Se ne potrebbe parlare per ore e ore senza essere minimamente ripetitivi, eppure, quando si ascoltano certe cose, il più grande desiderio è quello di stare zitti e di apprezzare il valore del silenzio, in cui risuonano ancora le parole della canzone. Una voce roca, calda e profonda, appassionata nella sua tranquillità, nella sua calma.
È il periodo di natale, forse a qualcuno non sembrerà il momento giusto per parlare di queste cose, perché siamo tutti più buoni, le canzoncine si diffondono per le strade, le vetrine sono illuminate, tutti giocano a tombola, e altre stronzate del genere. Mi scuserete se non sono d’accordo con tutto questo. Non do valore religioso a questi giorni, ma ho il massimo rispetto per chi lo fa. Quello che un po’ mi infastidisce è che spesso il natale diventa la scusa per evitare certi discorsi, per non fare qualcosa che in un altro momento si farebbe. Ma soprattutto, non condivido il fatto che per forza bisogna essere felici e contenti come in una favola. Questo atteggiamento superficiale non mi è mai piaciuto, perché le cose brutte succedono anche nel periodo di natale, e ognuno ha il diritto di essere incazzato quanto vuole, ha il diritto di tenere il muso lungo anche al cenone, ha il diritto di voler stare chiuso in casa a riguardare vecchi film in dvd che conosce a memoria. Perché, al di là di tutte le ipocrisie, delle maschere di felicità che ci cuciamo addosso, in fondo tutti quanti non siamo altro che uomini, fatti di emozioni positive e negative insieme. Siamo rabbia e allegria, gioia e violenza, passione e invidia, odio e amore, impastati insieme con lacrime e sangue. Solo questo, nient’altro che uomini.
E proprio di questo parla quello che ho voluto chiamare “il vangelo secondo Fabrizio”. Mi riferisco a “La buona novella” di Fabrizio De Andrè, disco storico, uscito per la prima volta nel 1970, e che da allora ha fatto pensare e innamorare migliaia di fan, e ancora oggi, e poco meno di quarant’anni di distanza, è una delle opere più moderne e intense che io abbia mai ascoltato. Ogni canzone andrebbe studiata e analizzata per ore e ore, e forse sembrerò fanatico, ma non credo che farebbero brutta figura tra i testi di studio in un liceo. Ne ho volute isolare due, cui sono particolarmente legato, e che forse più di altre dimostrano come quella natura umana che molti si ostinano a negare è l’unica cosa che concede dignità e significato alla nostra esistenza.
È il periodo di natale, forse a qualcuno non sembrerà il momento giusto per parlare di queste cose, perché siamo tutti più buoni, le canzoncine si diffondono per le strade, le vetrine sono illuminate, tutti giocano a tombola, e altre stronzate del genere. Mi scuserete se non sono d’accordo con tutto questo. Non do valore religioso a questi giorni, ma ho il massimo rispetto per chi lo fa. Quello che un po’ mi infastidisce è che spesso il natale diventa la scusa per evitare certi discorsi, per non fare qualcosa che in un altro momento si farebbe. Ma soprattutto, non condivido il fatto che per forza bisogna essere felici e contenti come in una favola. Questo atteggiamento superficiale non mi è mai piaciuto, perché le cose brutte succedono anche nel periodo di natale, e ognuno ha il diritto di essere incazzato quanto vuole, ha il diritto di tenere il muso lungo anche al cenone, ha il diritto di voler stare chiuso in casa a riguardare vecchi film in dvd che conosce a memoria. Perché, al di là di tutte le ipocrisie, delle maschere di felicità che ci cuciamo addosso, in fondo tutti quanti non siamo altro che uomini, fatti di emozioni positive e negative insieme. Siamo rabbia e allegria, gioia e violenza, passione e invidia, odio e amore, impastati insieme con lacrime e sangue. Solo questo, nient’altro che uomini.
E proprio di questo parla quello che ho voluto chiamare “il vangelo secondo Fabrizio”. Mi riferisco a “La buona novella” di Fabrizio De Andrè, disco storico, uscito per la prima volta nel 1970, e che da allora ha fatto pensare e innamorare migliaia di fan, e ancora oggi, e poco meno di quarant’anni di distanza, è una delle opere più moderne e intense che io abbia mai ascoltato. Ogni canzone andrebbe studiata e analizzata per ore e ore, e forse sembrerò fanatico, ma non credo che farebbero brutta figura tra i testi di studio in un liceo. Ne ho volute isolare due, cui sono particolarmente legato, e che forse più di altre dimostrano come quella natura umana che molti si ostinano a negare è l’unica cosa che concede dignità e significato alla nostra esistenza.
Via della croce
Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav’uomo di nome Pilato.
Ben più della morte che oggi ti vuole,
t’uccide il veleno di queste parole:
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode, per te, trucidati.
Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
Misurano a gocce il dolore che provi:
trent’anni hanno atteso, col fegato in mano,
i rantoli d’un ciarlatano.
Si muovono curve, le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore
ma filtra dai veli il dolore:
fedeli umiliate da un credo inumano
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò Maddalena,
di chi con un gesto soltanto fraterno
una nuova indulgenza insegnò al padreterno,
e guardano in alto, trafitti dal sole,
gli spasimi d’un redentore.
Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti, al pensiero che tu li saluti:
“A redimere il mondo”, gli serve pensare,
“il tuo sangue può certo bastare”.
La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.
Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.
Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.
Il potere, vestito d’umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.
Ma gli occhi dei poveri piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via della croce ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come se stesso.
Son pallidi, al volto scavati al torace,
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore,
eppure hanno un poto d’onore.
Non hanno negli occhi scintille di pena,
non sono stupiti a vederti la schiena
piagata dal legno che a stento trascini,
eppure ti stanno vicini.
Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morire sulla croce anche loro,
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo, son solo due ladri.
Tre madri
Madre di Tito
“Tito non sei figlio di Dio,
ma c’è chi muore nel dirti addio”.
Madre di Dimaco
“Dimaco ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre”.
Le due madri
“Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l’immagine di un’agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno.
Lascia noi piangere, un po’ più forte,
chi non risorgerà più dalla morte”.
Madre di Gesù
“Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama ‘nostro Signore’,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di paradiso.
Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio
Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav’uomo di nome Pilato.
Ben più della morte che oggi ti vuole,
t’uccide il veleno di queste parole:
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode, per te, trucidati.
Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
Misurano a gocce il dolore che provi:
trent’anni hanno atteso, col fegato in mano,
i rantoli d’un ciarlatano.
Si muovono curve, le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore
ma filtra dai veli il dolore:
fedeli umiliate da un credo inumano
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò Maddalena,
di chi con un gesto soltanto fraterno
una nuova indulgenza insegnò al padreterno,
e guardano in alto, trafitti dal sole,
gli spasimi d’un redentore.
Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti, al pensiero che tu li saluti:
“A redimere il mondo”, gli serve pensare,
“il tuo sangue può certo bastare”.
La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.
Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.
Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.
Il potere, vestito d’umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.
Ma gli occhi dei poveri piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via della croce ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come se stesso.
Son pallidi, al volto scavati al torace,
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore,
eppure hanno un poto d’onore.
Non hanno negli occhi scintille di pena,
non sono stupiti a vederti la schiena
piagata dal legno che a stento trascini,
eppure ti stanno vicini.
Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morire sulla croce anche loro,
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo, son solo due ladri.
Tre madri
Madre di Tito
“Tito non sei figlio di Dio,
ma c’è chi muore nel dirti addio”.
Madre di Dimaco
“Dimaco ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre”.
Le due madri
“Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l’immagine di un’agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno.
Lascia noi piangere, un po’ più forte,
chi non risorgerà più dalla morte”.
Madre di Gesù
“Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama ‘nostro Signore’,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di paradiso.
Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio
t’avrei ancora per figlio mio”.
Una raccomandazione: adesso che avete letto il testo, correte in un qualsiasi negozio di dischi e comprate l'album (oppure ricorrete ad altri mezzi che non sto a dire...), poi ascoltate le canzoni, e mentre lo fate, magari sul lettore del PC, tornate sopra, e ricominciate a leggere.
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