Quando un personaggio ha molti anni di storie alle spalle, è normale che si facciano diverse interpretazioni degli eventi cardine della sua vita. Quando il personaggio è una leggenda come Batman, questo è praticamente la regola. Tuttavia, i grandi autori che si trovano a percorrere a ritroso il cammino del tempo, reinterpretando storie già raccontate, in genere rispettano le tematiche di fondo di quelle storie, soprattutto per mantenere una sorta di coerenza narrativa ed evitare di distorcere l’essenza dei protagonisti. Però capita che autori particolarmente carismatici decidano di seguire il corso della loro fantasia, tenendo in ben poco conto l’opera dei loro predecessori. È questo il caso di Frank Miller.
A questo punto devo fare una piccola parentesi: non mi piace per niente Frank Miller. Non tanto come disegnatore, ruolo in cui riesce a trovare soluzioni innovative e di un certo effetto, quanto come scrittore. È incontestabile che abbia uno stile di narrazione molto personale, che affronti con disinvoltura anche tematiche piuttosto delicate, soprattutto per un mondo come quello del fumetto che ancora oggi risente degli strascichi di anni di proibizionismo narrativo. Tuttavia, il suo modo di raccontare non incontra il mio gusto. Non mi sono mai piaciuti gli eccessi, ma soprattutto non sopporto il machismo testosteronico di cui Miller ha fatto il suo cavallo di battaglia, soprattutto quando questo è del tutto fuori contesto. Non ho niente da ridire sull’esaltazione che si ritrova negli spartani di “300”, perché non è affatto lontana dalla realtà storica e dalla tradizione narrativa di quell’episodio. Posso ancora comprendere questo tipo di narrazione in un’opera come “Sin city”, dalle atmosfere prettamente noir, dove la violenza, il turpiloquio e la degradazione sono le basi portanti della storia. Ma non riesco ad accettarla in una storia di Batman.
In “All star Batman e Robin” leggiamo una rivisitazione degli eventi che portano il Cavaliere oscuro ad avere la sua prima spalla. Quando Bruce Wayne vede il piccolo Dick Grayson in mezzo ai cadaveri dei suoi genitori, non può non rivedere se stesso in quella fatidica notte che cambiò per sempre la sua vita. Così, decide che il ragazzo va preso sotto la sua protezione, per essere addestrato a combattere il crimine al suo fianco. Questo è sostanzialmente l’impianto narrativo della storia. Ma al di là dei momenti tragici e di qualche riflessione psicologica di un certo livello, c’è poco altro che colpisce, nell’opera, e certamente non in senso positivo. Sicuramente è interessante vedere le considerazioni di Batman quando da un lato vede che il ragazzo ha il talento che gli servirebbe avere al fianco nella sua crociata, ma dall’altro si rende conto che in questo modo lo condannerà alla sua stessa vita infelice e solitaria. Bello e intenso, a tal proposito, è anche l’acceso scambio di battute tra Batman e il maggiordomo Alfred, che gli fa notare come imporre le sue scelte di vita a un ragazzino di dodici anni possa essere una decisione discutibile. Al di là di questo, però, vediamo degli atteggiamenti dell’eroe che si fa fatica a riconoscere come suoi. Siamo abituati ad un Batman che si muove come un’ombra terrificante e silenziosa, che nessuno vede o sente finché non ha colpito. Qui invece, annuncia il suo arrivo con una risata ghignante, giustificandola come un altro degli artifici volti a incutere terrore nei criminali. Siamo abituati ad un Batman cupo e silenzioso fino al mutacismo patologico, freddo e riflessivo, mai preda di emozioni di alcun tipo. Qui invece, lo vediamo esaltarsi in una corsa di auto, sfidare i poliziotti solo per il gusto di mostrare la sua superiorità, ostentare le tecnologie della sua attrezzatura solo per impressionare il piccolo Dick. Insomma, un Batman spocchioso e arrogante, pieno di sé, esaltato dal mito della sua stessa maschera. Tutti tratti di un carattere che poco si accosta alla figura del vero Batman. A qualcuno potrà anche piacere questa interpretazione, ma a mio modo di vedere questo non è il Batman che ho imparato a conoscere e amare in tanti anni di storie.
Discorso a parte meritano i meravigliosi (come al solito) disegni di Jim Lee, che non delude mai i suoi fan e ci regala tavole di grande intensità e dinamismo pur non tralasciando quella cura dei dettagli che lo contraddistingue da sempre. Spettacolare in tal senso l’enorme splash page a sei facciate che raffigura il primo ingresso di Dick nella Batcaverna. In definitiva, se dovessi dare dei numeri, direi che le ragioni per voler tenere in mano il volume “All star Batman e Robin” sono 20% storia e 80% disegni, nonostante io sia un convinto sostenitore che un fumetto deve essere prima di tutto ben scritto, poi ben disegnato, e non il contrario.
A questo punto devo fare una piccola parentesi: non mi piace per niente Frank Miller. Non tanto come disegnatore, ruolo in cui riesce a trovare soluzioni innovative e di un certo effetto, quanto come scrittore. È incontestabile che abbia uno stile di narrazione molto personale, che affronti con disinvoltura anche tematiche piuttosto delicate, soprattutto per un mondo come quello del fumetto che ancora oggi risente degli strascichi di anni di proibizionismo narrativo. Tuttavia, il suo modo di raccontare non incontra il mio gusto. Non mi sono mai piaciuti gli eccessi, ma soprattutto non sopporto il machismo testosteronico di cui Miller ha fatto il suo cavallo di battaglia, soprattutto quando questo è del tutto fuori contesto. Non ho niente da ridire sull’esaltazione che si ritrova negli spartani di “300”, perché non è affatto lontana dalla realtà storica e dalla tradizione narrativa di quell’episodio. Posso ancora comprendere questo tipo di narrazione in un’opera come “Sin city”, dalle atmosfere prettamente noir, dove la violenza, il turpiloquio e la degradazione sono le basi portanti della storia. Ma non riesco ad accettarla in una storia di Batman.
In “All star Batman e Robin” leggiamo una rivisitazione degli eventi che portano il Cavaliere oscuro ad avere la sua prima spalla. Quando Bruce Wayne vede il piccolo Dick Grayson in mezzo ai cadaveri dei suoi genitori, non può non rivedere se stesso in quella fatidica notte che cambiò per sempre la sua vita. Così, decide che il ragazzo va preso sotto la sua protezione, per essere addestrato a combattere il crimine al suo fianco. Questo è sostanzialmente l’impianto narrativo della storia. Ma al di là dei momenti tragici e di qualche riflessione psicologica di un certo livello, c’è poco altro che colpisce, nell’opera, e certamente non in senso positivo. Sicuramente è interessante vedere le considerazioni di Batman quando da un lato vede che il ragazzo ha il talento che gli servirebbe avere al fianco nella sua crociata, ma dall’altro si rende conto che in questo modo lo condannerà alla sua stessa vita infelice e solitaria. Bello e intenso, a tal proposito, è anche l’acceso scambio di battute tra Batman e il maggiordomo Alfred, che gli fa notare come imporre le sue scelte di vita a un ragazzino di dodici anni possa essere una decisione discutibile. Al di là di questo, però, vediamo degli atteggiamenti dell’eroe che si fa fatica a riconoscere come suoi. Siamo abituati ad un Batman che si muove come un’ombra terrificante e silenziosa, che nessuno vede o sente finché non ha colpito. Qui invece, annuncia il suo arrivo con una risata ghignante, giustificandola come un altro degli artifici volti a incutere terrore nei criminali. Siamo abituati ad un Batman cupo e silenzioso fino al mutacismo patologico, freddo e riflessivo, mai preda di emozioni di alcun tipo. Qui invece, lo vediamo esaltarsi in una corsa di auto, sfidare i poliziotti solo per il gusto di mostrare la sua superiorità, ostentare le tecnologie della sua attrezzatura solo per impressionare il piccolo Dick. Insomma, un Batman spocchioso e arrogante, pieno di sé, esaltato dal mito della sua stessa maschera. Tutti tratti di un carattere che poco si accosta alla figura del vero Batman. A qualcuno potrà anche piacere questa interpretazione, ma a mio modo di vedere questo non è il Batman che ho imparato a conoscere e amare in tanti anni di storie.
Discorso a parte meritano i meravigliosi (come al solito) disegni di Jim Lee, che non delude mai i suoi fan e ci regala tavole di grande intensità e dinamismo pur non tralasciando quella cura dei dettagli che lo contraddistingue da sempre. Spettacolare in tal senso l’enorme splash page a sei facciate che raffigura il primo ingresso di Dick nella Batcaverna. In definitiva, se dovessi dare dei numeri, direi che le ragioni per voler tenere in mano il volume “All star Batman e Robin” sono 20% storia e 80% disegni, nonostante io sia un convinto sostenitore che un fumetto deve essere prima di tutto ben scritto, poi ben disegnato, e non il contrario.