mercoledì 29 ottobre 2008
Cinquant'anni in medicina
lunedì 27 ottobre 2008
Piano meccanico
Il primo che ho letto è stato “Mattatoio n° 5”, e dopo averlo finito, la prima cosa che ho pensato è stata: ‘Li devo avere tutti’. Chi aveva scritto quel capolavoro meritava che anche tutti gli altri suoi romanzi venissero letti, direi quasi con dedizione. Così, con pazienza e con molti risparmi, ci sono riuscito. A poco a poco, le costine con la stessa grafica aumentavano di numero sulla mensola, e io mi perdevo in quei mondi straordinari che la mente di Kurt Vonnegut riusciva a creare. Un autore molto particolare, che ha capito forse prima di chiunque altro che la fantascienza doveva essere un mezzo per spiegare il mondo reale, non per fuggire da questo. Ogni volta che qualcuno mi vedeva leggere un libro di Vonnegut e mi chiedeva di cosa parlasse, io rispondevo: “Lo spunto iniziale è un viaggio nello spazio”, oppure “In una società del futuro...”. a questo punto, il commento di chi mi aveva posto la domanda immancabilmente era: “Ah, ho capito, una storia per ragazzi”. Dentro di me si smuoveva un nervoso che non so descrivere a parole. A parte che non capisco perché ‘per ragazzi’ debba significare ‘di scarso valore’, in realtà quelle di Vonnegut non sono affatto storie semplici. Ogni singolo romanzo è una spietata e feroce critica alla società americana (di cui lui stesso faceva parte), con una satira pungente e ironica che fa sorridere con le sue trovate, ma che fa anche riflettere. Ogni romanzo si scaglia contro dei particolari aspetti della società, quella americana nello specifico, che però viene assunta come modello globale per parlare di tutto il mondo e di tutti gli uomini.In memoria 75 - Conte Ugolino
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suoi ma’ pensieri,
fidandomi di lui, i fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi aver inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro della muda,
la qual per me ha il titol della fame,
e in che convien ancor ch’altri si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci il mal sonno
che del futuro mi squarciò il velame.
[...]
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra il sonno i miei figliuoli,
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli,
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
[...]
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, ed io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le mani per dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia
di manicar, di subito levarsi,
e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia!’
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti:
ahi, dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
e disse: ‘Padre mio, chè non m’aiuti?’
Quindi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti:
poscia, più che il dolor, potè il digiuno.”
Inferno, canto XXXIII versi 13-27, 37-42 e 55-75
mercoledì 22 ottobre 2008
Zero girl
Un’altra storia, un’altra valanga di emozioni, sia stilistiche che concettuali. Ve ne ho già parlato quando ho scritto il post su “Segreti”, decimo volume della collana “Le leggende di Batman”. In “Zero girl” ci sono tutti gli accorgimenti tecnici, stilistici e narrativi che fanno di Sam Kieth il grande autore di fumetti che è. Tavole impostate in modo visionario, tagli in diagonale, contrasti cromatici estremi, figure stilizzate fino al limite del caricaturale, tratti pastosi e sfumature ceree, architetture minuziose. C’è tutto. Allora perché parlarne di nuovo? In effetti, non c’è motivo di tessere in continuazione le lodi dei grandi, soprattutto ripetendo sempre le stesse cose. Per questo stavolta voglio parlare più della storia che di tutto il resto. Fondamentalmente, sono due i temi che permeano questa storia: l’Adolescenza e l’Amore. E come separare le due cose, visto che i primi concetti di quello che può essere definito amore si delineano proprio in quell’enorme istante di vita che è l’adolescenza? Ci siamo passati tutti. Per alcuni è stata una tranquilla passeggiata nel parco (pochi), per altri un percorso di sopravvivenza in condizioni estreme (molti). C’è anche chi l’ha vista svanire sotto i propri occhi, sgusciare via tra le dita come sabbia troppo fine per essere trattenuta, sbriciolata sotto il peso di responsabilità incombenti e di un terribile quanto inarrestabile processo evolutivo che viene espresso dal verbo ‘crescere’. Alcuni crescono troppo in fretta e troppo presto. Gli altri, desiderano farlo. Non ci sono regole nell’universo dell’adolescenza, ognuno va avanti senza bussola e senza carta, alla ricerca di rotte che spesso non esistono, di isole irraggiungibili, e in balia di venti incontrollabili. Uno di questi venti si chiama Amore. Parola grossa da abbinare ad Adolescenza. Chiunque si senta abbastanza maturo da esprimere giudizi gratuiti, ti dirà che quello ch
e si prova a quell’età non è certo amore. Cotta, infatuazione, desiderio, curiosità, ribellione. Tutte parole che vanno benissimo, ma amore no. Se poi però chiedi loro di spiegarti una buona volta che cos’è l’amore, nessuno ci riesce. Chissà che non sia proprio quello che si prova a quindici anni, l’Amore.
Nel minestrone ci potremmo mettere anche un po’ di sovrannaturale (che in una storia a fumetti ci sta di lusso), un’eterna lotta tra Bene e Male (qui sono cerchi e quadrangoli, ma non importa), una sana dose di bullismo femminile violento e cattivo (che ci dà quel sapore sociologico – esistenziale che fa piacere) e una spruzzata di autobiografia (Amy è Sam Kieth e Tim sua moglie, anche se le due vicende finiscono in modi diametralmente opposti) che ci viene spiegata nella postfazione dallo stesso autore e che solletica il nostro palato di intenditori di fumetti. Il piatto è pronto. Chi vuole gustarsi un vero fumetto, non ha che da sedersi alla tavola imbandita di Sam Kieth. Se invece volete tirare avanti con maxisaghe supereroistiche da fast-food di quart’ordine, avete solo l’imbarazzo della scelta. C’è tanta di quella merda, disegnata in giro, da potervici ingozzare fino a strozzarvi. Ma non voglio fare nomi, non è educato sparlare della Marvel comics... Oooops... mi è scappato!In memoria 74 - Conte Ugolino
ch’io vidi duo ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo all’altro era cappello;
e come il pan per fame si marduca,
così il sopran li denti all’altro pose,
là ‘ve il cervel s’aggiunge con la nuca.
Non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
“O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi il perché,” diss’io, “ per tal convegno,
che, se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’i’ parlo non si secca.”
Inferno, canto XXXII versi 124-139
domenica 19 ottobre 2008
Il Principe della risata
Far ridere è senza dubbio una delle cose più difficili. Per un attore, la più difficile in assoluto. Qualche giorno fa mi è capitato di vedere un programma di comicità in televisione. Me lo ricordavo migliore. Adesso tutto mi sembra un po’ scontato, un po’ già visto. Cosa ancora peggiore, troppo spesso si sconfina nella volgarità gratuita. Perché per far ridere bisogna per forza dire ‘cazzo’, ‘merda’, ‘stronzo’, e tante altre belle parole che tutti conosciamo? Sembra strano, ma mi è venuta nostalgia. Nostalgia di una comicità genuina, educata, sottile. Una comicità che non ti grida in faccia la battuta alla quale devi ridere per forza, ma che la lascia cadere lì, in un discorso serio, con ingenuità, senza obbligarti alla risata. È proprio questo quello che manca, una risata spontanea. Forse l’unico tipo che abbia valore. Una risata spontanea ti fa dimenticare il malumore della giornata, le cose che sono andate storte. Non pretende niente, non devi partecipare, succede tutto senza che te ne rendi conto.
Per questo, ieri pomeriggio ho voluto rivedere un vecchio film. Lui stesso si definiva il Principe della risata, legatissimo a quel titolo nobiliare che per lungo tempo gli era stato negato. Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò. Uno con un nome così era destinato a far ridere la gente. Purtroppo non posso dire di aver visto tutti i suoi film (che non sono certo pochi, aggiungerei), ma un bel po’ sì. Quello che rimane impresso, anche dopo tanti anni, è la piccola battuta a cui accennavo prima, quella detta quasi con indifferenza, con naturalezza, accompagnata da una smorfia della faccia come solo lui sapeva fare. Mi torna in mente che parecchi anni fa, in estate, fecero una rassegna cinematografica pomeridiana su Totò. Ogni pomeriggio, alle due, riproponevano un suo film. Orario assurdo in un periodo assurdo, le due di pomeriggio in estate! O sei a mare, o sei a l
etto che ti riposi, non ci sono altre possibilità. Io invece mi piazzavo davanti alla televisione, guardavo i suoi film, e ridevo. L’unica cosa brutta che percepisco al ricordo di frasi come “Parli come badi” o “Ogni limite ha una pazienza”, è la consapevolezza che difficilmente ci sarà ancora qualcuno capace di far ridere in questo modo. Per questo, mi è sembrato molto bello questo omaggio a Totò di Federico Salvatore, e ho voluto condividerlo con voi.
Federico Salvatore - Oe' Totò!
sabato 18 ottobre 2008
L'uomo a rovescio
Secondo romanzo che leggo di Fred Vargas, con protagonista di nuovo il commissario di polizia Jean-Baptiste Adamsberg. Per una introduzione più accurata sull’autrice e sui romanzi gialli in generale vi rimando al post precedente, “L’uomo dei cerchi azzurri”, dove ne ho parlato abbondantemente. Di questo, volevo solo fare alcune considerazioni. Un romanzo di trecentoventi pagine di solito non si legge in quattro giorni. Eppure questo sì. È straordinario vedere come, senza bisogno di ricorrere a espedienti letterari, l’autrice riesce a tessere una trama coinvolgente al punto da non poterti fermare. Per espedienti intendo le classiche situazioni lasciate in sospeso alla fine di un capitolo che ti costringono ad andare avanti con la lettura, tipo “...aprirono la scatola e quello che conteneva li lasciò sbalorditi”, e fine del capitolo. Con questi trucchetti, è facile tenere incatenati i lettori. Ma allora perché provavo il desiderio di girare le pagine di questo romanzo, se non c’era nessuno di questi espedienti? Forse era per conoscere meglio le persone che vi stavano dentro. Persone, non personaggi. Raramente ne ho trovati di così vividi, nelle mie letture. Non è una caratterizzazione artificiosa, sembra davvero che esistano e che chi scrive stia solo facendo le presentazioni.In memoria 73 - Bocca degli Abati - Buoso da Dovara
fatti per freddo; onde mi vien ribrezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
E mentre ch’andavamo inver lo mezzo
al quale ogni gravezza si rauna,
e io tramava nell’eterno rezzo;
se voler fu, o destino, o fortuna
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi il piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?
Se tu non vieni a crescer la vendetta
di Mont’Aperti, perché mi moleste?”
[...]
“Qual se’ tu, che così rampogni altrui?”
“Or tu chi se’, che vai per l’Antenora,
percotendo,” rispuose, “altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?”
“Vivo son io, e caro esser ti puote,”
Fu mia risposta, “se domandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.”
Ed egli a me: “Del contrario io ha brama:
levati quinci, e non mi dar più lagna;
chè nol sai lusingar per questa lama!”
Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: “E’ converrà che tu ti nomi,
o che capel qui su non ti rimanga!”
Ond’egli a me: “Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mostrerolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi.”
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con gli occhi in giù raccolti;
quando un altro gridò: “Che ha tu, Bocca?
Non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? Qual diavol ti tocca?”
“Omai,” diss’io, “non vo’ che tu favelle,
malvagio traditor! Che alla tua onta
io porterò di te vere novelle.”
“Va’ via,” rispuose, “e ciò che tu vuoi, conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebb’or così la lingua pronta.
Ei piange qui l’argento de’ Franceschi:
‘Io vidi,’ potrai dir, ‘quel da Duera
là dove i peccator stanno freschi.’”
Inferno, canto XXXII versi 70-81 e 87-117
mercoledì 15 ottobre 2008
Il figlio del demone
Non è facile tenere il conto delle donne che hanno avuto a che fare con Bruce Wayne. Uno degli aspetti fondamentali della sua doppia identità è sempre stato l’atteggiamento da playboy, una vera e propria parte recitata per coprire la sua vera natura. D’altronde, da un miliardario scapolo e frivolo ci si aspetta che abbia un certo comportamento sociale, e nella vita sua mondana non potevano mancare modelle, attrici e altre ragazze simili, la cui assenza sarebbe risultata sospetta ad occhi attenti. Ma solo poche donne sono veramente entrare nella vita dell’eroe. Sia per colpa di questa parte da recitare, sia per la vera natura del suo essere, Bruce è sempre stato un maestro nel mandare all’aria
anche quelle relazioni che potevano diventare qualcosa di più di un divertimento o di una copertura. Una delle prime è stata Rachel Caspian, la figlia del Mietitore, la quale per lui aveva rinunciato a prendere i voti per poi tornarvi dopo aver scoperto la vera identità del padre. Un’altra donna importante è stata Vicky Vale, che non ha potuto sopportare la costante assenza di Bruce Wayne, impegnato nelle sue scorribande notturne contro il crimine di Gotham city. Ma quella che forse più di tutte lo ha amato incondizionatamente è stata Talia al Ghul, la figlia di Ra’s al Ghul, la Testa del demone. Talia, insieme a suo padre, è una delle pochissime persone al mondo a conoscere l’identità segreta di Batm
an. Entrambi lo stimano profondamente, pur essendo stati suoi avversari parecchie volte. Ra’s lo considera uno degli uomini migliori del mondo, forse l’unico che può ricoprire il ruolo di consorte della sua amata figlia. E Talia gli ha sempre dimostrato un amore incondizionato. Perfino l’uomo più freddo e razionale che esiste non poteva non cedere alla forza di questo amore. Messo di fronte all’evidenza di una vita solitaria, da emarginato, Batman si rende conto che anche l’uomo sotto quella maschera può meritare qualcosa di importante, come una donna che lo ama. Purtroppo però, nella vita dell’uomo pipistrello, c’è poco spazio per la felicità. Sebbene perdere entrambi i genitori in tenera età è stata sicuramente un’esperienza straziante, non credo ci possa essere per un uomo tragedia più grande che perdere un figlio. A seguito di uno scontro con dei nemici, Talia confessa all’amato di aver perso il bambino che avevano concepito poco tempo prima. Il sentimento di vendetta cresce prepotente in Batman, mitigato a stento dal suo ferreo ideale di giustizia. È sicuramente questo il motivo narrativo più intenso che Mike W. Barr e Jerry Bingham ci consegnano ne “Il figlio del demone”,
mostrandoci un Batman talmente coinvolto da Talia da mettere in secondo piano la sua missione e la sua razionalità, quando la vede minacciata dal pericolo. A beneficio dei lettori della storia, alla fine ci viene rivelato che quella di Talia era stata una menzogna, anche se non se ne conosce il motivo. Nove mesi dopo, un bambino viene lasciato fuori dalla porta di una famiglia signorile, con poggiata sopra una collana che Bruce aveva regalato a Talia come dono di nozze. Forse perché Talia non voleva che il figlio crescesse nella setta degli assassini guidata dal padre? Forse perché sapeva che il mondo aveva bisogno di Batman, e Batman non può crescere un figlio? Non ci vengono date risposte a queste domande. Ma questo bambino riveste molta importanza per le attuali storie del cavaliere
oscuro. Leggere “Il figlio del demone” significa riuscire a capire che anche il più freddo e solitario combattente non è immune al desiderio di famiglia. A prescindere da quale sia la maschera che portiamo, al buio o alla luce, tutti non possiamo non desiderare di avere qualcosa che ci completi tra le mura della nostra casa. L’uomo non è fatto per stare da solo, anche se a volte vi è costretto.In memoria 72 - Napoleone e Alessandro degli Alberti - Camicione dei Pazzi
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che il pel del capo avieno inseme misto.
“Ditemi, voi che sì stringete i petti,”
diss’io, “chi siete?” E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
gli occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e il gelo strinse
le lagrime tra essi, e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei, come due becchi,
cozzaro insieme, tanta ira li vinse!
E un ch’avea perduto ambo gli orecchi
per la freddura, pur col viso in giue,
disse: “Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenza si di china,
del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro, e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina;
[...]
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’io fui il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scongiuri.”
Inferno, canto XXXII versi 40-60 e 67-69
venerdì 10 ottobre 2008
Il Signore delle mosche
In memoria 71 - Cocito
sotto i piè del gigante, assai più bassi,
e io mirava ancor all’alto muro,
dicere udimmi: “Guarda come passi!
Va’ sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi!”
Perch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago, che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
[...]
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor dell’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana;
livide insin là dove appar vergogna,
eran l’ombre dolenti nella ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia:
da bocca il freddo, e dagli occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Inferno, canto XXXII versi 16-24 e 31-39
venerdì 3 ottobre 2008
Follia
Cosa ci può essere di più folle dell’amore? Pochi sentimenti sono in grado di sconvolgere una persona come il desiderio che si prova per un’altra. In questo romanzo Patrick McGrath ce lo dimostra. Quello del lettore stavolta è un ruolo difficile, delicato, perché non è un mero spettatore di qualcosa che succede su un palcoscenico a qualche metro di distanza, qualcosa da cui puoi prendere le distanze facilmente. Stavolta siamo chiamati ad una partecipazione più viva, più coinvolta del normale. Perché ci muoviamo in quell’ambito personale in cui possono spingersi solo poche professioni.In memoria 70 - Anteo
e venimmo ad Anteo, che ben cinqu’alle,
sanza la testa, uscia fuor della grotta.
“O tu, che nella fortunata valle,
che fece Scipion di gloria reda,
quando Annibal co’ suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato all’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli della Terra;
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci far ire a Tizio né a Tifo;
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama;
ch’ei vive, e lunga vita ancor aspetta,
se innanzi tempo grazia a sé nol chiama.”
Inferno, canto XXXI versi 112-129
