Il titolo poteva essere “I viaggi di Gulliver”, ma la mia non è stata una dimenticanza, e ne dirò in seguito.
Curioso, adesso che ci penso, ricordo che ho letto questo libro proprio mentre ero in viaggio, il mio primo vero viaggio, con tanto di passaporto e tutto il resto, in Turchia, da poco diplomato e a pochi giorni dall’inizio dell’università. Era il 14 settembre 2001, e non credo serva ricordare di cosa si parlasse in quei giorni e che cosa voleva dire andare in un paese musulmano.
“I viaggi di Gulliver” è un libro meraviglioso, complesso e per nulla banale come alcuni possono pensare. Per chissà quale motivo, l’unica cosa che si ricorda di questo romanzo è Lilliput, e i suoi minuscoli abitanti, con cui Lemuel Gulliver si trova ad aver a che fare nel primo dei suoi viaggi. In realtà, questo è solo uno dei luoghi al limite dell’incredibile eppure estremamente concreti in cui il personaggio si ritrova nelle sue avventure. Saranno tante altre le terre esplorate e i popoli conosciuti, alcuni talmente bizzarri da sconvolgere, altri del tutto sovrapponibili a quelli del nostro mondo reale. Ma dentro al romanzo c’è molto di più del semplice racconto di viaggio. Satira politica, religiosa e sociale, considerazioni di ordine etico, morale ed evoluzionistico, definizioni ideologiche e simboliche. Le ragioni di tutto questo ovviamente si trovano nel periodo storico e nel contesto sociale in cui Jonathan Swift si trova a vivere, quell’Inghilterra a cavallo tra Seicento e Settecento in cui tutto cambia ad un ritmo talmente incalzante da rendere arduo il solo stare al passo. Ogni singola pagina è impregnata di accorgimenti linguistici molto particolari e preziosi. A questo proposito, vorrei far notare un aspetto molto interessante, non perché sia l’unico degno di nota, ma perché non posso certo soffermarmi su tutti, e le questioni di stile mi intrigano molto. Nel paese di Lilliput, in cui Gulliver è il gigante rispetto ai suoi abitanti, tutto è descritto con una precisione matematica impeccabile (misure, volumi, distanze). Nel paese dei giganti, in cui stavolta è lui ad essere un nanetto in mezzo a esseri mastodontici, ogni cosa viene definita in termini di similitudine, a dimostrare l’impossibilità, per chi guarda quegli oggetti e quei luoghi , di quantificarli numericamente, data la loro mole.
Ma c’è dell’altro. Non ho intitolato questo post con il titolo del romanzo per intero perché l’opera di Swift è stata fonte di ispirazione per un altro grande artista, stavolta contemporaneo. Un poeta musicista, un cantautore in puro stile italiano, che della sua passione per la letteratura ha fatto un’etichetta distintiva, e che risponde al nome di Francesco Guccini. L’artista, nel 1983, scrive, per l’abum “Guccini”, una canzone intitolata proprio Gulliver, e che del romanzo ha veramente tutto. In tre strofe è racchiuso tutto il significato de “I viaggi di Gulliver”, ed emblematico è il verso finale con cui si sancisce, una volta di più nel mondo dell’arte, che “La stessa ragione del viaggio è viaggiare”.
Gulliver – 1983 – Francesco Guccini
Nelle lunghe ore d’inattività e di ieri
che solo certa età può regalare,
Lemuel Gulliver tornava coi pensieri
ai tempi in cui correva per il mare.
E sorridendo come sa sorridere soltanto
chi non ha più paura del domani,
parlava coi nipoti, che ascoltavano l’incanto
di spiagge e odori, di giganti e nani,
scienziati ed equipaggi, e di cavalli saggi
riempiendo il cielo inglese di miraggi.
Ma se i desideri sono solo nostalgia,
o malinconia di in numeri altre vite,
nei vecchi amici che incontrava per la via,
in quelle loro anime smarrite,
sentiva la balbuzie intellettuale e l’afasia
di chi gli domandava per capire.
Ma confondendo i viaggi con la loro parodia,
i sogni con l’azione del partire,
di tutte le sue vite vagabondate al sole
restavan vuoti gusci di parole.
Poi dopo ripensando a quell’incedere incalzante
dei viaggi persi nella sua memoria,
intuiva con la mente disattenta del gigante
il senso grossolano della storia.
E nelle precisioni antiche del progetto umano,
o nel mondo suo, illusorio e limitato,
sentiva la crudele solitudine del nano,
sentiva la crudele solitudine del nano,
nell’universo, quasi esagerato,
due facce di medaglia, che gli urlavano in mente
“da tempo e mare, da tempo e mare,
da tempo e mare, da tempo e mare,
Curioso, adesso che ci penso, ricordo che ho letto questo libro proprio mentre ero in viaggio, il mio primo vero viaggio, con tanto di passaporto e tutto il resto, in Turchia, da poco diplomato e a pochi giorni dall’inizio dell’università. Era il 14 settembre 2001, e non credo serva ricordare di cosa si parlasse in quei giorni e che cosa voleva dire andare in un paese musulmano.
“I viaggi di Gulliver” è un libro meraviglioso, complesso e per nulla banale come alcuni possono pensare. Per chissà quale motivo, l’unica cosa che si ricorda di questo romanzo è Lilliput, e i suoi minuscoli abitanti, con cui Lemuel Gulliver si trova ad aver a che fare nel primo dei suoi viaggi. In realtà, questo è solo uno dei luoghi al limite dell’incredibile eppure estremamente concreti in cui il personaggio si ritrova nelle sue avventure. Saranno tante altre le terre esplorate e i popoli conosciuti, alcuni talmente bizzarri da sconvolgere, altri del tutto sovrapponibili a quelli del nostro mondo reale. Ma dentro al romanzo c’è molto di più del semplice racconto di viaggio. Satira politica, religiosa e sociale, considerazioni di ordine etico, morale ed evoluzionistico, definizioni ideologiche e simboliche. Le ragioni di tutto questo ovviamente si trovano nel periodo storico e nel contesto sociale in cui Jonathan Swift si trova a vivere, quell’Inghilterra a cavallo tra Seicento e Settecento in cui tutto cambia ad un ritmo talmente incalzante da rendere arduo il solo stare al passo. Ogni singola pagina è impregnata di accorgimenti linguistici molto particolari e preziosi. A questo proposito, vorrei far notare un aspetto molto interessante, non perché sia l’unico degno di nota, ma perché non posso certo soffermarmi su tutti, e le questioni di stile mi intrigano molto. Nel paese di Lilliput, in cui Gulliver è il gigante rispetto ai suoi abitanti, tutto è descritto con una precisione matematica impeccabile (misure, volumi, distanze). Nel paese dei giganti, in cui stavolta è lui ad essere un nanetto in mezzo a esseri mastodontici, ogni cosa viene definita in termini di similitudine, a dimostrare l’impossibilità, per chi guarda quegli oggetti e quei luoghi , di quantificarli numericamente, data la loro mole.
Ma c’è dell’altro. Non ho intitolato questo post con il titolo del romanzo per intero perché l’opera di Swift è stata fonte di ispirazione per un altro grande artista, stavolta contemporaneo. Un poeta musicista, un cantautore in puro stile italiano, che della sua passione per la letteratura ha fatto un’etichetta distintiva, e che risponde al nome di Francesco Guccini. L’artista, nel 1983, scrive, per l’abum “Guccini”, una canzone intitolata proprio Gulliver, e che del romanzo ha veramente tutto. In tre strofe è racchiuso tutto il significato de “I viaggi di Gulliver”, ed emblematico è il verso finale con cui si sancisce, una volta di più nel mondo dell’arte, che “La stessa ragione del viaggio è viaggiare”.
Gulliver – 1983 – Francesco Guccini
Nelle lunghe ore d’inattività e di ieri
che solo certa età può regalare,
Lemuel Gulliver tornava coi pensieri
ai tempi in cui correva per il mare.
E sorridendo come sa sorridere soltanto
chi non ha più paura del domani,
parlava coi nipoti, che ascoltavano l’incanto
di spiagge e odori, di giganti e nani,
scienziati ed equipaggi, e di cavalli saggi
riempiendo il cielo inglese di miraggi.
Ma se i desideri sono solo nostalgia,
o malinconia di in numeri altre vite,
nei vecchi amici che incontrava per la via,
in quelle loro anime smarrite,
sentiva la balbuzie intellettuale e l’afasia
di chi gli domandava per capire.
Ma confondendo i viaggi con la loro parodia,
i sogni con l’azione del partire,
di tutte le sue vite vagabondate al sole
restavan vuoti gusci di parole.
Poi dopo ripensando a quell’incedere incalzante
dei viaggi persi nella sua memoria,
intuiva con la mente disattenta del gigante
il senso grossolano della storia.
E nelle precisioni antiche del progetto umano,
o nel mondo suo, illusorio e limitato,
sentiva la crudele solitudine del nano,
sentiva la crudele solitudine del nano,
nell’universo, quasi esagerato,
due facce di medaglia, che gli urlavano in mente
“da tempo e mare, da tempo e mare,
da tempo e mare, da tempo e mare,
da tempo e mare non si impara niente”.
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