Luglio faceva sentire grandemente tutta la sua potenza di mese estivo, e io ero chino sui libri a studiare, mentre le polvere si accumulava sulle mie mensole, sui miei fumetti e sui miei libri, sprofondando la casa in una trasandatezza che non aveva mai conosciuto. Ma finalmente venne il 13, sostenni l’esame, e andò bene. A prescindere dal risultato, mi ero ripromesso che durante le vacanze estive (farei meglio a chiamarle ferie) avrei recuperato le letture arretrate, e per questo il mio bagaglio, al ritorno verso Cefalù, consisteva esclusivamente in vestiti sporchi, fumetti e libri.
“Io sono di legno” faceva parte del gruppo di questi ultimi. Comprato insieme ad altri due libri, più che altro perché il prezzo coincideva con quello che mi rimaneva da spendere, l’avevo mentalmente etichettato come un romanzetto buono per passare il tempo, senza troppe pretese. Mi sono dovuto ricredere. L’ho cominciato per noia, in un pomeriggio talmente afoso che anche prendere la macchina per andare a mare era una scocciatura. Senza che me ne rendessi conto, attorno a me si era fatto il crepuscolo, i miei occhi cominciavano a stancarsi per il buio imminente, ed ero arrivato a metà libro. Tutto attorno a me era cambiato: animaletti che si muovevano per la campagna, insetti che martoriavano l’aria con il loro canto stridulo, perfino l’hibiscus giallo che si vede dal terrazzino in cui ero seduto aveva deciso che era arrivata l’ora di socchiudere i suoi fiori. E io avevo ancora appiccicate sulle labbra quelle parole scritte che non volevano saperne di staccarsi. Mi è bastata la sera per finirlo, neanche dodici ore per centoquaranta pagine. Chissà se Giulia Carcasi (non chiedetemi dove sta l’accento, perché non ne ho la minima idea) è consapevole che c’è un suo lettore così entusiasta del suo romanzo. Giulia Carcasi, classe 1984, studentessa romana di medicina: una collega, una coetanea (due anni meno di me), eppure lei ce l’ha fatta. Ha scritto un romanzo, e l’hanno pubblicato, ne ha scritto un altro, e l’hanno pubblicato. Meritatamente, devo ammettere, con una punta di invidia. E non uno qualunque, ma Giangiacomo Feltrinelli, o chi propaga il di lui nome. Vorrà pur dire qualcosa, no?
“Io sono di legno” faceva parte del gruppo di questi ultimi. Comprato insieme ad altri due libri, più che altro perché il prezzo coincideva con quello che mi rimaneva da spendere, l’avevo mentalmente etichettato come un romanzetto buono per passare il tempo, senza troppe pretese. Mi sono dovuto ricredere. L’ho cominciato per noia, in un pomeriggio talmente afoso che anche prendere la macchina per andare a mare era una scocciatura. Senza che me ne rendessi conto, attorno a me si era fatto il crepuscolo, i miei occhi cominciavano a stancarsi per il buio imminente, ed ero arrivato a metà libro. Tutto attorno a me era cambiato: animaletti che si muovevano per la campagna, insetti che martoriavano l’aria con il loro canto stridulo, perfino l’hibiscus giallo che si vede dal terrazzino in cui ero seduto aveva deciso che era arrivata l’ora di socchiudere i suoi fiori. E io avevo ancora appiccicate sulle labbra quelle parole scritte che non volevano saperne di staccarsi. Mi è bastata la sera per finirlo, neanche dodici ore per centoquaranta pagine. Chissà se Giulia Carcasi (non chiedetemi dove sta l’accento, perché non ne ho la minima idea) è consapevole che c’è un suo lettore così entusiasta del suo romanzo. Giulia Carcasi, classe 1984, studentessa romana di medicina: una collega, una coetanea (due anni meno di me), eppure lei ce l’ha fatta. Ha scritto un romanzo, e l’hanno pubblicato, ne ha scritto un altro, e l’hanno pubblicato. Meritatamente, devo ammettere, con una punta di invidia. E non uno qualunque, ma Giangiacomo Feltrinelli, o chi propaga il di lui nome. Vorrà pur dire qualcosa, no?
“Io sono di legno” è un dialogo, o meglio, è due monologhi che procedono paralleli, e tuttavia si parlano uno all’altro. Il primo è Giulia: madre, x, moglie, medico, amica, sorella, figlia. L’ordine non è casuale, è lei stessa che lo ripercorre, raccontando la sua vita in una famiglia con una madre che non vuole liti, con una sorella che non vuole scandali, con una identità ancora da rivelarsi. L’amica è una suora peruviana, che di Dio sa poco, dell’amore ancora meno, ma del secondo è molto curiosa, del primo per nulla. Giulia percorre i viali di un lavoro misogino, in cui una donna deve nascondere di esserlo per dimostrare il suo valore, di un matrimonio insidioso, con il suo primario, di una maternità desiderata, spasimata, sofferta e solo molto tardi raggiunta. Quella ‘x’ non è casuale, c’è un’altra parola nell’elenco, ma non l’ho inserita apposta: deve essere Giulia a raccontare quella parola che la riguarda, con la sua voce, a chi vorrà leggere, non io con la mia.
Il secondo monologo, la seconda voce, è Mia. Figlia di Giulia, piena crisi adolescenziale, non le si può parlare, non le si può chiedere niente, risponderà ringhiando, mordendo, schizzando veleno. Mia, incazzata col mondo, con sua madre, con i ragazzi. Mia, cinica, anaffettiva, egoista come il suo nome, che le ha messo sua madre, che non le piace, che vorrebbe cambiare, anche se non lo ammetterà mai che vorrebbe essere ‘Tua’. Mia, che scrive di sé e della sua vita nel diario, e che è la causa dello scrivere di Giulia. Giulia scrive a Mia, perché lei non le parla. Legge il suo diario, perché lei non le parla. Le confida un segreto, sperando che non ne parli. Perché Mia ha i piedi strani, quei passi spericolati non tornano nell’equazione della sua famiglia. Quei passi vengono da qualcos’altro.
Senza mezzi termini, senza compromessi, senza moralismi, un romanzo che lascia molto poco spazio ai giri di parole, alle sfumature, alle interpretazioni. Un romanzo intenso, un romanzo nudo, che non ha bisogno di vestirsi, sta bene così com’è, come un albero non ha bisogno di coperte. Perché non solo Giulia, non solo Mia, ma anche il loro romanzo è di legno.
Il secondo monologo, la seconda voce, è Mia. Figlia di Giulia, piena crisi adolescenziale, non le si può parlare, non le si può chiedere niente, risponderà ringhiando, mordendo, schizzando veleno. Mia, incazzata col mondo, con sua madre, con i ragazzi. Mia, cinica, anaffettiva, egoista come il suo nome, che le ha messo sua madre, che non le piace, che vorrebbe cambiare, anche se non lo ammetterà mai che vorrebbe essere ‘Tua’. Mia, che scrive di sé e della sua vita nel diario, e che è la causa dello scrivere di Giulia. Giulia scrive a Mia, perché lei non le parla. Legge il suo diario, perché lei non le parla. Le confida un segreto, sperando che non ne parli. Perché Mia ha i piedi strani, quei passi spericolati non tornano nell’equazione della sua famiglia. Quei passi vengono da qualcos’altro.
Senza mezzi termini, senza compromessi, senza moralismi, un romanzo che lascia molto poco spazio ai giri di parole, alle sfumature, alle interpretazioni. Un romanzo intenso, un romanzo nudo, che non ha bisogno di vestirsi, sta bene così com’è, come un albero non ha bisogno di coperte. Perché non solo Giulia, non solo Mia, ma anche il loro romanzo è di legno.
La verità è bicolore.
Non ci stanno tinte di mezzo, non ci stanno i compromessi del grigio, il carnevale del blu, del rosso e del giallo.
L’ho imparato quando ho messo a stendere le parole nere sul foglio bianco e la verità le ha asciugate.
Non ci stanno tinte di mezzo, non ci stanno i compromessi del grigio, il carnevale del blu, del rosso e del giallo.
L’ho imparato quando ho messo a stendere le parole nere sul foglio bianco e la verità le ha asciugate.
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