domenica 27 settembre 2009

La casa del sonno

Di solito una storia ha un tempo e uno spazio. Alcune, più di uno spazio. Sono quelle storie che si svolgono in più luoghi contemporaneamente, magari con vicende che si intrecciano attraverso le azioni dei personaggi. Ma è difficile che una storia abbia più tempi. Il tempo è una dimensione che difficilmente si riesce a concepire come separata, siamo abituati a vederla come un continuo, anche se poi ne isoliamo alcuni frammenti. In questo senso, narrare la storia di un personaggio quando aveva vent’anni e poi quando ne ha quaranta non farebbe una piega, nel senso che nel suo continuum temporale avremmo isolato questi due frammenti, pur rispettando una sequenza narrativa unica. Ma “La casa del sonno” non è niente di tutto questo. Jonathan Coe si diverte a intrecciare non solo le vite dei suoi protagonisti, ma anche i frammenti temporali di queste vite, in modo che il presente di una faccia scaturire il ricordo del passato di un’altra, e il passato di una faccia scoprire le ragioni del presente di un’altra. A legare tutto questo, un elemento che forse è il più consueto nella vita di ogni essere animale: il sonno. Ma tanto consueto quanto poco conosciuto, visto che ancora adesso i meccanismi del sonno e dei sogni sono ben lontani dall’essere compresi, così come lo sono le malattie e le alterazioni che vanno sotto il nome di disturbi del sonno. Proprio di questo si occupa la clinica del dottor Dudden, che sorge dove un tempo c’era un pensionato per studenti universitari. Sono questi studenti di allora, con le loro vite di oggi, i protagonisti del romanzo, in particolare Sarah, attorno alla quale ruotano le vicende di tutti gli altri, ognuno legato a lei e a quella abitazione in modo diverso. Si passa dagli amori di un tempo al lavoro di oggi come si passerebbe da una stanza a un’altra, senza soluzione di continuità. Tra personaggi che dormono poco e altri che dormono troppo, che sognano una vita e che vivono nei sogni, si concatenano eventi che appena dodici anni dopo cambieranno a tal punto le persone da renderle irriconoscibili perfino a chi le ha frequentate intimamente. Una girandola di personaggi ora commoventi ora comici, che nella vita adulta inciampano nel malessere, nella follia e nelle strane incongruenze della vita.

“Io sono l’unico, in questo campo, a vedere il sonno per quello che è realmente”.
“E che cos’è?”.
“Ovvio: una malattia.” [...] “Una malattia, Terry: la malattia più diffusa in assoluto, quella che più abbrevia la vita! Ma quale cancro, quale sclerosi multipla, ma quale AIDS. Se passi otto ore al giorno dentro un letto, vuol dire che il sonno ti accorcia la vita di un terzo! È come morire a cinquant’anni: e succede a tutti.”

mercoledì 23 settembre 2009

Metti in circolo il tuo amore


Nessuna vergogna, nessun rimpianto a comunicare i propri sentimenti, quello che si prova in particolari momenti, anche se può sembrare banale. Difficile per quanto possa sembrare, in realtà lo è solo nella nostra testa, quando pensiamo di sbagliare ogni cosa che facciamo, di essere giudicati in ogni parola o gesto. Per questo, teniamo le cose in un angolo buio, stando il più attenti possibile che non escano. E invece è meglio quando vengono fuori e cominciano a circolare. Nessuno ha sfere di cristallo per predire il futuro, e il manuale di istruzioni ha poche pagine ed è scritto male, non dice quali procedure usare se ci si trova in difficoltà. Ma non sapere come si fa una cosa non deve diventare un ostacolo a farla. È vero che chi non fa non sbaglia, ma neanche impara. E le cose non sono mai come ce le immaginiamo, altrimenti sarebbe anche una noia. La sorpresa e l’imprevisto rendono interessante vivere, e soprattutto vivere insieme.


Metti in circolo il tuo amore

Hai cercato di capire
e non hai capito ancora
se di capire si finisce mai.
Hai provato a far capire
con tutta la tua voce
anche solo un pezzo di quello che sei.
Con la rabbia ci si nasce
o ci si diventa
tu che sei un esperto non lo sai.
Perché quello che ti spacca
e ti fa fuori dentro
forse parte proprio da chi sei.

Metti in circolo il tuo amore
come quando dici “perché no?”
Metti in circolo il tuo amore
come quando ammetti “non lo so”
come quando dici “perché no?”

Quante vite non capisci
e quindi non sopporti
perché ti sembra non capiscan te.
Quanti generi di pesci
e di correnti forti
perché 'sto mare sia come vuoi te.

Metti in circolo il tuo amore
come fai con una novità
Metti in circolo il tuo amore
come quando dici si vedrà
come fai con una novità

E ti sei opposto all'onda
ed è li che hai capito
che più ti opponi e più ti tira giù.
E ti senti ad una festa
per cui non hai l'invito
per cui gli inviti adesso falli tu.

Metti in circolo il tuo amore
come quando dici “perché no?”
Metti in circolo il tuo amore
come quando ammetti “non lo so”
come quando dici perché no.

domenica 20 settembre 2009

Biomega

Particolare come lo sono tutte le opere che ho letto di Tsutomu Nihei, “Biomega” si inserisce nello stesso filone di “Balme!”, di cui ho già parlato in un post precedente. Tuttavia non saprei se definirla più un seguito o un preludio a quella saga, dato che i punti di contatto e quelli di separazione si equivalgono. Al di là dell’aspetto grafico, in cui riconosciamo appieno l’inconfondibile stile dell’autore, c’è tutta una serie di elementi sia terminologici che concettuali, in comune con “Blame!”. Il protagonista solitario, Zoichi Kanoe, è un essere umano sintetico, dotato di straordinarie capacità, come lo era Killi, e anche lui è accompagnato da una aiutante informatica che qui diventa Fuyu, l’intelligenza artificiale della sua moto. Anche qui l’ambientazione è un mondo futuristico in cui la tecnologia ultra-avanzata si scontra con condizioni di vita proibitive, dovute queste in particolare alla minaccia dei drone. A differenza dell’opera precedente, però, “Biomega” ha una trama più chiara fin dall’inizio, con una definizione più precisa dei ruoli e delle azioni dei vari personaggi. In particolare, sappiamo benissimo fin da subito cosa è successo alla Terra e come si è ridotta nelle attuali condizioni, così come è ben chiara la missione del protagonista, che riguarda una strana bambina che non invecchia, Ion Green. Ma ovviamente le cose non possono essere facili, e infatti la ragazzina è contesa da almeno altre due forze in gioco che, sebbene entrambe facciano parte della stessa organizzazione, alla fine si trovano a scontrarsi l’una contro l’altra.

Non volendo rovinare la lettura a quanti volessero gustarsi l’opera di cui da pochi giorni si è conclusa la pubblicazione in Italia, dirò soltanto che il nucleo narrativo fondamentale è ancora una volta un possibilità di evoluzione della specie umana, possibilità voluta, ricercata e manipolata da più parti in gioco, ognuna con un proprio fine personale. Una riflessione quindi sulle potenzialità della ricerca scientifica applicata alla natura e all’umanità, con risvolti anche di carattere etico e morale, sull’opportunità di spingere il progresso scientifico all’estremo limite. Fermo restando che chi volesse solo godersi un po’ di sana azione, di combattimenti spettacolari e di inseguimenti su moto tra palazzi avveniristici, troverà tutti questi ingredienti molto ben rappresentati in “Biomega”.

lunedì 14 settembre 2009

Parti in fretta e non tornare

Finalmente ho potuto leggere la prima indagine di Jean Baptiste Adamsberg in qualità di commissario capo della squadra anticrimine del tredicesimo arrondissement di Parigi. A lungo andare, con questi personaggi, c’è sempre il rischio che comincino a stancare. La novità della prima storia che leggi non c’è più, non ti stupisci delle bizzarrie del pensiero e del comportamento. Ma allo stesso tempo, scatta un altro tipo di meccanismo. Proprio perché crediamo di conoscere tutto del personaggio, non possiamo fare a meno di immaginare come si comporterà in una certa situazione, o come reagirà ad un certo evento, e questo è uno stimolo incredibile ad andare avanti divorando pagine su pagine. Metteteci poi che le storie non sono mai banali, e avrete capito perché, anche dopo cinque romanzi, non mi sono stancato di Adamsberg. È come parlare con una persona piacevole, non importa quante volte avete chiacchierato e di cosa, sai che anche la prossima sarà piacevole come quella appena passata.

A Parigi, di notte, sulle porte delle case compaiono strani simboli e sigle. All’altro capo della città, un ex marinaio che si è reinventato come pubblico banditore declama criptici messaggi che parlano di malattia e morte. Ovviamente non c’è nessuna correlazione tra i due fatti, come pensano tutti. Tutti tranne Adamsberg, che su quei segni non ci vede affatto chiaro, e intanto i messaggi si fanno sempre più espliciti e con riferimento a qualcosa di preciso. L’aiuto di uno storico spiantato e di una galleria di personaggi bizzarri almeno tanto quanto lui costringerà il commissario ad un viaggio indietro nel tempo di alcuni secoli, quando una minaccia innominabile devastava l’Europa strisciando silenziosa. Ma quello che Adamsberg non sa è che questa minaccia ha esteso le sue propaggini fino a tempi relativamente recenti, al punto che ancora oggi ci può essere chi uccide servendosi di quest’arma tanto invisibile quanto letale.

Adamsberg lasciò la casa di rue Chasle un po’ frastornato, passando per il giardinetto incolto. C’era gente che sapeva una quantità di cose spaventosa. Che da un lato era stata attenta a scuola, e poi aveva continuato ad accumulare conoscenze a vagonate. Conoscenze di un altro mondo. Gente che dedicava la vita a untori, a pulci latine e elettuari. E questo, poco ma sicuro, era solo uno dei tanti vagoni ammassati nella testa di Marc Vandoosler. Vagoni che, del resto, non sembravano aiutarlo a cavarsela meglio di un altro nell’esistenza. Eppure, stavolta, sarebbero stati di vitale importanza.

martedì 8 settembre 2009

Un giorno così


A volte capitano. Di solito, quando meno te li aspetti. Quando si attraversano periodi pesanti, in cui ti sembra che le cose vadano sempre male, o comunque non vadano come tu speravi. Quando ti trovi la sera in una stanza a farti domande a cui non riesci a trovare risposte, o peggio ancora quando le risposte le conosci benissimo, ma vorresti che fossero diverse. Quando ti manca quel qualcosa che non vuoi ammettere che ti manca, per orgoglio o per cercare di sfuggire a quella mancanza ignorandola.

Proprio in questi momenti, capitano i giorni speciali, che in fondo di speciale non hanno proprio niente, rispetto a tutti gli altri. In fondo, di spiagge, palloni, villette di campagna e tavoli da ping pong ne hai visti tanti, non c’è niente di nuovo. Ma è proprio questa banalità, queste ‘cose normali’ che, vissute con lo spirito giusto, rendono il giorno speciale. E un giorno così cancella tanti periodi brutti, te li fa scordare, e non solo ti fa sperare nel futuro, ma ti rende anche felice del presente che stai vivendo. Sono le persone che rendono speciali i luoghi e gli oggetti. Quando c’è quella persona che vuoi guardare, guardare diventa la cosa più bella cui riesci a pensare.


Un giorno così – 883

Scorre piano la statale 526,
passa posti che io mai e poi mai
avrei pensato fossero così,
ancora come quando qui
il cinquantino mi portava via dai guai.
Invece di svoltare a scuola
andava giù alla ferrovia,
due minuti di paura,
poi pronti via.

La mia moto scorre piano sulla 526,
attraversa dei profumi che poi
un metro dopo non li senti,
io respiro e mando giù
prima di perderli che non si sa mai.
Da lontano un’altra moto
sta venendo verso me,
alza il braccio, fa un saluto,
che bello è,
mi fa sentire che

basta un giorno così
a cancellare centoventi giorni stronzi e
basta un giorno così
a cacciarmi via tutti gli sbattimenti che
ogni giorni sembran sempre di più,
ogni giorno fan paura di più,
ogni giorno per non adesso, adesso, adesso
che c’è un giorno così.

La mia moto scorre piano piano fino in città,
il sole tra non molto tramonterà,
mi fermo al rosso del semaforo
che mi dà tempo ancora un po’
prima che la moto torni al suo garage.
Il bambino su quell’auto
guarda indietro e vede me,
alza il braccio, fa un saluto,
che bello è,
mi fa sentire che

basta un giorno così
a cancellare centoventi giorni stronzi e
basta un giorno così
a cacciarmi via tutti gli sbattimenti che
ogni giorni sembran sempre di più,
ogni giorno fan paura di più,
ogni giorno per non adesso, adesso, adesso
che c’è un giorno così.


giovedì 3 settembre 2009

L'amore non guasta

Mi piace molto Jonathan Coe, il suo modo di raccontare, di creare storie. “La banda dei brocchi” mi colpì per il titolo, “Circolo chiuso” ne era il seguito naturale, e da lì in poi è stata una vera passione. Così, da quel punto centrale, sto percorrendo due strade, una in avanti, con i nuovi libri che scrive, e una indietro, ripercorrendo il sentiero che lo ha portato a creare le sue opere più recenti. Alcuni scrittori nascono già adulti, nel senso che anche i loro romanzi d’esordio hanno le caratteristiche dell’opera completa e pienamente cosciente di sé. Naturalmente, nel loro percorso letterario, anche questi autori conoscono delle evoluzioni, o involuzioni, che li portano a modificare il loro stile di scrittura. Jonathan Coe, invece, è uno scrittore che è nato bambino ed è cresciuto attraverso i suoi romanzi, ed è molto interessante rivedere questo processo di crescita attraverso le sue opere. Da quel che ho capito, il giro di boa è costituito da “La famiglia Winshaw”, l’unico romanzo che manca al mio appello oltre all’ultimo, appena acquistato. Ma mi riprometto di colmare questa lacuna quanto prima. Tutto questo era per dire che, se “L’amore non guasta” fosse stato il primo romanzo di Coe che avessi letto, probabilmente adesso non ne parlerei. Lo sto facendo proprio per seguire questo percorso di maturazione attraverso la scrittura che l’autore ha intrapreso.

Si capisce subito che “L’amore non guasta” è un romanzo giovane, ancora grezzo, non tanto dal punto di vista stilistico quanto da quello concettuale. La capacità di creare vite e personaggi che ho conosciuto negli ultimi romanzi qui è presente solo in embrione, come un piccolo seme, nascosto sotto la terra, che aspetta la pioggia per mostrare quanto grande e forte sarà l’albero a cui darà origine. La storia non è affatto banale, e questo fa storcere ancora di più il naso, perché fa risaltare ulteriormente che avrebbe avuto bisogno di personaggi più vivi. La tarda adolescenza è un’età cruciale nella formazione di un uomo, quella nella quale, più che in ogni altra, si decide cosa sarà un uomo. Purtroppo, Robin vive questo passaggio in maniera travagliata e confusa, tra un’università frustrante e una vita sociale praticamente inesistente. Una vita che lui stesso sente il bisogno di provare a definire, scrivendo. Ma anche come scrittore, Robin, a detta di quanti hanno letto le sue storie, non riesce ad essere più che mediocre, e nessuno si rende conto che in quelle opere, in quei nomi, sono in realtà rappresentate due persone reali, Robin stesso e una donna il cui nome inizia sempre per K, il ricordo di un amore lontano e mai dichiarato che lo tortura e lo avvilisce. Proprio in questo contesto, Robin sente crescere una sensazione di catastrofe imminente, qualcosa che solo un tocco d’amore potrebbe forse aggiustare. In fondo, l’amore non guasta mai. Ma anche in questo Robin si riconosce impotente, del tutto incapace perfino di scegliere l’oggetto del suo amore.

Come dicevo, un romanzo che ci porta l’abbozzo di quello che saranno tutte le sue opere seguenti, come un primo schizzo di una tela che solo con il tempo e la pazienza la mano del pittore arricchirà dei particolari. Per adesso, i volti di questi personaggi sono solo degli ovali con una linea in mezzo, in futuro diventeranno talmente nitidi da sembrare vivi, con le loro storie, presenti e passate, e i loro intrecci.

“Cosa ci trovava di così attraente in Kate?”.
“Non so che risposta lei si aspetti da me a questa domanda. Uno concepisce un’ossessione e poi ci si attacca: la ragione non c’entra. Kate era bellissima e intelligente, per quello che può contare, ma il mondo è pieno di donne bellissime e intelligenti, e molte di loro io non le trovo attraenti. Col senno di poi, mi sembra di poter dire che eravamo ben assortiti, e mi brucia non essere stato abbastanza sveglio o coraggioso da capirlo sul momento. Come molte persone, mi piace trascinarmi questo senso dell’occasione perduta, perché dà alla mia vita una sorta di patina estetica ed è una buona scusa per sentirmi infelice quando le cose non vanno bene. Posso sempre dire a me stesso ‘Ah, se avessi sposato Kate’, e fingere che il problema vero sia quello”.