“Tu dei saper ch’io fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suoi ma’ pensieri,
fidandomi di lui, i fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi aver inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro della muda,
la qual per me ha il titol della fame,
e in che convien ancor ch’altri si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci il mal sonno
che del futuro mi squarciò il velame.
[...]
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra il sonno i miei figliuoli,
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli,
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
[...]
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, ed io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le mani per dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia
di manicar, di subito levarsi,
e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia!’
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti:
ahi, dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
e disse: ‘Padre mio, chè non m’aiuti?’
Quindi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti:
poscia, più che il dolor, potè il digiuno.”
Inferno, canto XXXIII versi 13-27, 37-42 e 55-75
lunedì 27 ottobre 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento