la mente dell’uomo al punto che ogni altro pensiero passa in secondo piano. Perché sto parlando tanto di “Moby Dick”? Perché questo fumetto, interamente scritto e disegnato da Rick Veitch, ne è una brillante reinterpretazione contemporanea. Ma se fosse solo questo magari non ne avrei parlato. È ovvio che c’è di più.

Il giovane Isaac, scienziato che studia il verso delle balene come forma di comunicazione, viene rapito da una sorta di astronave a forma di albero, guidata da strani individui che dell’essere umano hanno poco o niente. In breve, Isaac scopre che si tratta di una nave il cui equipaggio va a caccia di balene, solo che questa nave e queste balene non si trovano in un comune oceano, ma nello spazio. Tutta la vita del mare come la conosciamo è riportata alla dimensione spaziale. Ci sono porti, attracchi, cantieri, taverne, marinai e storie. Ma c’è anche qualcosa di diverso. Degli strani medici (chirurghi, per essere precisi) chiamati Xlexu, che hanno l’aspetto di enormi mantidi verdi, hanno la capacità di modificare gli esseri viventi facendo acquisire loro proprietà straordinarie. Isaac è stato rapito perché i chirurghi Xlexu lo modifichino sfruttando le sue doti di ascoltatore del canto delle balene. Questo perché lo scopo del capitano è quello di trovare e uccidere Abraxas, una gigantesca balena rossa con due corni ai lati della testa. Ma nel destino di Isaac c’è di più che diventare un brutale strumento di caccia nelle mani del capitano. Secondo un piano ordito dagli Xlexu, Isaac è il prescelto per arrivare ad un nuovo stadio evolutivo, in cui l’anima, e non il corpo, acquisisce rilevanza nella determinazione dell’esistenza dell’essere vivente. L’anima di Isaac dovrà entrare in contatto e fondersi con Abraxas, per liberare finalmente la sua vera potenzialità e aiutarlo a condurre le anime di tutti coloro che lo meritano verso la fusione con altre balene, preservandone la specie e salvandole da un destino di annullamento.

Nell’opera di Veitch troviamo quindi tutti gli elementi classici di Moby Dick, sia figurativi che concettuali, ma c’è anche qualcosa di più. Al motivo della ricerca ossessiva del mostro da uccidere e a quella della denuncia di una pratica violenta come la caccia alle balene, Veitch aggiunge il tema dell’evoluzione umana. Tema che forse gli è caro più di ogni altro, dato che è anche uno dei principali della graphic novel “The One”. Qui, invece che all’evoluzione di un’intera razza, come avevamo visto in “The One”, assistiamo all’evoluzione di singoli individui, guidati da un essere che, attraverso diverse fasi, fisiche e metafisiche, raggiunge la completezza dell’essere e si dimostra pronto a guidare i suoi simili meritevoli nel suo stesso nuovo paradiso.

Un romanzo ricco di significati, questo, non privo di aspetti comici (penso alle due aliene ninfomani!) e romantici (come l’attrazione sentimentale tra Falco e Sfinge), ma che sostanzialmente ci propone il tema del viaggio e della ricerca non come qualcosa di fisico ma in una dimensione metafisica e interiore. Se siete stanchi di scazzottate e turpiloquio gratuiti, o di perdervi nei meandri di continuty ormai praticamente senza significato, “Abraxas e il Terrestre” è un fumetto che vi consiglio, magari potrebbe risvegliare una passione sopita per la letteratura disegnata.

domenica 1 marzo 2009

Chi è morto alzi la mano

Alcuni scrittori sono dei maestri nel creare personaggi. Personaggi che diventano persone nella mente di chi ne legge le avventure. Persone come se ne possono incontrare agli angoli delle strade, nei bar, sui treni. Persone che hanno facce, vestiti, modi di camminare, di parlare. Altri invece creano mondi meravigliosi. Che siano mondi reali di una città esistente, o di un campo di battaglia, o che siano luoghi totalmente astratti e partoriti dalla fantasia, poco importa. La loro arte sta nel far sì che chi legge si immerga in quel mondo fino a credere di esserne diventato parte. Ma ce ne sono alcuni che riescono a fare di più. Sono pochi, ma quando ne conosci uno, non puoi fare a meno di leggere tutto quello che scrive, aspetti con ansia il nuovo libro e quando lo vedi in libreria e non puoi comprarlo ti viene una rabbia incredibile. Almeno, a me succede proprio questo. Questi scrittori sono quelli capaci di creare un mondo, e di metterci dentro le persone. Sembra un concetto banale, ma potrei dire che per me loro creano una Storia (con la ‘S’ maiuscola). Molti scrivono, alcuni sono banali, altri si perdono nei meandri della loro stessa narrazione. Alcuni parlano di roba come l’economia mondiale, le amanti dei politici, i gusti culinari degli attori. Non che questi argomenti non abbiano un loro valore, e chi ha interesse è giusto che possa leggerne. Per me uno scrittore deve creare la Storia. Non una storia. Creare la Storia significa creare un mondo, che può essere anche solo una strada di una grande capitale europea dove c’è una casa che per le sue condizioni da tutti i residenti viene chiamata ‘la topaia’. E significa anche creare le persone che devono vivere quel mondo, pascolarlo, alterarlo, manipolarlo, costruirlo, violentarlo, osservarlo, accarezzarlo. Possono essere grandi eroi, persone di livello sociale affermato, uomini di scienza, ma possono benissimo essere quattro uomini nella merda. Loro stessi si definiscono così, perché è così che Fred Vargas li ha creati, ed è così che vivono.

È Marc che mette insieme il gruppo, perché quando sei nella merda c’è una sola cosa che puoi fare. Nella merda non si nuota, come pensano alcuni, non si muore e non si vive: nella merda si scivola. E se devi scivolare, tanto vale farlo insieme a qualcun altro, anche se il più delle volte non lo sopporti. Marc è uno storico, studia il Medioevo. Chi poteva cercare per stare con lui e dividere una casa di cui non può permettersi l’affitto da solo, anche se la chiamano la topaia? Altri due storici, ovvio. Mathias è il cacciatore-raccoglitore, lo storico dell’età arcaica, quando gli uomini cominciarono ad organizzarsi socialmente. Per lui, tutto quello che succede dopo il 500.000 a. C. è di nessuna importanza. Lucien è un contemporaneista, ossessionato dalla Grande guerra, quella del ’14 – ’18, che domina ogni aspetto della sua vita, dal modo di fare, a come passa il tempo libero, al linguaggio. Per lui le case vicine sono il fronte orientale e quello occidentale. L’ultimo è Vandoosler il Vecchio, il padrino di Marc, che di storia non ne capisce molto. Un ex sbirro, cacciato dalla polizia per essere un corrotto. Ma uno che lo sbirro lo sa fare davvero. I quattro vanno a vivere insieme nella topaia. Al piano terra c’è il refettorio, il magma. Al primo c’è Mathias, la preistoria, al secondo Marc, il Medioevo, al terzo Lucien, l’età contemporanea e la Grande guerra, il sottotetto è per Vandoosler il Vecchio, il presente, la decadenza. Queste sono le persone della storia. Ma non sono i soli, ci sono anche tutti gli altri, una vicina che gestisce un ristorante, una cantante lirica che scompare misteriosamente, il marito di lei che ha un’amante, una nipote che è venuta a trovarla e non si convince della sua partenza improvvisa ed inspiegata, un giovane faggio spuntato dal nulla nel giardino di lei, un ispettore di polizia un po’ lento ma resistente. Purtroppo la polizia può non bastare per certe cose, soprattutto se un vecchio ex sbirro decide di pilotarla come meglio crede, per passare il tempo e vedere quello che succede. Per certe cose, ci vogliono tre storici. In fondo, il loro lavoro è ficcare il naso nei fatti degli altri. Osservare, raccogliere, cacciare, memorizzare. Niente sfugge all’occhio e all’orecchio di uno storico, figurarsi tre. Se i poliziotti indagassero sui loro casi come Marc sa fare sul Medioevo, al mondo non ci sarebbero più criminali! E quando Marc parte, va dritto alla conclusione, bisogna solo metterlo in moto. Certo, per avere in mano tutti i pezzi, un cacciatore-raccoglitore e un contemporaneista sono l’ideale. E Vandoosler il Vecchio avrà certo di che passare il tempo e vedere quello che succede.

Giunto in vista di rue Chasle, Vandoosler si fermò a considerare compiaciuto quella nuova zona della sua esistenza. Come ci era arrivato? Una serie di coincidenze. Quando ci rifletteva, la sua vita gli sembrava un tessuto coerente, anche se fatto d’ispirazioni disordinate, sensibili alla fugacità del presente e di nessuna tenuta sul lungo periodo. Di grandi idee, di progetti fondamentali ne aveva avuti eccome. Ma non ne aveva portato a compimento nessuno. Non uno. Aveva sempre visto le sue più ferree risoluzioni soccombere alla prima sollecitazione, le sue promesse più sincere sfilacciarsi alla minima occasione, le sue parole più vibranti dissolversi nella realtà. Non c’erano santi. Vandoosler ci aveva fatto l’abitudine e quasi non se la prendeva più. Basta esserne consapevoli. Efficace e a volte perfino eroico nell’istante, sulla media durata si sapeva sconfitto in partenza.