martedì 16 marzo 2010

Madre notte

Un romanzo, come tutti quelli di Vonnegut, che è capace di intrecciare ironia e tragedia al punto che leggendolo ci troviamo a sorridere di atrocità storiche e a disperarci per banali stupidaggini quotidiane. Ancora una volta siamo davanti a una feroce satira al costume e alla società, stavolta non solo quella americana, ma dell’intero mondo occidentale del secondo dopoguerra. In un mondo pronto a indignarsi per quello che fino a qualche giorno prima era stata la quotidianità, pronto a puntare l’indice dall’alto di un banco contro quelli con cui fino al giorno prima era andato a braccetto, leggiamo il memoriale di un uomo che ha vissuto da tutte le parti in gioco in quella guerra, e che ha capito forse l’unica grande verità della storia e della politica internazionale, cioè che l’unico stato che vale la pena di servire è quello formato da se stessi e dalla persona che si ama.

Howard W. Campbell, jr. ci racconta, dalla sua cella di un carcere israeliano, dove aspetta di essere processato per crimini di guerra, le vicende che lo hanno portato fino a lì. Trasferitosi in Germania dall’America dopo la prima guerra mondiale, ci resta anche dopo l’ascesa al potere di Hitler e del regime nazista, di cui diventa uno degli esponenti di rilievo come impiegato del ministero della propaganda culturale, braccio destro di Goebbels, incaricato di diffondere via etere il messaggio nazista. Ma Campbell è davvero un collaboratore del regime? O la sua è soltanto una copertura che nasconde una delle più efficienti spie al servizio degli Stati uniti d’America in territorio tedesco? Solo chi lo ha reclutato potrebbe testimoniare in tal senso. Ma anche se fosse così, anche se Campbell fosse davvero un patriota americano e non un criminale di guerra, su di lui non peserebbe comunque qualche altra colpa? Non sarebbe comunque colpevole di essere ciò che fingeva di essere? E se è così, quale potrebbe essere il modo di espiare questa colpa?

L’appassionato racconto di Howard W. Campbell ci consegna una profonda e intensa riflessione sulla guerra e sull’impossibilità di restare innocenti quando il confine tra bene e male di assottiglia al punto che non si è più capaci di fare questa distinzione. Una riflessione che si estende anche a molti anni dopo la fine della guerra, che ha cambiato profondamente il sentire di tutti quelli che ha coinvolto, direttamente o indirettamente.

“La giornata del veterano,” dissi a Helga riprendendo a camminare. “Una volta si chiamava giornata dell’armistizio. Adesso è del veterano.”
“Ti dà fastidio?” disse.
“Ah, perdio, è così volgare... così tipico del resto,” dissi. “L’11 novembre era un giorno dedicato ai caduti nella guerra mondiale, ma i vivi non hanno saputo trattenersi dall’affondarci dentro le loro luride mani; hanno voluto arraffare anche la gloria che spettava ai morti. Così tipico, così tipico. Tutte le volte che in questo paese si manifesta qualcosa di dignitoso, bisogna che lo facciano a pezzi e lo buttino in faccia alla folla.”
“Tu odi l’America, non è vero?” disse.
“Odiarla sarebbe stupido almeno quanto amarla,” dissi. “Non riesco a provare nessuna emozione: il terreno di per sé non mi interessa. Sono certo che si tratta di una grande lacuna nella mia personalità, ma non riesco a pensare in termini di confini. Per me quelle linee immaginarie non sono più reali degli elfi e dei folletti. Non posso credere che indichino veramente l’inizio o la fine di qualche cosa di importante per un essere umano. Le virtù e i vizi, il piacere e il dolore attraversano le frontiere a loro piacimento.”
“Come sei cambiato,” disse.
“Le guerre mondiali serviranno pure a qualcosa,” dissi. “Altrimenti che scopo avrebbero?”

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