martedì 26 gennaio 2010

Stardust

È inutile nasconderlo, il fantasy è diventato un genere molto difficile, sia per chi lo legge, sia, soprattutto, per chi lo scrive. Fino a non moltissimi anni fa, bastavano un paio di orchi, qualche mago e delle strane gemme per scrivere un buon libro. Solo che in troppi hanno seguito questo ragionamento, con il risultato che ci troviamo con gli scaffali delle librerie invasi da enormi quantità di volumi tutti uguali. Magari saranno tutte storie interessanti e coinvolgenti, ma niente più di questo. È molto difficile trovare un romanzo di questo genere che risulti innovativo pur soddisfacendo tutte le caratteristiche che un lettore si aspetta di trovare in un fantasy. Neil Gaiman è una di queste eccezioni. Ho imparato a conoscerlo come scrittore di fumetti, ambito in cui ha saputo creare opere che si sono guadagnate i favori di pubblico e critica per la loro forza narrativa e l’innovazione che hanno portato in un genere che soffriva da tempo. La saga di “The Sandman” è universalmente riconosciuta come una delle opere a fumetti migliori di tutti i tempi. Ma insieme a questa saga, e a tante altre graphic novel, Gaiman è anche autore di romanzi. Finora ho avuto occasione di leggerne solo due, “American Gods”, di cui ho già parlato in un post precedente, e “Stardust”. Devo dire che, rispetto al primo, quest’ultimo l’ho trovato meno innovativo, sebbene mantenga quella narrazione fluida e lineare, ma allo stesso tempo coinvolgente, di cui Gaiman ha fatto il suo punto di forza. Diciamo che, mentre “American Gods” rappresentava uno scenario innovativo nel panorama del romanzo fantastico, “Stardust” è un fantasy in puro stile classico.

Per Tristran esiste solo Victoria, al mondo, nessun’altra fanciulla è degna di essere guardata, e lui è disposto a tutto pur di conquistarla. Così, quando lei gli promette che avrebbe soddisfatto ogni suo desiderio se lui le avesse portato la stella che hanno visto cadere in una notte di ottobre, Tristran non ci pensa due volte e si mette in viaggio. Nel suo villaggio c’è un muro, interrotto da un varco, cui fanno la guardia, notte e giorno, due abitanti, per far sì che nessuno varchi quella soglia. Al di là, infatti, c’è il Regno di Ferie, la dimora del popolo fatato. È lì che ogni nove anni si tiene il mercato della magia, l’unica occasione in cui agli umani è permesso varcare il confine, è lì che è caduta la stella, ed è lì che Tristran deve andare per ottenere la chiave del cuore di Victoria. Comincia così un viaggio alla ricerca di un tesoro che si rivela essere del tutto diverso da quello che il giovane immaginava, tra luoghi fantastici e strane creature. E non mancheranno le insidie, visto che una stella caduta è un tesoro prezioso per molti, e tutti cercheranno di impossessarsene, a qualunque costo.

Una narrazione ricca e coinvolgente, un viaggio in un mondo fatato che incredibilmente si scopre essere molto più umano di quanto si penserebbe, un Gaiman stracolmo di quelle atmosfere fatate che hanno reso indimenticabili le sue opere. Peccato solo che molto di questo Stardust sia già stato scritto in Sandman. Ma per chi ha voglia di uscire per un po’ dalla realtà quotidiana, è un romanzo perfetto.

Tristran Thorn stava sognando. Si trovava in cima a un albero di mele e dai vetri di una finestra sbirciava Victoria Forester che si svestiva. Quando lei si tolse l’abito, rivelando l’ampia sottoveste, Tristran sentì il ramo cedere e precipitò al chiaro di luna...
Dentro la luna.
E la luna gli parlo: Per favore, sussurrò con una voce che gli ricordava vagamente quella di sua madre, proteggila. Proteggi la mia bambina. Loro vogliono farle del male. Io ho fatto tutto il possibile. La luna forse avrebbe continuato a parlare, ma si tramutò nel suo stesso riflesso sull’acqua.

giovedì 21 gennaio 2010

Sette prigionieri

Il sesto volume della serie dei sette è un racconto in puro stile fantascientifico, che getta un occhio nostalgico alla fantascienza degli anni Settanta e Ottanta, quando viaggi nello spazio, alieni e mutazioni erano il pane quotidiano di tutti gli appassionati del genere. E anche in questa storia troviamo quegli ingredienti tipici della ricetta, senza sfigurare ma senza neanche eccellere per prelibatezza.

Siamo nel 2062, e la Luna è diventata la soluzione al problema della detenzione. Chiunque venga condannato per crimini di un certo livello viene imbarcato su dei convogli di sola andata e trasferito sul satellite. Tutto questo sotto la supervisione dell’ONU, che però, da organizzazione a scopo umanitario si è trasformata in un semplice organismo di governo comunitario, priva di scrupoli tanto quanto tutti gli altri. Infatti, gli stessi problemi che si presentavano sulla Terra per le carceri si presentano adesso sul satellite, ma stavolta con l’indiscutibile vantaggio che di quello che succede lassù non si sa nulla, e quindi non importa a nessuno. Massacri, scontri armati, fame e crimini di ogni genere sono il tema di fondo della colonia penale, la cui popolazione si è frammentata in tre clan in base all’etnia: bianchi, neri e asiatici. Quando i prigionieri scoprono una grotta contenente resti preistorici, sperano che la minaccia di distruggerla possa servire per ricattare l’ONU e farli tornare sulla Terra. Ma come si diceva, all’ONU non interessa granché di una grotta e qualche fossile. Mentre interessa molto all’eccentrico miliardario François Laroche, che, facendosi condannare per omicidio, raggiunge la Luna, non prima di avere reclutato una squadra di sei uomini con la quale portare a termine la sua missione: trovare la grotta, carpirne i segreti, e tornare sulla Terra. Ma quello che sulla carta era un piano perfetto, si scontra con le difficoltà che la cruda realtà di un pianeta-prigione gli para davanti, a cominciare dai tradimenti di alcuni membri della squadra. E la grotta agognata si scopre celare un segreto tanto prezioso quanto terrificante.

Al di là dei motivi puramente fantascientifici, la storia è ben scritta e ricca anche di altri spunti di riflessione, sebbene nessuno sembra essere particolarmente innovativo. L’abbrutimento degli uomini messi alle strette dalle circostanze estreme, costretti a uccidere e a divorare i loro simili solo per sopravvivere, è un tema che già in molti avevano trattato, uno per tutti William Golding nel suo capolavoro “Il Signore delle mosche”. Altro tema presente, ma anche questo già visto, è quello dell’uomo senza scrupoli che si sente autorizzato a fare ciò che vuole solo perché lo vuole, e che anche di fronte al fallimento si dimostra compiaciuto del fatto che la riflessione e la morale non lo hanno frenato nelle sue azioni, per quanto discutibili fossero. In definitiva, una storia che può far piacere leggere a quanti sono appassionati del genere fantascientifico e allo stesso tempo non si aspettano di trovarsi tra le mani il grande capolavoro a fumetti del secolo.

venerdì 15 gennaio 2010

Imprimatur

Siamo appena entrati nel secondo decennio del 2000, tra poco potremo tornare a usare frasi come “è nato nel ‘12” o “scade nel ‘14”. Eppure stasera (14.01.2010) accendendo il televisore, mi sono sentito catapultato mille anni nel passato. Eravamo ancora in quella che va sotto il nome di Età di mezzo quando le massime autorità del tempo (quelle ecclesiastiche) decidevano cosa poteva essere scritto e cosa no. La frase “Nihil obstat quominus imprimatur” (nulla impedisce che sia stampato), un marchio a tutti gli effetti, era il requisito fondamentale perché un’opera scritta potesse essere divulgata, e la cosa avveniva solo quando l’opera in questione veniva approvata da chi gestiva i mezzi di comunicazione di allora. Eppure, dopo mille anni, non abbiamo ancora imparato che non basta un timbro (o la mancanza di esso) per impedire a un’idea di circolare. Scritti e documenti clandestini di ogni tipo se ne infischiavano altamente di timbri più o meno sacri e trasmettevano già allora la cosiddetta parola del demonio.

Oggi sento parlare di un progetto governativo per la regolamentazione di internet. Fior di giornalisti mi dicono che non è possibile che Google, in base al suo algoritmo di ricerca, ‘decida’ cosa la gente deve leggere e cosa no. Sento dire che su Youtube non è più possibile tollerare la presenza di video e filmati senza selezionare la fonte o l’argomento. Mi sento davvero male. Anzi, mi sento seriamente preoccupato. Il controllo dei mezzi di comunicazione è da sempre stato la prerogativa fondamentale di ogni forma di regime. E tra l’altro non capisco in che modo ci si possa liberare da un presunto controllo da parte di Google sull’informazione inserendo un’altra forma di controllo. È come dire che per risolvere il problema degli omicidi bisogna scendere in strada a uccidere i potenziali assassini. Mi rendo conto che c’è un po’ di paura nell’aria. Capisco che chi un tempo deteneva l’autorità assoluta su certi argomenti si senta minacciato dalla possibilità concreta e immediata che internet offre di acquisire conoscenze e informazioni su qualsiasi cosa venga in mente. Ma nella mia visione del mondo, questo dovrebbe rappresentare uno stimolo piuttosto che una minaccia. Un incentivo a migliorarsi sempre più per dimostrare che le proprie capacità sono insostituibili. Allo stesso modo, qualunque idea, in qualunque modo venga espressa, non mi farà mai paura. Sono un medico, ma se dovessi scoprire che esiste un sito in cui si propone di uccidere tutti i medici, non perderei neanche un minuto di sonno. Comincerei a preoccuparmi nel momento in cui qualcuno decidesse di mettere in pratica quella teoria. Tuttavia, la mia seppur limitata esperienza e conoscenza della storia mi ha insegnato che nessuno che abbia intenzione di fare del male ne parla mai. Lo fa e basta. Preferisco di gran lunga che qualcuno mi minacci di morte, perché chi non lo fa potrebbe uccidermi senza aver aperto bocca.

Viviamo in un mondo in cui la comunicazione ha raggiunto velocità tali da annullare qualsiasi limitazione geografica, e questo ci ha catapultato nella terza guerra mondiale, quella della conoscenza e dell’informazione. O arriviamo ad avere l’informazione o siamo tagliati fuori dalla realtà, e non possiamo più avere intermediari: la rete ci permette di andare a vedere direttamente. Per questo me ne sbatto altamente dell’algoritmo di Google. Quando era nato, Google erano due ragazzi in un garage con un computer e un filo del telefono, che hanno inventato uno dei più grandi ritrovati scientifici di sempre: il motore di ricerca. Qualche anno fa, quei due ragazzi sono diventati quarantenni, sono diventati multimiliardari, e si sono fatti comprare dal governo cinese. Questo è spiacevole. Ma la speranza è che ci siano sempre due ragazzi di quindici anni in un garage che inventeranno qualcosa per rompere il culo a quelli di Google. Oggi scopro che Google sta cominciando a ribellarsi alle restrizioni, rimuovendo i blocchi alla ricerca imposti dal governo cinese. Questo mi fa sperare. Mi fa sperare che quando scrivo su questo blog una piccola riflessione indirizzata al presidente Obama, magari in quella stanza dalla curiosa forma ovale ci sia un computer acceso e collegato alla pagina di “Cose preziose”. Mi fa sperare che accanto al mio blog dove si chiacchiera di libri, fumetti, e qualcos’altro, ce ne siano altri dove si dice che i comunisti sono dei criminali terroristi, che i musulmani vanno sterminati, che i preti sono dei mafiosi, e via dicendo. Perché non mi fanno paura le voci, mi fa paura che qualcuno pensi di metterle a tacere, a prescindere dal fato che io sia d’accordo con alcune e in disaccordo con altre. Perché ho paura che un giorno qualcuno deciderà che non si può avere un blog che parla di fumetti, o di libri, o di cinema. Se quel giorno arriverà, comincerò a scrivere nell’ombra, con o senza imprimatur. So che la cito spesso, ma è una frase che adoro: “Boss... avevi ragione tu. Non si tratta di cambiare il mondo. Si tratta di fare del nostro meglio per lasciarlo così com’è. Si tratta di rispettare la volontà altrui, e di credere nella propria”. Se qualcuno vuole dire o scrivere qualcosa contro di me, si faccia avanti: la mia penna non si troverà mai indietro.

mercoledì 13 gennaio 2010

Come una bestia feroce

Negli ultimi tempi ho riscoperto un po’ di quella passione per la letteratura d’azione che per parecchi anni avevo relegato ad un cantuccio del mio tempo libero. Mi ero dedicato per un po’ a romanzi di autori contemporanei, molto intimisti, e in particolare avevo dato sfogo alla mia passione per le saghe familiari, iniziata con De Roberto, passata attraverso Tomasi di Lampedusa, per arrivare ad autori stranieri come Biancheri o Ramsland. Negli ultimi mesi, invece, complice anche la scoperta di Fred Vargas e dei suoi particolari romanzi, mi sono riscoperto lettore di gialli, da quelli più letterari a quelli di impostazione più classica. E giallo e nero sono parenti stretti da sempre, al punto che spesso è difficile distinguere dove cominci uno e finisca l’altro. Proprio su questa scia, ho comprato questo romanzo di Edward Bunker, attirato anche dai commenti in quarta di copertina. Autore interessante, Bunker, non solo per le sue opere e il suo modo di scrivere, ma anche per la sua vita. Leggendo la prefazione, tra l’altro affidata a James Ellroy, ho scoperto che questo autore ha passato in carcere diciotto dei suoi quarantatre anni, uscendovi e rientrandovi a più riprese. Ladro, truffatore e a volte violento, in carcere si rende conto dei grossolani meccanismi dell’esistenza umana, dallo scambio di favori alla lealtà tra prigionieri, dal tradimento alla vendetta. Ma, a differenza di come noi “gente normale” siamo abituati a considerare i detenuti, Bunker scopre anche una curiosa quanto salvifica passione per la lettura. Nelle lunghe ore passate a guardare il sole a strisce, divora romanzi uno dietro l’altro, acquisendone una capacità dialettica e culturale che farebbe invidia a molti dei nostri personaggi pubblici. Spentisi i fuochi della giovinezza, Bunker ha scoperto il piacere della vita tranquilla, con una moglie e un figlio, diventando il classico bravo ragazzo americano.

Ma avendo smesso di frequentare il carcere, ha deciso di scrivere del carcere, e di quel magico, pericoloso e affascinante mondo che è il crimine. Persino il più superficiale dei lettori riconoscerebbe infatti in Max Dembo, protagonista di “Come una bestia feroce”, più che un semplice accenno autobiografico. Si può dire tranquillamente che Max sia Edward, o che Edward sia Max, fate voi, sta di fatto che leggere questo romanzo significa calarsi non solo nell’ambiente, ma anche nella psicologia del criminale. Quello che più colpisce, di questa lettura, non è l’atmosfera squisitamente noir dei bassifondi californiani, ma il modo in cui Max Dembo pensa quando si trova in quel contesto. Si capisce che ci sono dettagli in questi processi mentali che solo chi li ha sperimentati personalmente può riprodurre a parole. Certi meccanismi logici non sarebbero possibili per un qualsiasi autore che volesse scrivere di una rapina. Solo un ladro può sapere come si pianifica un colpo. E solo chi le ha provate di persona potrebbe trasmettere così chiaramente le sensazioni di una rapina a mano armata. Ma insieme al criminale, in Max Dembo si sente pulsare anche l’uomo di lettura che è Bunker. L’atmosfera idilliaca di certi paesaggi, le sensazioni che semplici attività quotidiane suscitano in qualcuno che si era totalmente disabituato ad esse, creano un incredibile contrasto con la crudezza delle immagini strettamente legate al mondo criminale, la violenza più rude, la volgarità più disinvolta, la più sfrenata bassezza istintuale.

Certo, se non amate le atmosfere più noir, questo non è un romanzo che fa per voi. Ma anche in caso contrario, come scrive Ellroy nella prefazione, “ultimo avvertimento: diffidate, non uscirete intatti dal vostro incontro con Max Dembo”.

- Non ci posso credere: è tutta la vita che fumiamo erba nei ghetti, e un tempo era il crimine pi grave del mondo. Se venivi beccato non c’era verso di ottenere un po’ di clemenza dalla corte. E adesso che tutti quei rampolli di senatori vengono sorpresi a fumare, si mettono a cambiare la legge. Fin quando si trattava di noi poveri coglioni, a nessuno fregava un cazzo.
- L’hai detto. Ma noi eravamo fuori passo con i tempi.

sabato 9 gennaio 2010

[Prototype]

Non c’è dubbio che molti videogiochi d’azione nascano dal tacito desiderio che ognuno di noi ha di sfogare le proprie pulsioni istintuali. Una grossa fetta del panorama videoludico, sia presente che passato, è rappresentata infatti da giochi in cui o si spara, o si picchia. Spesso, tutte e due le cose. E anche giochi in cui la fanno da padrone l’esplorazione e la risoluzione di enigmi e rompicapo, c’è sempre un qualche elemento combattivo a intercalare le altre scene. Questo perché uno dei motivi per cui molti di noi si mettono davanti a una console di gioco è quello di provare emozioni che nella vita reale ci sono negate, con la tranquillità non solo che è tutta una finzione (per quello c’era già il cinema), ma anche che possiamo spegnere e ricominciare quando vogliamo, senza trascurare la possibilità di interagire che altri strumenti di intrattenimento diversi dal videogioco non hanno. Il mondo dell’alta definizione ha portato all’apoteosi questi concetti, tanto che oggi si possono vivere anche i dettagli più cruenti e realistici (lo schizzare del sangue, i suoni di ossa fratturate, le grida di chi viene colpito da proiettili, ecc.). Per cui, non c’è dubbio che il desiderio di scaricare la tensione della vita di tutti i giorni, lo stress del lavoro e delle relazioni interpersonali facciano sì che ogni tanto fare a pezzi un bel po’ di avversari nella maniera più violenta possibile sia un piacevole passatempo. Però si corre il rischio di cadere nell’annoso problema del ‘visto uno, visti tutti’, ed è indubbio che parecchi giochi d’azione siano piuttosto ripetitivi e monotoni, limitandosi a picchiare e uccidere nemici su nemici, proseguendo su una strada che porterà all’immancabile scontro finale col supernemico.

Tuttavia, non tutti i giochi sono così. A volte se ne trovano alcuni che, pur avendo come modalità principale di interazione il combattimento, corpo a corpo o con armi da fuoco di ogni tipo, prevedono anche una trama ben articolata e coinvolgente, una ampia variabilità di scelte nelle azioni da compiere, e la possibilità di dedicarsi a sfide aggiuntive mentre si procede nella storia principale. Tutto questo, in sintesi, è [Prototype].
Alex Mercer si risveglia sul tavolo di un obitorio, ha i vestiti sporchi di sangue e non ricorda come sia arrivato lì. Ad un tratto, viene assalito da un violento impulso di memoria, e rivive uno scontro con una pattuglia di militari che, apparentemente, lo uccidono. Subito dopo, un altro flashback lo colpisce, e Alex vede il suo corpo trasformarsi in modo inquietante, acquisendo capacità distruttive micidiali. Aggirandosi per una New York assediata dai militari e minacciata da misteriose e orribili creature di vaga fattezza umana, Alex deve scoprire cosa è successo a lui e alla sua città. Poco a poco, si scopre che Alex è vittima di un virus, lo stesso che si sta diffondendo per New York messa in quarantena dai soldati, che gli conferisce straordinarie caratteristiche fisiche, dalla quasi totale invulnerabilità alla forza sovrumana, fino alla capacità di trasformare il suo corpo in micidiali armi. Ma le ragioni che stanno dietro a questa misteriosa infezione e al suo cambiamento, sono tutt’altro che chiare. Così, Alex vuole scoprire i responsabili di quello che sta succedendo, rimettendo insieme i pezzi di un complicato puzzle, che nasconde molti più segreti di quanti egli stesso pensi, in quanto le persone coinvolte, lui per primo, si riveleranno ben diverse da quello che si pensava. Alex ha infatti acquisito anche la capacità di ‘consumare’ esseri viventi, estraendone non solo l’energia vitale, ma anche i ricordi e le sensazioni. Così, braccato dai militari e minacciato dagli infetti, Alex cerca di rimettere insieme una fitta trama di intrighi e correlazioni, trovando e consumando decine di persone. E quando un essere di questo tipo si mette in moto, è molto difficile riuscire a fermarlo.

Mi sembra scontato parlare della spettacolarità delle ambientazioni, dei movimenti, e della cura dei dettagli, come pure delle possibilità di evoluzione del personaggio, quindi non lo farò. Dirò soltanto che chi ha voglia di un po’ di sana azione, con buone dosi di violenza e massacri, ma non vuole rinunciare al piacere di una trama molto ben sviluppata e intricata, potrebbe divertirsi molto con [Prototype].