Cosa ci può essere di più folle dell’amore? Pochi sentimenti sono in grado di sconvolgere una persona come il desiderio che si prova per un’altra. In questo romanzo Patrick McGrath ce lo dimostra. Quello del lettore stavolta è un ruolo difficile, delicato, perché non è un mero spettatore di qualcosa che succede su un palcoscenico a qualche metro di distanza, qualcosa da cui puoi prendere le distanze facilmente. Stavolta siamo chiamati ad una partecipazione più viva, più coinvolta del normale. Perché ci muoviamo in quell’ambito personale in cui possono spingersi solo poche professioni.
Siamo in Inghilterra, verso la metà del Novecento, rinchiusi assieme all’io narrante in un manicomio criminale. A raccontarci questa storia è infatti uno psichiatra, che, apparentemente in modo freddo e distaccato, ripercorre quello che è stato il caso clinico più intrigante della sua carriera. La storia è quella della attrazione morbosa che nasce tra Stella, moglie di un altro psichiatra, e Edgar, un artista detenuto per aver ucciso la moglie in modo particolarmente efferato. Quindi la follia forse è una sola nel suo essere, ma prende forma in modi molto diversi. È follia quella che ha portato Edgar a uccidere sua moglie, è follia quella che spinge Stella ad amarlo incondizionatamente, tradendo il marito, e spingendola a inventare ogni genere di scuse per incontrare in segreto l’amante. Ma forse è follia anche quella in cui si spinge il nostro narratore nel ripercorrere i sentieri di questo amore malato, facendo provare a noi che leggiamo quelle stesse ambasce dei protagonisti. Perché è questo il rovescio della medaglia di chi compie un lavoro di analisi: se vuoi davvero conoscere quello che hai davanti, devi entrarci dentro. E non è affatto sicuro che il viaggio ti piacerà, così come non è sicuro che riuscirai sempre a tornare indietro.
Come me, come tutti noi era stato folgorato dalla sua bellezza, ma lui era andato più a fondo di noi, l’aveva idealizzata e poi aveva dovuto lottare contro il caos delle sue stesse passioni quando si era trovato nell’impossibilità di nutrire l’immagine che aveva creato. Penso fosse quello che inconsciamente aveva cercato di esprimere con la sua ultima opera, benché sostenesse di voler soltanto scardinare certezze, capovolgere abitudini e convenzioni visive. Non riesco a non sentirmi vicino a quelle due povere anime sconvolte, intrappolate qui nelle ultime settimane della loro vita, ciascuna a contorcersi nel suo inferno privato, ciascuna a spasimare per l’altra. So come funzionano le storie d’amore distruttive, e alla fine si arriva sempre a questo, o a qualcosa di molto simile.
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