Tutto questo casino per cercare di farvi capire la mia ritrosia per
Ma allora di che cavolo sto parando? Sto parla
Finalmente sono arrivato a leggere la storia di cui avevo visto solo alcuni spezzoni nell’anime, e che mi aveva lasciato l’amaro in bocca per non averla potuta apprezzare nella sua interezza. Nelle storie che ho letto sono sempre stato affascinato dai personaggi che avevano anche lati ambigui del carattere e della personalità, come Wolverine o Gambit, ma anche Batman per molti versi, o Gatsu. I personaggi nettamente positivi mi suscitano un buonismo che dopo un po’ diventa stucchevole, mentre quelli al margine tra bene e male sono certamente più interessanti e complessi. E interessante e complessa è senza ombra di dubbio la figura di Nico Robin.
ginale, e che esordisce come avversaria dei protagonisti. Una donna estremamente forte, carismatica, bellissima e sicura di sé, determinata a raggiungere i suoi obiettivi. Estremamente intelligente e coltissima studiosa di archeologia, nasconde qualsiasi emozione dietro un sorriso beffardo e dissimulatore, al punto che difficilmente si può dire cosa stia provando realmente. Unitasi alla ciurma di cappello di paglia per sua stessa richiesta, viene accolta da alcuni con entusiasmo, da altri con diffidenza, ma si guadagna presto il rispetto e poi l’affetto dei compagni dimostrandosi una preziosa alleata grazie ai poteri del frutto del diavolo e alle sue enormi conoscenze.
di ottenere. Sfuggita miracolosamente al destino della sua gente, è costretta ad una vita da ricercata, fatta di furti, sotterfugi, fughe e sacrifici, sempre braccata dalla marina e dal governo, inevitabilmente e inesorabilmente sola. Fino a che non si unisce ad una banda di criminali che vede nelle sue conoscenze di archeologa la chiave per risvegliare un’arma distruttiva senza pari. È proprio in questa occasione che avrà l’opportunità prima di scontrarsi e poi di unirsi alla ciurma di Rufy dal cappello di paglia, diventando a tutti gli effetti una pirata.
È da tanto che volevo scrivere qualcosa di questo tipo, ma chissà perché non c’è mai stata l’occasione. Ultimamente, mi è capitato più di una volta di scrivere durante i turni di guardia di notte in ospedale, e in effetti l’atmosfera concilia la scrittura. E poi, per parlare di questo argomento, non ci può essere contesto migliore. Anche se mi sforzo, difficilmente riesco a pensare a un personaggio complesso come quello di cui vorrei scrivere stasera. E mi rendo anche conto che, ad una occhiata superficiale, può invece sembrare estremamente banale. Mi riferisco a John Dorian, JD, il protagonista principale di “Scrubs”. Una serie che ho imparato ad apprezzare nel corso delle diverse stagioni, della quale ho scoperto molte sfaccettature e ho trovato molti riscontri nella vita reale e nel mio lavoro. Pochi autori di serie televisive hanno saputo rappresentare la vita ospedaliera in maniera realistica come quelli di Scrubs. Per quanti non lo sapessero, il mondo degli ospedali veri non è certo quello di House o Grey’s anatomy. Non abbiamo stanze che sembrano suite d’albergo a cinque stelle, né decine di persone che lavorano per ogni singolo paziente, né la possibilità di fare tutto subito e nello stesso posto. Al contrario, la vita ospedaliera è fatta di compromessi, di nervosismo, di buona volontà, di sostegno reciproco, di conflitti, di fallimenti, di attriti, di collaborazione. Muoversi in questo contesto è una cosa difficile da imparare, ci vuole molta pazienza, spirito di sacrificio, capacità di adattamento, e bisogna aver sviluppato un buon apparato di meccanismi di difesa.
à di JD che lo rende reale. Una persona e non un personaggio, uno che si appassiona ai pazienti, alla loro vita, che li assiste mentre li cura, che si arrabbia se qualcosa va male. E uno per cui gli amici vengono sempre al primo posto. Anche nei contrasti, nelle incomprensioni, negli scontri che possono capitare tra colleghi, se una persona è tuo amico ci si ritrova sempre. Magari con una semplice battuta.
Che Lansdale non sia uno scrittore consueto lo sanno tutti quelli che hanno letto almeno uno dei suoi romanzi. Che sappia fotografare in maniera assolutamente personale alcuni spaccati dell’american lifestyle, soprattutto per quanto riguarda il profondo Sud, è anche questo un dato di fatto e non un’opinione. Questa volta però lo scopro alle prese con un genere particolare, difficile, ostico da trattare, soprattutto se si vuole farlo in maniera originale, vale a dire la fantascienza. In un ambito in cui si è visto di tutto e di più, riuscire a trovare spunti originali e ad organizzarli in un ritmo narrativo di buon livello è tutt’altro che facile, eppure l’autore americano non fallisce neanche questa prova.
Questa volta, a differenza di quello che accade di solito, a colpirmi è stato il nome dell’autore, anzi in questo caso dell’autrice. Solitamente, questo è l’ultimo degli elementi che considero in una lettura, tanto è vero che la stragrande maggioranza dei miei libri è opera di gente a me del tutto sconosciuta prima di leggerli. Strazzulla è invece un nome che è suonato familiare alle mie orecchie, perché è un nome tipico del paese, e in generale della zona della Sicilia, di cui è originario mio padre, Augusta. Considerato che i miei nonni hanno vissuto lì per molti anni e che io e la mia famiglia vi abbiamo passato alcune occasioni di vacanza, diverse cose si sono impresse nella mia memoria, e i cognomi tipici del posto sono una di queste. Così, suscitata la curiosità, ho dato un’occhiata al risvolto di copertina, e siccome era un po’ di tempo che non leggevo un romanzo fantasy, mi sono convinto. E in effetti non è stata una brutta scelta.
Beh, che dire… niente male come titolo. Niente cattura l’attenzione come qualcosa che non si capisce bene cosa sia. Misteri, indovinelli, rompicapo, enigmi, sono capaci di suscitare una delle sensazioni innate più affascinanti dell’essere umano: la curiosità. Già solo per questo, un’opera che ha un titolo così la comprerei. Ma qualcuno potrebbe volere di più. Che ne dite di una rivisitazione del concetto di supereroe? Lo so, Alan Moore ha fatto scuola in questo senso, e dopo di lui diversi sono gli autori che si sono cimentati con vari tentativi di svecchiare questa icona della cultura pop. Uno dei miei preferiti, per esempio, è Sam Kieth, che con il suo “The Maxx” ha creato un concetto di supereroe nuovo e del tutto calato in una dimensione surreale e metafisica. Un tentativo dello stesso genere, e anche qui secondo me ben riuscito, l’ha fatto proprio Peter Milligan con questo “Enigma”.
trova a scontrarsi con inquietanti, crudeli e del tutto folli criminali, bizzarri non solo nell’aspetto, ma soprattutto nei comportamenti e nelle intenzioni. In qualche modo Michael si rende conto che quegli eventi e quelle apparizioni sono legati a lui, e decide di partire alla ricerca della ragione di questo legame.
trama particolarmente ricca di svolte inaspettate e capovolgimenti di fronte. Un ultimo aspetto degno di nota è la tematica di trasgressione che richiama al contesto socio-culturale degli anni Novanta, e che certamente ha contribuito a influenzare almeno una parte dei messaggi trasmessi dall’opera. Un’opera che vale la pena leggere e conservare come esempio di grande romanzo a fumetti.
Saper cambiare è importante, soprattutto per chi, per dono, ha il talento di narrare. Così, fare la conoscenza di nuovi personaggi è sempre un’esperienza piacevole per chi legge le opere di un autore a cui è appassionato. Inoltre, in questo modo acquista qualità anche il lavoro precedente, che si capisce essere riuscito non solo per la presenza di quel tale personaggio ma per la caratterizzazione che l’autore ne dà. Con questo suo ultimo romanzo, Fred Vargas rientra appieno in questi concetti. È infatti vero che “Prima di morire addio” introduce un nuovo personaggio, Richard Valence, anche lui un poliziotto, anche lui protagonista di gialli, e un altro bizzarro trio, i tre Imperatori Tiberio, Nerone e Claude. Ma è anche vero che, al di là dei facili parallelismi con le sue opere precedenti (Adamsberg per il primo, i tre Evangelisti per i secondi), abbiamo di fronte un mondo completamente diverso. Quello ce si riconosce prepotentemente nello stile della scrittrice è lo stile lineare e l’attenta e coinvolgente caratterizzazione dei personaggi. Viviamo ancora una volta una attenta e penetrante descrizione degli stati d’animo, un continuo mutamento di interessi e passioni, un accostarsi di personalità contraddittorie che, le une accanto alle altre, formano un mosaico forse poco armonico ma certamente vivace e accattivante.


Quello dell’invisibilità è un tema molto sfruttato dagli scrittori che scelgono come tematiche delle loro storie quelle legate al sovrannaturale. Senza sforzare troppo la memoria, riesco a ricordare H. G. Welles, anche se devo confessare che purtroppo non ho ancora avuto occasione di leggere le sue opere, ma mi riprometto di farlo appena possibile. È proprio al romanzo di Welles che si è ispirato Jeff Lemire nello scrivere questa graphic novel, almeno da quello che si può leggere in quarta di copertina, riprendendone il tema fondamentale e trasponendolo in un’opera a fumetti piuttosto particolare.
Claudio Piersanti era un nome che suonava familiare quando l’ho letto sul ripiano della libreria, scritto in bianco su quell’oceano blu che è la copertina del suo nuovo romanzo. Qualche tempo fa, invece, era un nome del tutto estraneo e nuovo ai miei occhi. Quella volta, la copertina aveva lo sfondo scuro, e spiccava violento il colore rosso dei capelli di lei, che nella posa china in avanti coprivano quasi interamente il viso. Quel libro era “Il ritorno a casa di Enrico Metz” e devo dire che la mia memoria ha fatto un gradevole salto indietro quando ho riletto il nome dell’autore su un nuovo romanzo, qualche mese fa. Ricordo una piacevole sensazione di leggerezza che ho provato nel leggere quel romanzo, e alcune immagini, ferme nel tempo, che scandivano il ritmo della lettura. In particolare, ho in mente l’immagine autunnale di un parco, con le foglie rosse e marroni che cadono leggere a terra. Anche questo romanzo ha una narrazione molto introspettiva, come lo era stato l’altro, sebbene questa volta ci sia un elemento diverso che mi ha colpito.
Romanzo interessante, comprato per caso, un po’ come quasi tutto quello che compro, del resto, e che mi ha fatto riscoprire un genere di lettura che mi mancava da parecchio tempo. È quel tipo di romanzo che ti piace non tanto per quello che ti lascia alla fine dell’ultima pagina, ma per quello che vai trovando mentre lo leggi. Volendolo inquadrare in un genere, potremmo farlo rientrare tra i romanzi di formazione, quelli che narrano il percorso di crescita di un giovane catapultato nel mondo. In effetti questo aspetto è presente nel romanzo di Hannah Tinti, ma non è certamente l’unico e, forse, nemmeno il più significativo.
Stavolta, piuttosto che con il Morrison visionario e allucinato con il quale siamo abituati ad avere a che fare, siamo alle prese con quello cinico e spietatamente critico nei confronti della società. Quello della prima parte di “Animal man”, o delle prime cinque o sei pagine di “The Invisibles”, per intenderci. Non ci sono dialoghi assurdi, non ci sono creature dall’improbabile natura, non ci sono nemmeno supereroi. C’è solo una ragazza adolescente, anonima e annoiata, dalla vita monotona e totalmente prevedibile, immersa nei cliché della società piccolo borghese di un quartiere bene, dove la più grande preoccupazione familiare è cosa potrebbero pensare i vicini. Ad un certo punto questa ragazza vede piombare nella sua vita il classico teppista, selvaggio e irresistibile, che le mette davanti le possibilità di una vita vissuta ben oltre i confini della legalità e del buon costume. Il tipico ragazzo spedito (letteralmente) ad un orfanotrofio appena nato, dentro una scatola di cartone di cui gli hanno consegnato i francobolli, cresciuto poco e male, e per il quale sesso, alcol, droga e armi sono le uniche ragioni di vita. È ovvio che una presenza disturbante come questa non può non avere un qualche effetto sulla vita di una ragazza in un periodo complicato e pericoloso come l’adolescenza. Che fare? Continuare la sua vita di privazioni e banalità come se nulla fosse, o uccidere il proprio ragazzo e darsi alla fuga, senza sapere dove andare, inseguiti dalla polizia, e avendo come unico scopo quello di trascorrere un lampo di pura incoscienza e vitalità?