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Un verbale giudiziario, forse una denuncia, anche una specie di testamento ideologico, quello che un ignoto scrivano raccoglie dalle parole del dottor Pereira. Siamo in Portogallo, nell’agosto del 1938. Paese strano, il Portogallo, a guardare la carta geografica lo si direbbe uno dei più liberi, da qui sono partite decine di esploratori che nel Cinquecento hanno ridisegnato la carta del mondo, proteso sull’Atlantico a guardare con fare quasi beffardo quelle Americhe di cui conosceva l’esistenza ancora prima che qualcuno la inventasse, una caravella. Eppure, forse, è anche uno dei paesi più prigionieri che esistano. L’oceano può offrire all’uomo grandi speranze, ma può anche diventare la grata di una invisibile prigione, che ti impedisce qualunque contatto con il resto del mondo, a meno che non accetti di passare per quell’unica, stretta porta che ti fa rimanere attaccato all’Europa e che si chiama Spagna. Ma in Spagna, nell’agosto del ’38, si fanno le prove generali, sono due decenni che l’Europa si prepara, almeno alcuni paesi, mentre gli altri sonnecchiano pigramente incapaci di vedere al di là del loro naso. E al Portogallo piace far parte dell’elenco dei forti, almeno a parole, e quindi niente simpatie per Francia e Inghilterra, lodi alla Germania e all’Italia, sguardo interessato ai movimenti del Caudillo e soprattutto nessuno spazio per i sovversivi. Pereira è vecchio, grasso, stanco e cardiopatico, trascina la sua vita tranquilla tra una omelette alle erbe aromatiche, una limonata, qualche riga scritta a macchina e una conversazione col ritratto della sua defunta moglie. Pereira è tranquillo, ne ha avute abbastanza di emozioni in trent’anni di cronaca nera, ora per il suo cuore malato l’ideale è la pagina culturale di un giornale del pomeriggio, cattolico e apartitico, per quanto possa esserlo un giornale in un regime totalitario. Ma ben poco, nella vita dell’uomo, è fatto per durare. Un giovane aspirante giornalista e la sua ragazza irrompono nella sua vita, turbandola e scuotendola intimamente. Pereira resiste, a parole, alle strane idee che i due giovani manifestano, più o meno esplicitamente, ma ne fatti non può fare a meno di lasciarsi coinvolgere. Quello che succede possiamo immaginarlo. A un certo punto qualcuno bussa, entra, si parla, si insulta, si picchia, e alla fine vincono loro. È sempre così, in un regime. A quelli che restano, si aprono ben poche strade. Se sei un vecchio giornalista cardiopatico, una sola: andartene. Ma non in silenzio, Pereira sa che ha passato fin troppo tempo in silenzio, l’ultima parola deve essere la sua, non quella del suo direttore, o peggio ancora della polizia politica. Così, si mette alla macchina, e scrive. Denuncia. Il romanzo non ci dice che cosa ne è stato di quella denuncia, quali effetti ha avuto (se ne ha avuti), lo lascia alla nostra immaginazione. Tanto, Pereira è già in Francia, la Francia che ha tanto amato nei suoi romanzieri dell’Ottocento, quella Francia che, da lì a pochi mesi, sarà calpestata dallo stivale con la croce uncinata. Ma se c’è un significato nel verbale di Pereira, è che chiunque può rialzarsi da sotto il tacco di uno stivale.
Gli chiuse quegli occhi chiari spalancati e gli coprì il volto con l’asciugamano. Poi gli distese le gambe, per non lasciarlo così rattrappito, gli distese le gambe come devono essere distese le gambe di un morto. E pensò che doveva fare presto, molto presto, ormai non c’era più tanto tempo, sostiene Pereira.
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