Storie di serial killer ce ne hanno raccontate tante, nei libri, nei film e nei fumetti, ormai li conosciamo meglio di qualsiasi altro tipo di personaggi. Eppure, ogni volta, la figura dell’assassino seriale suscita un’attrazione nello spettatore che non è comune ad altri personaggi. È innegabile che le menti malate suscitino un fascino particolare su chi crede di essere diverso da loro. E spesso è proprio il fatto che questi pazzi sembrano tutt’altro che pazzi a incuriosire chi legge o chi guarda. Mr. Zsasz è un esempio perfetto di questa attrazione. Quello che da sempre identifica il serial killer è la sua straordinaria lucidità. Per questo Victor Zsasz è molto diverso da tutti gli altri criminali psicopatici che abbiamo visto in questa lunga carrellata di ospiti del manicomio Arkham di Gotham city. Se infatti tutti gli altri ospiti delle celle di Arkham si sono sempre distinti nella nobile arte del pluriomicidio, le ragioni, o le non-ragioni, che ne hanno determinato le azioni sono sempre state molto particolari. La follia innata del Joker, la doppia personalità di Due facce, l’estremismo ambientalista di Poison Ivy, hanno sempre caratterizzato questi personaggi come qualcosa di ‘diverso’ da noi. Mr. Zsasz non ha niente di tutto questo. La caratteristica fondamentale del puro serial killer è l’ordine. In questi soggetti, la follia non si identifica con esagerate manifestazioni di violenza, con la teatralità o con un substrato psicologico perturbante. Il serial killer è una persona che nella vita di tutti i giorni è normalissima, praticamente indistinguibile da chiunque altro. Non ci sono condizionamenti esterni a determinare le sue azioni, non ci sono manifestazioni impulsive, non ci sono tratti psicologici palesemente alterati. Il serial killer non sente le voci che gli ordinano di uccidere, non è stato abbandonato o maltrattato da piccolo, non è stato esposto a sostanze psicotrope, non ha vissuto in contesti sociali al di fuori della normalità. È per questo che suscita tutto questo fascino in chi ne segue le azioni: perché tutto sommato, potrebbe benissimo essere uno di noi. La sua follia è molto più profonda di una ‘banale’ schizofrenia, o di un ‘banale’ sdoppiamento di personalità. Lui uccide perché vuole farlo. E Mr. Zsasz rappresenta alla perfezione questo modello. Forse l’unica differenza con i normali serial killer è che lui non ha un bersaglio preferito. Molti scelgono una particolare categoria di persone come loro vittime, selezionate in base ad una o più caratteristiche, che possono essere il sesso, l’età, la razza, la condizione sociale o quant’altro. Mr. Zsasz invece uccide chiunque gli capiti a tiro. Per il resto, ha tutte le caratteristiche dell’assassino seriale: quasi sempre la stessa arma, il coltello, il rituale di comporre i corpi delle sue vittime in modo da farle sembrare intente alle loro attività quotidiane, l’inesauribile pazienza nell’aspettare il momento dell’azione, l’assoluta lucidità con cui programma, esegue e descrive i suoi omicidi. Anche l’abitudine di incidersi un taglio sulla pelle per ogni vittima, che potrebbe sembrare nascondere qualche particolare significato, per lui non è altro che un modo per tenere il conto. Sono proprio queste caratteristiche a renderlo il folle criminale che è: in lui c’è tutto quello che può essere ritrovato in una persona normale, solo che è esasperato fino all’inverosimile.
Non è un caso quindi che una personalità così particolare come quella di Victor Zsasz susciti tanta attrazione nelle persone che gli stanno intorno per lavoro, vale a dire i suoi psichiatri. Mr. Zsasz compare per la prima volta nel giugno 1992, nella storia “The last Arkham” scritta da Alan Grant. Grant era già un autore di fumetti con alle spalle una carriera di tutto rispetto, ma è curioso come, subito dopo aver scritto questa storia, gli vennero rivolte accuse di plagio che sostenevano la avesse copiata da “Il silenzio degli innocenti”. In effetti, potrebbe anche sembrare che sia così, ma non ci sono motivi per dubitare della parola di Grant quando dice che fu solo un caso. Aveva in mente una storia di questo tipo già da molti anni, da quando frequentava una ragazza che studiava psicologia e aveva avuto per le mani alcuni suoi libri. Proprio questo aneddoto sta a dimostrare come la figura del serial killer e dello psichiatra che lo cura hanno molto spesso attratto le menti più creative. Così come Jodie Foster nel film, anche in “The last Arkham” c’è uno psichiatra che subisce il fascino della follia del suo assistito. E non è un caso che sia proprio Jeremiah Arkham, nipote di Amadeus Arkham, il fondatore del manicomio omonimo, a seguire il caso di Victor Zsasz. Così come lo zio, anche Jeremiah si troverà talmente coinvolto nelle vite al di fuori della normalità che risiedono tra le mura del manicomio da venirne profondamente segnato, fino a sprofondare anche lui nella pazzia. E in questa caduta, Mr. Zsasz gioca un ruolo fondamentale.
Ma anche le altre storie del volume sono interessanti. In “Il primo taglio è il più profondo”, sempre scritta da Alan Grant, la dottoressa Temple viene messa a conoscenza insieme a noi dell’origine della follia di Mr. Zsasz, e del motivo che lo spinge a uccidere.
“Mi guardi negli occhi, dottore, comunichiamo. Io uccido perché voglio uccidere. Perché ho scelto di uccidere”.
È mentre pronuncia questa frase che Mr. Zsasz stringe le dita intorno al collo dell’ingenua dottoressa, fino ad ucciderla. Spingersi a contatto con una mente come questa può essere molto, molto pericoloso.
Le altre due storie sono interessanti per un altro motivo. Tutto quello che c’era da dire su Mr. Zsasz l’ha fatto nelle prime due Alan Grant, e anche se le altre due aggiungono qualche particolare, non c’è niente di nuovo. Quello che è interessante è il rapporto di Batman con due comprimari delle sue storie. In “Vittime”, Mr. Zsasz commette l’errore di scegliere come bersaglio Alfred Pennyworth, scatenando la furia di Batman. Ma è il personaggio di Bruce Wayne che ci colpisce, un personaggio di cui scopriamo un profondo sentimento che lo lega al maggiordomo. Per Bruce, Alfred rappresenta tutto quello che rimane della sua famiglia, tutto quello che lo spinge a fare quello che fa.
Infine, in “...e tutto coperto di rosso”, compare un personaggio che ha avuto poca vita (letteralmente!) nelle storie di Batman, vale a dire Stephanie Brown, il quarto Robin. Dopo Dick Grayson e Jason Todd, Tim Drake aveva ricoperto i panni del ragazzo meraviglia, ma per motivi familiari aveva lasciato Batman ritirandosi dal suo ruolo e lasciandolo vacante. Occasione ghiotta per una giovane promessa della lotta al crimine di Gotham, Stephanie, di diventare l’aiutante del pipistrello. Troppo giovane, forse. Al punto da non sapere ancora distinguere la differenza tra giustizia e vendetta. Ma questo ci concede l’occasione per vedere la severità con cui Batman addestra i suoi compagni.
“Ci sono sempre opzioni diverse dall’uccidere. E se non impari a vedere prima quelle opzioni... allora non puoi essere il mio partner”.
“Mi stai licenziando?”.
“No... Ti sto educando”.
“Mi stai licenziando?”.
“No... Ti sto educando”.
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