sabato 15 novembre 2008

In memoria 77 - Frate Alberigo

Noi passamm’oltre, là ‘ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e il duol, che trova in su gli occhi rintoppo,
si volve in entro e fa crescer l’ambascia;
chè le lagrime prime fanno groppo,
e sì, come visiere di cristallo,
riempion sotto il ciglio tutto il coppo.
[...]
E un de’ tristi della fredda crosta
gridò a noi: “O anime crudeli
tanto, che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi il dolor che il cor m’impregna,
un poco, pria che il pianto si raggeli.”
Per ch’io a lui: “Se vuoi ch’io ti sovvenga,
dimmi chi se’; e s’io non ti disbrigo,
al fondo della ghiaccia ir mi convegna!”
Rispuose adunque: “Io son frate Alberigo,
io son quel delle frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo.”
“Oh,” diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”
Ed egli a me: “Come il mio corpo stea
nel mondo su, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Antropos mossa la dea.
E perché tu più volentier mi rade
le ‘nvetriate lagrime del volto,
sappi che tosto che l’anima trade,
come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che il tempo suo tutto sia volto:
ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
dell’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu il dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca d’Oria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso.”
“Io credo,” diss’io lui, “che tu t’inganni;
che Branca d’Oria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni.”
“Nel fosso su,” diss’ei, “di Malebranche,
la dove bolle la tenace pece,
non era giunto ancor Michel Zanche,
che questi lasciò un diavol in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano,
che il tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oramai in qua la mano;
aprimi gli occhi!”; ed io non gliel’apersi:
e cortesia fu lui esser villano.

Inferno, canto XXXIII versi 91-99 e 109-150

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