venerdì 23 gennaio 2009

Una morte in famiglia

È una storia che ha rappresentato un punto di svolta epocale, se non per l’intero panorama del fumetto, certamente per le storie che riguardano Batman. Fino a non molto tempo prima infatti, sebbene le storie potessero tingersi di colori foschi e atmosfere gotiche, c’era sempre una sorta di lieto fine, una conclusione in cui l’eroe risultava una figura positiva che si opponeva al male e immancabilmente lo sconfiggeva. Poi qualcosa cambia. La seconda metà degli anni Ottanta è un periodo particolare per il fumetto americano, che conosce forse la sua più grande evoluzione concettuale. Fino ad allora, infatti, le storie dei supereroi erano sempre state considerate come un passatempo, e dedicate ad un pubblico prevalentemente adolescente. A metà anni Ottanta, autori come Frank Miller, che propone un Batman invecchiato e in piena crisi esistenziale, e soprattutto Alan Moore, che con il suo “Watchmen” demolisce il concetto di supereroe come era conosciuto fino ad allora, cambiano il fumetto dei supereroi. Non più avventure spassionate per ragazzi, dove immancabilmente i buoni vincono e alla fine tutti sorridono, ma storie e personaggi tormentati da problemi e dubbi uguali a quelli della vita di tutti i giorni, esasperati però dalle vicende ben oltre la normalità in cui si trovano coinvolti. I buoni smettono di vincere sempre, smettono di essere infallibili, a volte smettono perfino di essere così buoni come erano prima.

Nel 1988 esce “The killing Joke”, partorita dalla mente di Alan Moore (sempre lui), la storia che segna la prima grande sconfitta di Batman. Il Joker, evaso da Arkham, spara a Barbara Gordon, figlia del commissario e aiutante di Batman nei panni di Batgirl, e la rende paraplegica. Batman comincia a farsi delle domande strane. Si chiede se non sarebbe stato meglio aver ucciso il Joker in una delle tante occasioni che ha avuto. Pensieri piuttosto inconsueti, per un paladino della giustizia. Meno di un anno dopo, le cose prendono una piega ancora più tragica. Jim Starlin e Jim Aparo creano “Una morte in famiglia”, miniserie destinata a segnare un punto nodale nelle storie del Cavaliere oscuro. Ancora una volta, il Joker si accanisce contro uno dei partner di Batman, il giovane Jason Todd, che dall’abbandono di Dick Grayson veste i panni di Robin. Le sorti della vicenda vengono però in questo caso stabilite non dagli autori, ma dai lettori. Infatti la DC aveva lanciato l’iniziativa che fossero i lettori a decidere, tramite il loro voto, se il giovane Robin nel finale della storia si sarebbe salvato o se sarebbe morto. E il pubblico, forse stanco dei lieto fine che la facevano da padrone da anni, scelse morte. Jason Todd viene massacrato dal Joker a colpi di spranga, per poi morire in un’esplosione per aver scelto di difendere la ritrovata madre.

Detta così potrebbe sembrare banale, ma la vicenda va analizzata a fondo, per capire bene la psicologia dei personaggi. La separazione da Dick Grayson, il primo Robin, e il modo in cui era avvenuta, avevano lasciato un segno profondo nell’anima di Batman. Così, quando gli si presentò davanti un giovane disagiato che sopravviveva rubando ruote di macchine, colse l’occasione per farne il nuovo Robin. E in effetti Jason era bravo, dotato di intelligenza e qualità atletiche almeno pari a quelle di Dick. Purtroppo però, la morte violenta dei genitori e la difficile infanzia l’avevano reso un giovane pieno di rabbia e presunzione. Combattere il crimine per lui era solo un gioco e un’occasione in cui sfogare le sue emozioni nascoste. Un uomo acuto come Batman avrebbe dovuto accorgersene. Ma forse in quella situazione l’eroe non era molto diverso dal proverbiale cieco che non vuol vedere, e si convinse che la disciplina e l’addestramento avrebbero prima o poi mitigato il carattere irruente del ragazzo. Purtroppo però le cose andarono diversamente, al punto che, durante una missione, Robin si sentì abbastanza sicuro di sé da ignorare l’ordine di Batman di non affrontare il Joker da solo. Il risultato fu che, mentre l’eroe sventava una minaccia nucleare, il ragazzo veniva massacrato dal folle pagliaccio.

Da quel momento in poi, nulla sarà più lo stesso per l’uomo pipistrello. Il peso di aver mandato al macello un giovane che aveva preso sotto la sua ala protettrice lo tormenterà per il resto della sua vita, e ancora oggi, dopo vent’anni, nelle storie attuali si può ancora ritrovare il dolore per il più grande fallimento della sua vita da eroe. Con “Una morte in famiglia” si sancisce definitivamente il concetto che era stato anticipato in embrione da “The killing Joke”: i buoni non vincono sempre. Anche un eroe come Batman può conoscere l’amarezza del fallimento e non ci può essere fallimento più grande per un padre di non essere in grado di proteggere il proprio figlio. Anche se di fatto non c’era nessun legame di sangue con Jason Todd, la ferita scavata dalla sua morte nel cuore di Bruce Wayne sarà destinata a non rimarginarsi mai.

lunedì 19 gennaio 2009

City

Di recente ho pochi soldi da spendere, meno del solito, perché ne sto mettendo da parte un po’ per una certa cosa. E con il fatto che i fumetti escono ogni mese e vanno presi per non avere buchi nelle collezioni, quelli che ho dovuto tagliare sono stati giocoforza i libri. Infatti, in queste appena trascorse vacanze natalizie, ho accuratamente evitato di fare la mia spesa pre-festiva in libreria. Per questo motivo, trovandomi nella per me quanto mai insolita situazione di non avere libri da leggere, ho finito per rovistare nella libreria di secondo livello, a casa a Cefalù. Infatti, tutti i libri a cui sono legato li tengo nella libreria di Palermo, insieme ai fumetti, mentre a Cefalù ci sono buona parte dei libri dei miei genitori (tranne alcuni che ho io), e che sono quasi tutti regali o libri usciti in allegato ai quotidiani. Tra questi libri, che sono comunque molti meno dei miei, ne ho isolati tre o quattro che avrei potuto leggere, e questo è stato il primo ad essere aperto.

Avevo sentito parlare spesso di Baricco, ma non avevo mai letto niente di suo. Le opinioni che avevo sentito lo ritraevano come uno dei migliori scrittori italiani attivi per il momento. Forse era stato questo a determinare in me una sorta di ritrosia nei suoi confronti. A me piacciono gli autori di cui non si dice molto, anche se magari in un ambiente strettamente letterario sono nomi importanti. Mi piace scoprire il valore dietro un nome che per me è sconosciuto, e poco importa se ogni tanto prendo qualche fregatura, in fondo le si prendono anche con gli autori più blasonati. Certo, non credo di poter esprimere un giudizio completo basandomi su un solo libro, ma ad essere sincero, questo è un libro che, una volta finito, non mi ha fatto provare nessun desiderio di rileggerlo, in futuro.

Gould è un ragazzino particolare. Un genio, sotto certi punti di vista, probabilmente niente, sotto tutti gli altri. Shatzy è una ragazza particolare, soprattutto nel modo di intendere la vita. Poi ci sono tutti gli altri. Come dice lui stesso nell’introduzione, Baricco ha voluto costruire una città (da questo il titolo), i cui i quartieri sono le storie che si avvicendano e le cui strade sono i personaggi. Alcuni sono reali, altri no, alcuni sono del nostro tempo, altri no. Gould è un genio, ma chi dice che un genio sa tutto, si sbaglia, e di grosso. In genere, un genio sa tutto di una cosa, la conosce ancor prima che esista, la utilizza ancor prima di averla tra le mani e per fare qualsiasi cosa. Un genio del cacciavite saprebbe usarlo anche per cuocere la pasta. Guold è un genio di questo tipo. La matematica, le formule e le probabilità non hanno segreti per lui. Riesce a calcolare quante mance riceverà un cameriere in una giornata a seconda del tempo che fa, dell’umidità, del giorno della settimana, del colore della pelle dei clienti, con un’approssimazione massima del diciotto percento. E si esercita per migliorare. Ma non ha nient’altro. O meglio, tutto il resto di quello che ha, è solo nella sua mente. Radiocronache di incontri di boxe, partite di calcio, due amici (un gigante e un muto che non potendo dire qualcosa, nondice qualcosa!). tutto nella sua mente. Shatzy è forse l’esatto opposto. Non sapendo niente molto bene, riesce a cogliere tutto. L’intera realtà che si dipana davanti ai suoi occhi viene recepita e fissata nelle sue sfaccettature più importanti, e questo non vuol dire che i grandi eventi siano più importanti di quelli piccoli. Per lei, il miglior elogio funebre che riesce a pensare è “Shatzy Shell. Niente a che vedere con quello della benzina”. L’incontro tra il mondo di Shatzy e quello di Gould potrebbe essere un caso o parte di un disegno predeterminato, un successo o un fallimento. Chissà, forse entrambi scopriranno dall’altro come si fa a stare al mondo.

Come ho detto, non lo rileggerei. Non perché sia un libro brutto, anzi, ci sono alcune storie (quartieri) molto interessanti e complesse, come quella delle cronache della boxe, o la storia del western che dovrebbero scrivere Shatzy. Però, non so perché, questa storia mi ha dato la sensazione di non essere pienamente sentita dal suo autore, ho paura che sia stato più che altro un semplice esercizio letterario. Voleva vedere se riusciva a scrivere una storia così. C’è riuscito. Se avesse fatto sentire di più la sua anima tra quelle parole, forse ci sarebbe riuscito meglio.

giovedì 15 gennaio 2009

Le donne dei comics - Black Canary

Dinah Lance è sempre stata una dura. È normale quando cresci con una madre supereroina. In effetti, la storia di Black Canary è un po’ complicata. L’originale Black Canary, Dinah Drake, venne chiamata nella Lega della Giustizia d’America per sostituire niente meno che Wonder Woman, come principale membro femminile, e in effetti fu all’altezza di quel compito. Per una serie di eventi troppo complicata da spiegare, che riguarda la maxisaga “Crisi sulle terre infinite” del 1985, il ruolo di Black Canary venne ricoperto dalla figlia di Dinah Drake, Dinah Lance, addestrata dai membri della Società della Giustizia d’America. Ed è proprio lei che attualmente veste i panni dell’eroina. A differenza della madre, che doveva cavarsela con le sue sole forze, la figlia ha ricevuto in dono una potentissima arma: un urlo sonico che investe tutto quello su cui viene rivolto con micidiali onde d’urto. Ma sebbene il modello di confronto per la giovane Dinah fosse di alto livello (la prima Black Canary era stata un elemento portante della JLA), la ragazza si rivela all’altezza, conquistandosi con valore la fiducia degli altri membri della comunità di supereroi dell’universo DC.

Ma Dinah Lance non è solo una supereroina, ma soprattutto una donna. Bellissima (ma questo non è una novità tra le donne dei fumetti), non fa nulla per nascondere il suo aspetto, anzi lo mette in risalto indossando uniformi attillate che comprendono calze a rete e stivaletti di pelle con tacchi alti. Niente di strano quindi che gli uomini le muoiano dietro, in particolare Freccia verde, innamorato di lei da molto tempo, ma capace di rovinare tutto con le sue manie da playboy. Eppure, si presenta una svolta nella vita della ragazza: un Freccia verde maturato e coscienzioso le chiede di sposarlo. Purtroppo, Dinah ha alcune cose a cui pensare, prima tra tutte Sin. Una bambina che ha sottratto alle mani di una donna che la addestrava per farla diventare la leader della Lega degli Assassini, e che cerca in tutti i modi di uscire da un’infanzia vissuta nel segno della violenza. E forse proprio Sin sarà la chiave per risvegliare in Dinah quell’istinto materno che ogni donna dovrebbe avere, e che in lei ha sempre fatto a pugni con la sua voglia di libertà e indipendenza. Per lei, la parola ‘sistemarsi’ rappresentava l’orrore puro. Ma ora, chissà, forse Sin potrebbe essere la ragione per dire di sì. Non resta che leggere il volume “Black Canary” in cui è raccolta la miniserie “Vivere con Sin”, per sapere che cosa succederà nella vita dell’uccellino e godersi i bellissimi disegni di Paulo Siqueira, che con la figura sensuale di Dinah si trova perfettamente a suo agio, regalandoci tavole degne dei più grandi maestri.

domenica 11 gennaio 2009

Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore...



Proprio così. Anzi, non sembra: lo sento ancora. Vi sembrerà strano, detto da un ateo convinto, ma io credo nella vita eterna e nel paradiso. Un paradiso particolare, creato da ognuno di noi e popolato da tutti quelli che per noi non moriranno mai. Nel mio paradiso, Fabrizio de Andrè ha un posto d’onore, e con lui ci sono tutte le sue creature. Una corte di persone, non solo personaggi, in cui nessuno ha una sedia più alta di un altro. Gesù è seduto e chiacchiera con una prostituta, Babbo Natale violenta una ragazza, Carlo Martello scambia due parole con un becchino, e centinaia di altri, tutti insieme e tutti, inesorabilmente, unici.

Chi è Fabrizio de Andrè? L’hanno definito in molti modi, poeta, cantautore, anarchico, sognatore. L’hanno schedato, censurato, sequestrato. L’hanno cercato, applaudito, amato. Eppure credo che nessuno sappia veramente chi è. Io meno di chiunque altro. Posso dire quello che è per me. Ero piccolo, davvero molto piccolo, quando cominciai a sentire le sue canzoni. Negli anni si sono aggiunti consapevolezza e interesse, ma la passione, l’attrazione, è rimasta quella di quel bambino che ascoltava rapito le sue creature parlare con la sua voce. Forse il modo migliore in cui posso definirlo è cercatore. Per tutta la vita, non ha fatto altro che cercare. Ma cosa? Cercava la solidarietà nell’ipocrisia della società? Cercava l’amore nel degrado e nel disprezzo umano? Cercava l’umano nella divinità? Cercava il rispetto nell’emarginazione? Sì, sicuramente c’era tutto questo. Ma non solo questo. Fabrizio cercava la vita nella vita. Cercava l’uomo nell’uomo. Cercava il sogno nel sogno. Cercava la natura nella natura. E li ha trovati tutti. Avrebbe potuto tenerseli per sé, invece ce li ha regalati.

Conosco tutte le sue canzoni a memoria, e costantemente mi risuonano nelle orecchie frasi come “Tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”, o “Mi spiega che penso e bevimmo ‘occafé”. Non c’è altro modo di ricordare Fabrizio, se non con le parole delle sue creature. Per questo mi è piaciuta molto l’idea di Sergio Algozzino, fumettista palermitano, che per commemorarne la morte fa parlare i suoi personaggi in una storia senza troppe pretese. Non vuole spiegarci il mondo o la vita, ci ricorda soltanto l’inutilità del parlarsi addosso. Ci fa capire che spesso il silenzio è il miglior tributo, la migliore orazione. Un silenzio in cui risuonano le sue melodie, e dove ognuno di noi può ricordarlo come vuole. L’11 gennaio 1999 è solo un numero su una pagina del calendario, così come lo è quello di oggi, 11 gennaio 2009. Nessuno conta i giorni di un’amicizia, o di un amore. L’11 gennaio di dieci anni fa non è successo niente, non è finito proprio niente. Fabrizio è vivo insieme a noi. Ed è stato proprio lui a insegnarmi che “l’inferno esiste solo per chi ne ha paura”.

mercoledì 7 gennaio 2009

"...non fu altri che un uomo"

Un uomo, solo questo e niente di più. Ma, forse, l’unico uomo nella storia che ha cambiato il mondo. O almeno, che ci ha provato. Purtroppo le cose buone si disgregano facilmente, poco di quello che viene fatto viene fatto per durare. Forse qualcosa di sovrannaturale ce l’aveva. Quella assoluta e totale capacità di amare incondizionatamente chiunque avesse accanto, anche chi lo odiava, anche chi lo picchiava. Anche chi lo uccideva. Non c’erano differenze, niente razze, niente sessi. Diceva solo “Amatevi”. Non ho mai letto da nessuna parte che abbia detto “Si amino solo un uomo e una donna”. Semplicemente, amatevi. Curioso come possono essere forti e allo stesso tempo fragili, le parole. Le piramidi sono in piedi da cinquemila anni, la grande muraglia da duemila, e quelle semplici parole sono durate niente. Oggi, sento altre parole, come “Evitare le ingerenze dello Stato nella Chiesa cattolica”, “Crimine contro la volontà di Dio”, e altre cose simili, utili solo ad alimentare odio e disprezzo. Pronunciate proprio da quello e da quelli che di quell’uomo si proclamano dirette manifestazioni sulla Terra. Non si può dire che non sia servito a niente, ma non si può dire che sia servito a molto. E se chi dovrebbe raccoglierne l’eredità è capace di fare solo questo, non credo che si potrà mai migliorare.


Si chiamava Gesù

Venuto da molto lontano
a convertire bestie e gente
non si può dire non sia servito a niente
perché prese la Terra per mano
vestito di sabbia e di bianco
alcuni lo dissero santo
per altri ebbe meno virtù
si faceva chiamare Gesù.

Non intendo cantare la gloria
o invocare la grazia o il perdono
di chi penso non fu altri che un uomo
come Dio passato alla storia
ma inumano è pur sempre l’amore
di chi rantola senza rancore
perdonando con l’ultima voce
chi lo uccide tra le braccia di una croce.

E per quelli che l’ebbero odiato
nel Getsemani pianse l’addio
come per chi lo adorò come Dio
che gli disse “sii sempre lodato”
per chi gli portò in dono alla fine
una lacrima o una treccia di spine
accettando ad estremo saluto
la preghiera e l’insulto e lo sputo.

E morì come tutti si muore
come tutti cambiando colore
non si può dire che sia servito a molto
perché il male dalla terra non fu tolto
ebbe forse un po’ troppe virtù
ebbe un volto ed un nome: Gesù
di Maria dicono fosse il figlio
sulla croce sbiancò come un giglio.


giovedì 1 gennaio 2009

2009

Ci siamo. Sembra quasi un obbligo dover scrivere qualcosa all’inizio di un nuovo anno. Propositi, speranze, bilanci, prospettive... Contano davvero? Ne dubito fortemente. Siamo animali fatti per passare. Possiamo guardare a prati lontani e lussureggianti di verde, ma alla fine continuiamo a brucare quella stessa erba che ci troviamo sotto il muso ogni giorno. Forse è questa la vera forza da desiderare. La capacità di riuscire a vivere i giorni, non gli anni. I programmi a lungo termine nella maggior parte dei casi sono destinati a essere dimenticati, modificati, adattati ai singoli momenti in cui viviamo. La capacità di guardare avanti non è cosa da poco, ma va sempre affiancata a quella di cogliere i momenti. Il nuovo anno potrebbe portare al coronamento di uno dei due sogni che da parecchi anni sono i capisaldi della mia vita. Al secondo forse dovrei rinunciare. Non so se augurarmi di trovare finalmente la forza per rinunciarvi o quella per continuare a sperare. Ma di fatto, quello a cui penso è solo il giorno dopo. È come leggere un romanzo. Mi aspetto e mi immagino quello che troverò alla fine della storia, ma quello che faccio non è altro che leggere le pagine, una dopo l’altra. Forse è proprio questo il segreto per raggiungere le mete: camminare un passo dopo l’altro, giorno per giorno. Nell’anno appena trascorso si sono aggiunte delle tessere importanti nel mosaico di quel sogno che spero di realizzare presto. Poche altre ne mancano, ma saranno difficili da trovare e posizionare al loro posto. E poi, troppo spesso mi soffermo a chiedermi per chi lo faccio. Ho sempre avuto la presunzione di credere che lo facessi per me stesso. Ma è davvero così? Un alone di dubbio si insinua in me. Non posso negare che una parte delle motivazioni che mi spingono è costituita dal desiderio di onorare le aspettative. Famiglie che aspettano che io dica è finita, persone che vogliono potermi chiamare collega. Non dover più essere un peso. Deve essere bello poter vivere per se stessi. Deve essere ancora più bello poter vivere per qualcun altro. Con qualcun altro. Ho trovato degli amici in questo anno 2008, persone con cui riesco, anche se per pochi momenti, a dimenticare quello che non sono e a ricordare quello che sono. Persone con cui ridere. Questo è importante, per me. Mi renderebbe immensamente più felice trovare quell’unica persona con cui questo potrebbe diventare la regola, non l’eccezione di una domenica sera passata davanti a una pizza e ai videogiochi. Ricordo il verso conclusivo di quella canzone di Lucio Dalla. Quella in cui per l’anno nuovo si prevedono cose sempre uguali accanto a cose inaspettate e meravigliose. Non sappiamo niente di quello che c’è davanti. Il dubbio è l’unica certezza. Ma la forza di continuare si trova nella banalità. Non quella vuota di chi non sa cogliere il meraviglioso nel consueto, ma quella che costituisce la base per qualunque cosa succederà in futuro, quella su cui poggiano le nostre incertezze, quella che sai che rimarrà in piedi anche se tutto il resto dovesse crollare. Quando indichiamo il cielo come nostra meta, non dovremmo mai scordarci di guardare anche il dito che ce lo indica. “L’anno che sta arrivando, tra un anno passerà. Io mi sto preparando, è questa la novità”.