Lazlo bane "Superman" - Sigla apertura "Scrubs"
Da qualche anno abbiamo assistito ad un continuo affollarsi di serial televisivi che parlano di medici. Badate bene, ho detto di medici, non di medicina. La precisazione mi è necessaria, visto che da pochi anni a questa parte, sui sentieri della medicina vera ho cominciato a muovere i primi, esitanti, passi. Ed è intuibile anche a chi non è dell’ambiente che quello di cui si parla in quei telefilm è solo uno spettacolo teatrale, non la realtà, per quanto tutto o quasi abbia un’attinenza con la scienza medica ufficiale. Ma non sono i tecnicismi quelli che mi interessano in questo momento. In fondo, non c’è il rischio che qualcuno prenda decisioni mediche solo guardando un telefilm. Volevo invece parlare di quegli argomenti che non sono strettamente accademici, ma che incessantemente entrano a far parte del lavoro di chi si trova a contatto con persone che stanno male. Mi riferisco all’etica, alle riflessioni personali, ai sentimenti che si provano, ai rapporti con i colleghi e con i superiori. Non avendo molto tempo per lo svago, non ho seguito tutte le serie che sono state proposte in televisione in Italia, conoscendole solo di nome. Quelle che ho seguito costantemente sono “Dr. House – Medical division”, “Grey’s anatomy” e “Scrubs – Medici ai primi ferri”. Il primo ruota tutto intorno alla figura di un medico geniale ma assolutamente eccessivo in ogni suo comportamento, impegnato a risolvere casi impossibili. Il secondo si incentra più sui rapporti interpersonali tra i protagonisti, che comunque si ritrovano a contatto con situazioni di ambito medico. L’ultimo, che nasce come parodia comica dell’attività ospedaliera, ha come protagonisti dei giovani medici alle prime armi, o meglio ai primi ferri, come dice il titolo stesso. Ed è proprio di Scrubs che vorrei parlare, perché, dal mio punto di vista, è la serie che più di tutte le altre parla di medicina.
Non voglio fare un racconto sterile della trama dei vari episodi, perché sarei noioso e perché ogni episodio va visto con i propri occhi, non letto nel resoconto di qualcun altro. Mi soffermerò su alcuni momenti particolari, senza indicare in quale episodio avvengono, per poi fare qualche riflessione.
Il primo che mi viene in mente è quello in cui il dottor Cox, uno strutturato di medicina, ha un battibecco con Turk, un assistente di chirurgia. Turk sostiene di essere un mago della chirurgia, e Cox gli propone una scommessa: “Venti dollari che [se operi il paziente] lo uccidi”. Turk accetta e vince la scommessa. Cox paga, ma gli fa notare un cosa cui il giovane non aveva pensato: “Ti rendi conto che trovi normale fare una scommessa sulla vita o la morte di un paziente?”. Questa cosa mette in crisi Turk, che si rende conto di non aver considerato la responsabilità di quello che fa. Un minimo errore può fare la differenza tra la vita e la morte di una persona. Ma alla fine, Cox gli dà un altro insegnamento, facendogli vedere una cosa: “Vedi il dottor Wen? Sta dicendo ai familiari che qualcosa è andato male durante l’intervento e il paziente è morto. Poi uscirà e tornerà a fare il suo lavoro. Pensi che qualcun altro in quella stanza tornerà a lavorare, oggi? Ecco il senso del nostro distacco, delle nostre battute. Non le facciamo perché è divertente, ma per tirare avanti… e anche perché è divertente… ma soprattutto per tirare avanti”.
Questa non è una frase da telefilm. Magari qualcuno, sentendomi dire queste cose, storcerà il naso, ma è la verità: tutti noi, anche io, prendiamo in giro i pazienti, facciamo battute, oppure li spersonalizziamo chiamandoli solo come malattie. Non lo facciamo davanti a loro, ovvio, perché sarebbe offensivo, ma lo facciamo tra di noi. Perché se quelli che stanno nei letti smettono di essere malattie e diventano cuccioli indifesi da salvare e coccolare, non sarà possibile affrontare gli innumerevoli fallimenti che ci troveremo davanti nel lavoro. Per semplificare, direi che il 20% dei nostri pazienti guarisce, il 10% muore in tempi brevi, e per il restante 70% ci limitiamo a mettere delle pezze su una tela che va strappandosi sempre più. E quest’ultima è la cosa più difficile con cui confrontarsi: sapere che il nostro lavoro nella maggioranza dei casi è destinato a fallire, presto o tardi.
Collegato a questo, mi viene in mente un altro frammento, in cui il dottor Kelso, il primario, si lamenta che molti dottori non dedicano le dovute attenzioni ai pazienti terminali, mentre il dottor Cox sostiene che bisogna dedicarsi solo a quelli in cui c’è una possibilità concreta di intervento. La sua giustificazione potrebbe essere condivisa, perché dice che ottenere qualche vittoria serve a sopportare il peso di tutte le altre sconfitte. In una situazione del genere mi sono trovato personalmente, e ne ho discusso con una collega più grande. Il caso riguardava un paziente tossicodipendente che a poche ore dal ricovero aveva sviluppato un’insufficienza multiorgano per la quale sul serio non c’era praticamente nulla da fare. La collega era dell’opinione di Cox, cioè che non valeva la pena insistere, visto che sapevamo tutti che il risultato non sarebbe cambiato. Io invece credo che non sia così accettabile questa conclusione. Indubbiamente, ottenere dei risultati positivi è importante per fare bene il proprio lavoro, ma smettere di fare qualcosa perché tanto non cambia il finale non fa parte del mio modo d’agire. Credo che dobbiamo combattere tutte le battaglie, anche quelle che sappiamo essere perse in partenza, con la consapevolezza che spesso perderemo. È anche e soprattutto da questa consapevolezza, e non solo dalle vittorie, che si ottiene la forza per affrontare le numerose sconfitte. Inoltre, secondo me, fino a che c’è una minima possibilità, bisogna continuare, anche quando questo significa sprecare risorse inutilmente, perché è pericoloso pensare che arrivati a un certo punto non vale più la pena andare avanti. Se si ragiona così, vengono a mancare gli stimoli per fare ogni giorno quel passo in più che può fare la differenza, e forse ragiono così perché ho solo venticinque anni, ma per me fare quel passo in più è importante.
Non voglio fare un racconto sterile della trama dei vari episodi, perché sarei noioso e perché ogni episodio va visto con i propri occhi, non letto nel resoconto di qualcun altro. Mi soffermerò su alcuni momenti particolari, senza indicare in quale episodio avvengono, per poi fare qualche riflessione.
Il primo che mi viene in mente è quello in cui il dottor Cox, uno strutturato di medicina, ha un battibecco con Turk, un assistente di chirurgia. Turk sostiene di essere un mago della chirurgia, e Cox gli propone una scommessa: “Venti dollari che [se operi il paziente] lo uccidi”. Turk accetta e vince la scommessa. Cox paga, ma gli fa notare un cosa cui il giovane non aveva pensato: “Ti rendi conto che trovi normale fare una scommessa sulla vita o la morte di un paziente?”. Questa cosa mette in crisi Turk, che si rende conto di non aver considerato la responsabilità di quello che fa. Un minimo errore può fare la differenza tra la vita e la morte di una persona. Ma alla fine, Cox gli dà un altro insegnamento, facendogli vedere una cosa: “Vedi il dottor Wen? Sta dicendo ai familiari che qualcosa è andato male durante l’intervento e il paziente è morto. Poi uscirà e tornerà a fare il suo lavoro. Pensi che qualcun altro in quella stanza tornerà a lavorare, oggi? Ecco il senso del nostro distacco, delle nostre battute. Non le facciamo perché è divertente, ma per tirare avanti… e anche perché è divertente… ma soprattutto per tirare avanti”.
Questa non è una frase da telefilm. Magari qualcuno, sentendomi dire queste cose, storcerà il naso, ma è la verità: tutti noi, anche io, prendiamo in giro i pazienti, facciamo battute, oppure li spersonalizziamo chiamandoli solo come malattie. Non lo facciamo davanti a loro, ovvio, perché sarebbe offensivo, ma lo facciamo tra di noi. Perché se quelli che stanno nei letti smettono di essere malattie e diventano cuccioli indifesi da salvare e coccolare, non sarà possibile affrontare gli innumerevoli fallimenti che ci troveremo davanti nel lavoro. Per semplificare, direi che il 20% dei nostri pazienti guarisce, il 10% muore in tempi brevi, e per il restante 70% ci limitiamo a mettere delle pezze su una tela che va strappandosi sempre più. E quest’ultima è la cosa più difficile con cui confrontarsi: sapere che il nostro lavoro nella maggioranza dei casi è destinato a fallire, presto o tardi.
Collegato a questo, mi viene in mente un altro frammento, in cui il dottor Kelso, il primario, si lamenta che molti dottori non dedicano le dovute attenzioni ai pazienti terminali, mentre il dottor Cox sostiene che bisogna dedicarsi solo a quelli in cui c’è una possibilità concreta di intervento. La sua giustificazione potrebbe essere condivisa, perché dice che ottenere qualche vittoria serve a sopportare il peso di tutte le altre sconfitte. In una situazione del genere mi sono trovato personalmente, e ne ho discusso con una collega più grande. Il caso riguardava un paziente tossicodipendente che a poche ore dal ricovero aveva sviluppato un’insufficienza multiorgano per la quale sul serio non c’era praticamente nulla da fare. La collega era dell’opinione di Cox, cioè che non valeva la pena insistere, visto che sapevamo tutti che il risultato non sarebbe cambiato. Io invece credo che non sia così accettabile questa conclusione. Indubbiamente, ottenere dei risultati positivi è importante per fare bene il proprio lavoro, ma smettere di fare qualcosa perché tanto non cambia il finale non fa parte del mio modo d’agire. Credo che dobbiamo combattere tutte le battaglie, anche quelle che sappiamo essere perse in partenza, con la consapevolezza che spesso perderemo. È anche e soprattutto da questa consapevolezza, e non solo dalle vittorie, che si ottiene la forza per affrontare le numerose sconfitte. Inoltre, secondo me, fino a che c’è una minima possibilità, bisogna continuare, anche quando questo significa sprecare risorse inutilmente, perché è pericoloso pensare che arrivati a un certo punto non vale più la pena andare avanti. Se si ragiona così, vengono a mancare gli stimoli per fare ogni giorno quel passo in più che può fare la differenza, e forse ragiono così perché ho solo venticinque anni, ma per me fare quel passo in più è importante.
Potrei continuare all’infinito, e non è mia intenzione, anche perché credo che ritornerò a parlare di questa serie. L’ultimo frammento di cui faccio cenno riguarda Elliot, assistente di medicina come JD, il protagonista principale. Lei si trova alle prese con una situazione molto difficile, e JD le consiglia di prendere tempo e aspettare, seguendo la regola del ‘chi vivrà, vedrà’ come fa lui. Invece lei rischia, e purtroppo il paziente muore. Periodicamente, in ospedale si tiene un incontro in cui si analizzano i casi più complessi, e stavolta tocca al caso di Elliot. Il primario espone il caso, e conclude con un elogio per la dottoressa: senza tentare, il paziente non avrebbe avuto nessuna possibilità, mentre con la sua decisione difficile, lei gli ha dato una speranza. Questo è anche il mio pensiero, anche se capisco quelli che non vogliono correre rischi. Forse tengono alla salute dei pazienti, ma in buona parte tengono più alla loro, il che è comprensibile. Rischiare significa esporsi a responsabilità molto grandi, anche perché, se si parla chiaro con i familiari fin da subito, dicendo che non c’è molto da fare, difficilmente questi potranno lamentarsi in seguito, mentre lo fanno sempre quando si rischia e non si ottiene lo stesso niente. Purtroppo però, questo porta sempre più a selezionare i casi facili da quelli difficili, dando la colpa, in questi ultimi, ai precedenti colleghi che avrebbero potuto fare qualcosa, mentre adesso non si può più. Non mi piace questo modo di fare. Io considero ogni risultato negativo come un mio fallimento personale, non come qualcosa che non potevo evitare in alcun modo. Così, spero di avere lo stimolo a migliorare, invece che scaricare responsabilità su altri.
7 commenti:
Mamma mia...adesso chi ci mette più piede in ospedale! Fino ad ora io ho fatto solo visite generiche, prelievi e ho preso la pressione...Aiuto!
Cmq bellissimo articolo, sono d'accordo con tutto quello che hai scritto. Oltre a House, Gray e Scrubs c'è una serie sui medici assolutamente cult: Nip/Tuck. Non so se l'hai mai intravista, parla di chirurgia plastica. Ho scritto un articolo questa settimana su questa serie, appena me lo pubblicano sul giornale lo metto sul blog così mi puoi dire che ne pensi. Complimenti per il blog.
Che bello, ben due commenti da parte tua!
Non dirlo neanche per scherzo! Frequentare un reparto è un'esperienza straordinaria, non solo professionalmente. Ma visto che è una cosa cui tengo molto, preferisco parlartene in una mail, con più calma. Di Nip/Tuck ho visto qualche spezzone, ma prima di esprimere commenti aspetto di leggere il tuo articolo. Teniamoci in contatto.
PS. Il link per il test è
http://www.thesuperherotest.com
Bellissimo questo post e davvero interessante soprattutto mi piace il tuo spirito!
Purtroppo però scrubs l'ho seguito davvero poco.
Male, molto male!
...
Scherzi a parte, Scrubs è davvero una serie meravigliosa, te la consiglio vivamente. C'è più medicina in questa che in tutte le altre che ho visto messe insieme. Medicina nel senso della vita da medico, che io ho coinciato ad apprezzare da tre anni ad ora, e che in questo periodo di eremitaggio, chiuso in casa a studiare, mi manca da morire. I miei specializzandi di reparto non sono solo colleghi, e neanche solo amici: ormai sono la mia famiglia. Un po' come per JD. Chissà, forse un giorno scriverò qualcosa anche su questo. A presto, e stai serena...
PS. Oggi ho dato un altro esame, Geriatria e valutazione della disabilità!
PPS Ma tu che specializzazione vuoi fare? Te l'ho già chiesto? Se l'ho fatto, ti chiedo scusa, ma il mio cervello è un po' in fumo per adesso...
un altro? già??? quello l'ho fatto anch'io...ed è andato molto bene. Ma da noi si chiama geriatria e malattie dell'invecchiamento.
cmq per l'altra cosa... in privato magari!
ah cercherò di trovare scrubs! ;-)
Sara
Ti chiedo scusa, forse è una domanda un po' troppo personale, non me ne sono reso conto. Non sei per nulla obbligata a rispondermi, se non vuoi, anch'io i primi tempi che avevo scelto non ne volevo parlare con nessuno, specialmente con i colleghi, per paura che i loro commenti potessero dissuadermi. Quindi non preoccuparti, la mia e-mail ce l'hai, quando hai voglia di parlare, di medicina o di altro, sono sempre pronto. A presto, e grazie per le tue visite al mio blog, è bello sapere che lo apprezzi!
Molto bello il tuo blog. Ho commentato questo post perchè concordo pienamente con quello che dici. Io sono all'ultimo anno di medicina e sono stata abbastanza in reparto da aver visto con i miei occhi che è l'unica serie "realistica" sulla medicina. I colleghi come una famiglia, l'infallibilità un'utopia, una certa dose di cinismo e il contatto (quotidiano) con il dolore da cui comunque non si riescono a prendere le distanze.
Quella di Cox che hai riportato è una delle mie frasi preferite di Scrubs, una di quelle che sento più vere.
E,tutto sommato, sono felice che in un mondo che tende ad accusare e colpevolizzare sempre più i medici, ci sia anche qualcuno che cerca di mettersi nei loro panni.
Ad ogni modo, dopo lo sproloquio, ti saluto. Tornerò però presto a trovarti qui perchè questo blog è davvero molto bello.
Ciao
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