
“Il quinto esilio” è uno di questi. Non c’è bisogno di leggere la nota biografica nel risvolto di copertina per capire che Boris Biancheri, l’autore, ha viaggiato molto, e già il nome, mezzo russo e mezzo italiano, ci fa capire che il viaggio è un tema fondamentale della sua vita. E visto che un romanzo non è altro che un pezzo dell’anima di chi lo scrive, anche in questo libro si parla di viaggi. Tra i metafisici paesaggi del Baltico, distese grigie in cui si accendono improvvisi sprazzi di colore, si snoda la storia della famiglia Grabhau, una famiglia che porta come triste marchio distintivo quello dell’esilio. Per loro l’esilio non è una condanna, non è neanche una sofferenza, ma si potrebbe dire che è un mestiere, una vocazione. Perché da continui esili è scandita la melodia della storia di questa famiglia, dal capostipite, cavaliere cinquecentesco costretto ad abbandonare la patria natia per approdare sul Baltico a portare ‘la luce di Cristo’, fino alle nuove generazioni, che arriveranno addirittura nel Nuovo Mondo. E in ogni luogo un cui la famiglia si trova a vivere, con i nuovi componenti che rimpiazzano i vecchi, troviamo modi nuovi di adattarsi all’ambiente, di superare l’isolazionismo del migrante, di chi della sua patria può avere solo ricordi e storie, mai concretezze. Il cammino dell’ultimo erede dei Grabhau si snoda anche attraverso l’Italia, a Roma, per poi concludersi, dopo la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti.
Ma nel loro peregrinare, i Grabhau si portano appresso un palpito del cuore, una condizione esistenziale, un assetto morale che li porta a muoversi sul filo di un vertiginoso senso di vuoto, di un’estraneità quasi patologica verso il mondo che li circonda, salvo poi emergere con scatti di sensualità, passione e coraggio. E forse, il vero significato che Biancheri ci vuole comunicare con tutto il romanzo, non è altro che l’immane senso della storia, una riflessione sull’identità, del singolo come del nucleo, e sul valore del passato come garanzia di questa identità.
“Era certo, per esempio, che presto sarebbe venuta la rivoluzione e aveva deciso di emigrare. Non era un pensiero sorprendente: i von Grabhau erano infatti, se così si può dire, degli specialisti dell’esilio”.
Nessun commento:
Posta un commento