Doveroso, oltre che piacevole, e per me particolarmente importante, mi sembra l’omaggio ad un libro che potrei definire di nicchia. Non è un bestseller, non è di un autore famoso, non è narrativo. Parlando superficialmente, si potrebbe dire che “Le Rragioni della forma” è un libro di architettura, e che Filippo Raimondo è l‘architetto che l’ha scritto. In fondo, Monet è quello che ha dipinto il quadro con il sole, e il quadro con il sole è quello dipinto da Monet. Forse il paragone è un po’ eccessivo, ma mi serve a far notare come parlare in questi termini si può considerare non solo riduttivo, ma anche ingiusto, e forse pure offensivo.
Qualche nota biografica. Filippo Raimondo nasce a Cefalù nel 1953, come dice il risvolto della copertina. Quello che non dice è che Filippo nasce al numero 23 di piazza duomo, in una casa cui si accede attraverso un cortile interno acciottolato, da cui parte una scala che conduce ad un portone col batacchio. Non dice che a soli quattro anni Filippo subisce una grave perdita, che per rispetto a lui e a tutti coloro che l’hanno vissuta non approfondirò. Non dice che Filippo, finito il liceo (siamo nei primissimi anni settanta), esprime il desiderio di studiare architettura a Roma, e che sua madre gli risponde “Vai, figlio mio, non posso imprigionarti qui con me”.
Parte perché la provincia gli sta stretta, perché ha bisogno di vedere il mondo, di parlare con chi l’ha visto, e soprattutto, di posizionare sul mondo i suoi giocattoli. Come un bambino curioso e intelligente che gioca con le costruzioni, così Filippo gioca con le forme dell’architettura, armonizzandole, fondendole, facendole collidere, facendole esplodere, per poi mischiare i frammenti e ricominciare. E mentre il cuore batte in Sicilia, dove ci sono sua madre e il ramo materno della sua famiglia, il cervello schizza lontano: l’Italia non basta (Roma, Milano, Venezia, Perugia, Pescara…), l’Europa è lì a due passi (Colonia, Vienna, Francoforte, Helsinki…), ed è un’ottima rampa di lancio per il resto del mondo (Tokio, New York, Il Cairo…).
Tutto questo, e qualcosa d’altro, è contenuto ne “Le Rragioni della forma”. Non ho sbagliato a scrivere, né la prima né la seconda né la terza volta. Quella doppia R non fa altro che sottolineare la sua sicilianità, il suo essere irrimediabilmente legato a questa terra, la nostra terra, e ne sono prova i primi capitoli del libro, in cui chi legge può ripercorrere, passo dopo passo, il suo processo di crescita mentale e professionale, dalle 'sciare' del Fannaco, tra cui giocava da bambino, alle processioni religiose dei paesi dell’entroterra. Poi, ecco che spunta, come un 'funciu', quel capitolo astratto, bizzarro, quasi surreale, che chi scrive di tecnica raramente è capace di realizzare. Ne “Il cerchio interrotto” si manifesta tutta la brillantezza, tutto l’ingegno e tutta la cultura di Filippo, un capitolo in cui elabora una teoria (o quantomeno ne getta le basi) che ha l’ambizione di dare un senso universale alle cose dell’arte.
Ma la cosa che più mi ha stupito nel leggere questo libro è la seguente. Leggendo il solo testo, si ha la sensazione di avere a che fare con qualcosa che, pur affondando profondamente le sue unghie nella carne della realtà e della materialità, conserva tuttavia un alone di mistero, una sensazione di etereo distacco dal quotidiano lavoro materiale di chi si siede ad un tavolo e disegna linee. Guardando le sole immagini che accompagnano gli scritti, invece, si viene investiti, quasi con violenza, dalla materia, dalla brutale crudeltà di ore e ore di lavoro, non sempre coronate dal raggiungimento di un risultato gratificante e remunerativo, che Filippo ha dovuto sopportare in ventisette anni di vita professionale. E poi, ecco il tocco di magia: scritto in piccolo, alla fine di ogni capitolo, un po’ in disparte, quasi fosse un sussurro che vuole precisare appena quello che l’imponente voce ha scandito finora con forza, ecco che si legge: “Riflessioni a margine del progetto tale”, oppure “Riflessioni sulla contemporaneità fatte in occasione del progetto talaltro”. Ed ecco che capisci tutto. Capisci come le mani non sanno far nulla senza la testa, e come una testa senza mani non produrrà mai niente. Capisci che la costruzione materiale non potrebbe avvenire senza un percorso mentale, filologico e filosofico, e come delle semplici speculazioni astratte non avrebbero molto più valore di deliri allucinatori senza la capacità di concretizzarli materialmente. Filippo Raimondo c’è riuscito, e a mio modesto parere meriterebbe un giusto riconoscimento di pubblico. Non lo dico tanto perché è mio cugino, quanto perché è il mio architetto, perché so quanto vale e perché so che dà un senso al suo lavoro.
Qualche nota biografica. Filippo Raimondo nasce a Cefalù nel 1953, come dice il risvolto della copertina. Quello che non dice è che Filippo nasce al numero 23 di piazza duomo, in una casa cui si accede attraverso un cortile interno acciottolato, da cui parte una scala che conduce ad un portone col batacchio. Non dice che a soli quattro anni Filippo subisce una grave perdita, che per rispetto a lui e a tutti coloro che l’hanno vissuta non approfondirò. Non dice che Filippo, finito il liceo (siamo nei primissimi anni settanta), esprime il desiderio di studiare architettura a Roma, e che sua madre gli risponde “Vai, figlio mio, non posso imprigionarti qui con me”.
Parte perché la provincia gli sta stretta, perché ha bisogno di vedere il mondo, di parlare con chi l’ha visto, e soprattutto, di posizionare sul mondo i suoi giocattoli. Come un bambino curioso e intelligente che gioca con le costruzioni, così Filippo gioca con le forme dell’architettura, armonizzandole, fondendole, facendole collidere, facendole esplodere, per poi mischiare i frammenti e ricominciare. E mentre il cuore batte in Sicilia, dove ci sono sua madre e il ramo materno della sua famiglia, il cervello schizza lontano: l’Italia non basta (Roma, Milano, Venezia, Perugia, Pescara…), l’Europa è lì a due passi (Colonia, Vienna, Francoforte, Helsinki…), ed è un’ottima rampa di lancio per il resto del mondo (Tokio, New York, Il Cairo…).
Tutto questo, e qualcosa d’altro, è contenuto ne “Le Rragioni della forma”. Non ho sbagliato a scrivere, né la prima né la seconda né la terza volta. Quella doppia R non fa altro che sottolineare la sua sicilianità, il suo essere irrimediabilmente legato a questa terra, la nostra terra, e ne sono prova i primi capitoli del libro, in cui chi legge può ripercorrere, passo dopo passo, il suo processo di crescita mentale e professionale, dalle 'sciare' del Fannaco, tra cui giocava da bambino, alle processioni religiose dei paesi dell’entroterra. Poi, ecco che spunta, come un 'funciu', quel capitolo astratto, bizzarro, quasi surreale, che chi scrive di tecnica raramente è capace di realizzare. Ne “Il cerchio interrotto” si manifesta tutta la brillantezza, tutto l’ingegno e tutta la cultura di Filippo, un capitolo in cui elabora una teoria (o quantomeno ne getta le basi) che ha l’ambizione di dare un senso universale alle cose dell’arte.
Ma la cosa che più mi ha stupito nel leggere questo libro è la seguente. Leggendo il solo testo, si ha la sensazione di avere a che fare con qualcosa che, pur affondando profondamente le sue unghie nella carne della realtà e della materialità, conserva tuttavia un alone di mistero, una sensazione di etereo distacco dal quotidiano lavoro materiale di chi si siede ad un tavolo e disegna linee. Guardando le sole immagini che accompagnano gli scritti, invece, si viene investiti, quasi con violenza, dalla materia, dalla brutale crudeltà di ore e ore di lavoro, non sempre coronate dal raggiungimento di un risultato gratificante e remunerativo, che Filippo ha dovuto sopportare in ventisette anni di vita professionale. E poi, ecco il tocco di magia: scritto in piccolo, alla fine di ogni capitolo, un po’ in disparte, quasi fosse un sussurro che vuole precisare appena quello che l’imponente voce ha scandito finora con forza, ecco che si legge: “Riflessioni a margine del progetto tale”, oppure “Riflessioni sulla contemporaneità fatte in occasione del progetto talaltro”. Ed ecco che capisci tutto. Capisci come le mani non sanno far nulla senza la testa, e come una testa senza mani non produrrà mai niente. Capisci che la costruzione materiale non potrebbe avvenire senza un percorso mentale, filologico e filosofico, e come delle semplici speculazioni astratte non avrebbero molto più valore di deliri allucinatori senza la capacità di concretizzarli materialmente. Filippo Raimondo c’è riuscito, e a mio modesto parere meriterebbe un giusto riconoscimento di pubblico. Non lo dico tanto perché è mio cugino, quanto perché è il mio architetto, perché so quanto vale e perché so che dà un senso al suo lavoro.
1 commento:
Frequento il primo anno di Architettura a Pescara, e ho avuto l'onore di "conoscere" (attraverso le sue, poche per ora, lezioni) la sua figura professionale.
Sono rimasto colpito con quanta franchezza e quanta professionalità espone fatti "crudi" e reali di ogni singolare aspetto dell'Architettura, ma sopratutto di aspetti umanistici collegati ad essa.
Penso, e spero, che imparerò molto. Spero di poter ricevere nozioni che aprono la mia mente a nuovi orizzonti, tali da farmi scoprire nuove vite.
Ogni lezione è gioia per noi studenti del suo corso, e ci piace seguirlo.
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