venerdì 26 marzo 2010

Kid Eternity

Quando c’è da addentrarsi nei meandri della mente, Grant Morrison è una garanzia. Non è un caso che le sue opere migliori siano proprio quelle di impostazione psicologica e surreale fin dal loro concepimento, mentre qualche volta questa sua tendenza al surrealismo è risultata una forzatura in opere di personaggi che avevano già conosciuto in precedenza, e mantenuto per molto tempo, un’impostazione più classica. Non è certo questo il caso di “Kid Eternity”, una graphic novel che riprende un personaggio Vertigo di cui da tempo si erano perse le tracce, inserendolo in un contesto decisamente fuori dagli schemi consueti del fumetto. Inoltre, la storia autoconclusiva è forse il tipo di prodotto con cui Morrison si trova più a suo agio, avendo un limite definito e una trama scritta da principio a fine in cui poter miscelare gli elementi narrativi che in quel momento gli preme trasmettere. Prova ne sia che, quando ha avuto per le mani serie di più ampio respiro, ha sempre costruito degli archi narrativi indipendenti e sganciati dal filone principale, incontrando da un lato il favore di quanti apprezzano le opere che mostrano una certa indipendenza e innovazione, ma dall’altro suscitando le ire di quanti non ammettevano che i loro eroi preferiti venissero estrapolati dal contesto in cui avevano vissuto per tanti anni di storie e catapultati in un mondo narrativo che non riconoscevano come confacente a quei personaggi. È proprio quello che è successo con gli X-Men, nel suo breve periodo di collaborazione con la Marvel, ma anche con Animal Man e la Doom Patrol, in casa DC. “Kid Eternity” si inserisce a pieno titolo nel numero delle graphic novel morrisoniane, per le sue caratteristiche sia narrative che grafiche. Non è un caso, infatti, che le sue opere migliori siano disegnate da autori che concepiscono il fumetto come un’opera d’arte vera e propria, al punto che ogni singola tavola, presa separatamente, non avrebbe nulla da invidiare alle opere pittoriche esposte nei più prestigiosi musei surrealisti. È stato così per “Arkham asylum”, con i disegni di Dave McKean, e si ripete adesso con “Kid Eternity”, dove uno straordinario Duncan Fegredo ci regala, una dopo l’altra, tavole di una intensità tale da costringerci a riguardarle tutte dopo aver finito la prima lettura.

Jerry è un cabarettista che cerca di trovare la sua strada verso il successo, e per questo ha una certa familiarità con le idee di finzione e surrealtà. Ma la sua conoscenza della dimensione ultraterrena sta per diventare ben più approfondita di quanto lui stesso vorrebbe. Tutto accade una notte in cui viene coinvolto in uno strano incidente automobilistico e finisce in rianimazione in gravissime condizioni. In queste circostanze, la sua coscienza travalica il limite della realtà e finisce in una dimensione ultraterrena in cui incontra uno strano ragazzo, Kid, evanescente come un fantasma, che lo porta con sé dicendogli che ha una missione fondamentale da compiere per la salvezza dell’universo e che Jerry avrà un ruolo indispensabile in questo compito. Inizia così il viaggio dei due attraverso il mondo infernale, dove Kid è stato tenuto prigioniero per anni e dove, quando è scappato, ha dovuto abbandonare il suo maestro. In un complicatissimo intreccio di vite e situazioni, i due si confronteranno con una terribile minaccia per l’intera esistenza, quando ordine e caos si contenderanno le sorti del mondo, mondo in cui dovranno trovare posto due novelli Adamo ed Eva, investiti del compito di dare alla luce il bambino prescelto, da cui sorgerà una nuova stirpe.

Scritto e disegnato da due maestri del surreale, “Kid Eternity” dà una iniziale sensazione di straniamento, facendo perdere al lettore, insieme al personaggio, i punti di riferimento della realtà che lo circonda, preparandolo per gli eventi che seguiranno, in modo che non possa opporsi al dilagare di pensieri e concetti astratti che, pagina dopo pagina, si riverseranno nella sua mente, in un caleidoscopio di immagini e parole da cui difficilmente può riuscire a staccarsi prima che sia arrivata l’ultima pagina. E quando avremo finito, rimarrà un palcoscenico in penombra, vuoto, e l’eco di una domanda, che aleggia nell’aria: siamo stati all’inferno, o in paradiso?

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