mercoledì 29 ottobre 2008
Cinquant'anni in medicina
lunedì 27 ottobre 2008
Piano meccanico
In memoria 75 - Conte Ugolino
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suoi ma’ pensieri,
fidandomi di lui, i fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi aver inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro della muda,
la qual per me ha il titol della fame,
e in che convien ancor ch’altri si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci il mal sonno
che del futuro mi squarciò il velame.
[...]
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra il sonno i miei figliuoli,
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli,
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
[...]
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, ed io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le mani per dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia
di manicar, di subito levarsi,
e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia!’
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti:
ahi, dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
e disse: ‘Padre mio, chè non m’aiuti?’
Quindi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti:
poscia, più che il dolor, potè il digiuno.”
Inferno, canto XXXIII versi 13-27, 37-42 e 55-75
mercoledì 22 ottobre 2008
Zero girl
In memoria 74 - Conte Ugolino
ch’io vidi duo ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo all’altro era cappello;
e come il pan per fame si marduca,
così il sopran li denti all’altro pose,
là ‘ve il cervel s’aggiunge con la nuca.
Non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
“O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi il perché,” diss’io, “ per tal convegno,
che, se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’i’ parlo non si secca.”
Inferno, canto XXXII versi 124-139
domenica 19 ottobre 2008
Il Principe della risata
Per questo, ieri pomeriggio ho voluto rivedere un vecchio film. Lui stesso si definiva il Principe della risata, legatissimo a quel titolo nobiliare che per lungo tempo gli era stato negato. Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò. Uno con un nome così era destinato a far ridere la gente. Purtroppo non posso dire di aver visto tutti i suoi film (che non sono certo pochi, aggiungerei), ma un bel po’ sì. Quello che rimane impresso, anche dopo tanti anni, è la piccola battuta a cui accennavo prima, quella detta quasi con indifferenza, con naturalezza, accompagnata da una smorfia della faccia come solo lui sapeva fare. Mi torna in mente che parecchi anni fa, in estate, fecero una rassegna cinematografica pomeridiana su Totò. Ogni pomeriggio, alle due, riproponevano un suo film. Orario assurdo in un periodo assurdo, le due di pomeriggio in estate! O sei a mare, o sei a letto che ti riposi, non ci sono altre possibilità. Io invece mi piazzavo davanti alla televisione, guardavo i suoi film, e ridevo. L’unica cosa brutta che percepisco al ricordo di frasi come “Parli come badi” o “Ogni limite ha una pazienza”, è la consapevolezza che difficilmente ci sarà ancora qualcuno capace di far ridere in questo modo. Per questo, mi è sembrato molto bello questo omaggio a Totò di Federico Salvatore, e ho voluto condividerlo con voi.
Federico Salvatore - Oe' Totò!
sabato 18 ottobre 2008
L'uomo a rovescio
In memoria 73 - Bocca degli Abati - Buoso da Dovara
fatti per freddo; onde mi vien ribrezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
E mentre ch’andavamo inver lo mezzo
al quale ogni gravezza si rauna,
e io tramava nell’eterno rezzo;
se voler fu, o destino, o fortuna
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi il piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?
Se tu non vieni a crescer la vendetta
di Mont’Aperti, perché mi moleste?”
[...]
“Qual se’ tu, che così rampogni altrui?”
“Or tu chi se’, che vai per l’Antenora,
percotendo,” rispuose, “altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?”
“Vivo son io, e caro esser ti puote,”
Fu mia risposta, “se domandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.”
Ed egli a me: “Del contrario io ha brama:
levati quinci, e non mi dar più lagna;
chè nol sai lusingar per questa lama!”
Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: “E’ converrà che tu ti nomi,
o che capel qui su non ti rimanga!”
Ond’egli a me: “Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mostrerolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi.”
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con gli occhi in giù raccolti;
quando un altro gridò: “Che ha tu, Bocca?
Non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? Qual diavol ti tocca?”
“Omai,” diss’io, “non vo’ che tu favelle,
malvagio traditor! Che alla tua onta
io porterò di te vere novelle.”
“Va’ via,” rispuose, “e ciò che tu vuoi, conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebb’or così la lingua pronta.
Ei piange qui l’argento de’ Franceschi:
‘Io vidi,’ potrai dir, ‘quel da Duera
là dove i peccator stanno freschi.’”
Inferno, canto XXXII versi 70-81 e 87-117
mercoledì 15 ottobre 2008
Il figlio del demone
In memoria 72 - Napoleone e Alessandro degli Alberti - Camicione dei Pazzi
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che il pel del capo avieno inseme misto.
“Ditemi, voi che sì stringete i petti,”
diss’io, “chi siete?” E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
gli occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e il gelo strinse
le lagrime tra essi, e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei, come due becchi,
cozzaro insieme, tanta ira li vinse!
E un ch’avea perduto ambo gli orecchi
per la freddura, pur col viso in giue,
disse: “Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenza si di china,
del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro, e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina;
[...]
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’io fui il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scongiuri.”
Inferno, canto XXXII versi 40-60 e 67-69
venerdì 10 ottobre 2008
Il Signore delle mosche
In memoria 71 - Cocito
sotto i piè del gigante, assai più bassi,
e io mirava ancor all’alto muro,
dicere udimmi: “Guarda come passi!
Va’ sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi!”
Perch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago, che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
[...]
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor dell’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana;
livide insin là dove appar vergogna,
eran l’ombre dolenti nella ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia:
da bocca il freddo, e dagli occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Inferno, canto XXXII versi 16-24 e 31-39
venerdì 3 ottobre 2008
Follia
In memoria 70 - Anteo
e venimmo ad Anteo, che ben cinqu’alle,
sanza la testa, uscia fuor della grotta.
“O tu, che nella fortunata valle,
che fece Scipion di gloria reda,
quando Annibal co’ suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato all’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli della Terra;
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci far ire a Tizio né a Tifo;
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama;
ch’ei vive, e lunga vita ancor aspetta,
se innanzi tempo grazia a sé nol chiama.”
Inferno, canto XXXI versi 112-129