Secondo romanzo che leggo di Fred Vargas, con protagonista di nuovo il commissario di polizia Jean-Baptiste Adamsberg. Per una introduzione più accurata sull’autrice e sui romanzi gialli in generale vi rimando al post precedente, “L’uomo dei cerchi azzurri”, dove ne ho parlato abbondantemente. Di questo, volevo solo fare alcune considerazioni. Un romanzo di trecentoventi pagine di solito non si legge in quattro giorni. Eppure questo sì. È straordinario vedere come, senza bisogno di ricorrere a espedienti letterari, l’autrice riesce a tessere una trama coinvolgente al punto da non poterti fermare. Per espedienti intendo le classiche situazioni lasciate in sospeso alla fine di un capitolo che ti costringono ad andare avanti con la lettura, tipo “...aprirono la scatola e quello che conteneva li lasciò sbalorditi”, e fine del capitolo. Con questi trucchetti, è facile tenere incatenati i lettori. Ma allora perché provavo il desiderio di girare le pagine di questo romanzo, se non c’era nessuno di questi espedienti? Forse era per conoscere meglio le persone che vi stavano dentro. Persone, non personaggi. Raramente ne ho trovati di così vividi, nelle mie letture. Non è una caratterizzazione artificiosa, sembra davvero che esistano e che chi scrive stia solo facendo le presentazioni.
In questa storia, conosciamo finalmente Camille, l’eterna amante di Adamsberg, la cui presenza aleggiava come un fantasma ne “L’uomo dei cerchi azzurri”. Qui invece, è protagonista tanto quanto e forse più dello stesso commissario, che aspetta l’ultimo terzo del libro per entrare in scena sul serio e mostrarci quello di cui è capace. Ma lo sappiamo, Adamsberg è così, lento in tutto quello che fa, anche nel comparire in una storia di cui è il protagonista. Bellissime le immagini dei due che si sfuggono a vicenda, perché nessuno è in grado di tenere saldo il rapporto. Il ruolo di vento tocca un po’ all’uno un po’ all’altra, non ci sono responsabilità precise in questo fallimento che si ripete ogni volta che si incontrano.
C’è anche altro nel romanzo, i magnifici paesaggi delle Alpi francesi, il rapporto tra l’uomo e gli animali visti con gli occhi dell’osservatore solitario, i delitti ad opera di quella che sembra una creatura mostruosa e sovrannaturale. Ma è soprattutto il contrasto tra l’inconsistenza mentale di Adamsberg e la presenza fin troppo fisica e tangibile di Camille che mi è piaciuto più di tutto il resto. È buffo vedere come questa donna riesca a coinvolgere tutti quelli che le stanno attorno, giovani e vecchi, poliziotti e assassini, senza che sia necessaria nessuna caratteristica fisica. La figura di Cammille non è mai descritta. Sta a noi immaginarcela come più ci piace.
A volte il commissario pensava di essere uno degli ultimi individui del pianeta a non conoscere una parola di inglese. Quell’ignoranza arcaica gli consentiva di immergersi con gioia nelle Acque Nere, godendo del torrente vitale senza che questo lo disturbasse in alcun modo. In quel prezioso rifugio Adamsberg veniva a scarabocchiare per ore, aspettando senza alzare un dito che le idee affiorassero alla superficie della sua mente.
Così Adamsberg cercava le idee: le aspettava, semplicemente. Quando una di esse veniva a galla sotto i suoi occhi, come un pesce morto che compariva a fior d’acqua, la raccoglieva e la esaminava, per vedere se aveva bisogno di quell’articolo in quel momento, per vedere se presentava un qualche interesse. Adamsberg non rifletteva mai, si limitava a fantasticare, poi a fare una cernita, come quei pescatori con il guadino che vedi frugare con mano pesante in fondo al retino, cercando con le dita il gambero tra i sassi, le alghe, le conchiglie e la sabbia. C’erano molti sassi e molte alghe nei pensieri di Adamsberg, e non di rado lui vi si impigliava. Doveva gettare molto, scartare molto. Era consapevole che la sua mente gli fornisse un conglomerato confuso di pensieri ineguali e che non funzionava esattamente così per tutti gli altri uomini. Aveva notato che fra i suoi pensieri e quelli del suo vice Danglard esisteva la stessa differenza che c’è tra quello scombiccherato fondo di retino e il banco ordinato di un pescivendolo. Cosa ci poteva fare? Alla fine, qualcosa ne cavava comunque, se solo aveva un po’ di pazienza. Adamsberg usava così il suo cervello, come un vasto mare fecondo nel quale hai riposto la tua fiducia ma che hai da tempo rinunciato ad assoggettare.
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