lunedì 22 settembre 2008

L'uomo dei cerchi azzurri

I gialli sono troppo spesso considerati una lettura da poco. Utile magari nelle ferie estive in cui, anche chi legge parecchio durante l’anno, non ha voglia di tenere la mente occupata con qualcosa che faccia riflettere a tutti i costi. Nei miei ricordi i gialli erano sempre la lettura delle vacanze, quelli del classico formato economico di una nota casa editrice. Storielle di poco spessore in cui c’era sempre un tizio antipatico o ricco che moriva, un gruppo di persone che potevano volerlo morto, e un poliziotto o una persona con un talento per l’indagine. E alla fine, in barba a trucchi e sotterfugi vari, l’assassino finiva sempre in manette, come ennesima dimostrazione che il delitto perfetto non esiste.

Ma accanto a questi (ero già più grande quando l’ho scoperto), esistevano anche gialli molto più letterari. Il primo che ho conosciuto è stato Sherlock Holmes, in un libro trovato negli scaffali di mio nonno che racchiudeva tre storie dell’investigatore inglese, tra cui la meravigliosa “Uno studio in rosso”, in cui venivano presentati lui e la sua fedele spalla, il dottor Watson. Poi è stata la volta dei racconti di Edgar Allan Poe, anche se lì il confine tra il giallo e il nero era molto sottile. Con mio grande rammarico, non ho mai letto nulla del Maigret di Simenon, cosa che ritengo io stesso una grossa lacuna che spero un giorno di colmare (tra l’altro, la casa editrice che per prima lo portò in Italia sta ristampando tutti i “Maigret” in versione economica e ogni volta che vado in libreria e li vedo mi mordo le mani per la rabbia di non poterli comprare). Quindi il punto fondamentale è: i gialli sono libri da niente? La mia personale risposta è: assolutamente no! Dipende da chi li scrive, e dipende anche da chi li legge. Se a scriverli è qualcuno che è bravo a inventare un delitto da scoprire nei dettagli e a leggerli è uno che sta sotto l’ombrellone a mare, piegando le pagine e toccandole con le mani bagnate perché tanto è costato due euro, allora sì, quella è roba da niente. Ma se a scriverli è un vero scrittore, e a leggerli è uno che ama davvero i libri e tutto quello che rappresentano, allora un giallo non ha nulla da invidiare a romanzi che hanno fatto la storia della letteratura mondiale.

Fred Vargas è una di questi scrittori. Anzi una scrittrice, a dispetto del nome, che infatti è uno pseudonimo, un omaggio alla sorella pittrice che firma così le sue opere, a sua volta per omaggiare Ava Gardner (Vargas era il nome del suo personaggio ne “La contessa scalza”). Persona strana, Fred Vargas. Madre chimica, padre surrealista, lei scienziata specialista in archeozoologia, una di quelle brave, visto che lavora per il centro nazionale di ricerca scientifica francese. Una che ha dedicato cinque anni della propria vita a studiare come si trasmette la peste dagli animali all’uomo doveva essere perfetta per scrivere romanzi gialli. Me l’aveva presentata mio cugino, anche lui grande lettore, la scorsa estate, dicendomi che i suoi erano gialli, ma non gialli da quattro soldi. Chissà perché c’è voluto un anno e poco più per spingermi verso quel ripiano della libreria in cui sapevo che c’erano i suoi libri.

Come nella migliore tradizione dei romanzi gialli, anche Fred Vargas ha un suo personaggio protagonista delle diverse storie: Jean-Baptiste Adamsberg. Persona curiosa anche lui, come la sua creatrice. Il suo braccio destro, Danglard, quando lo vede per la prima volta, pensa che la sua faccia sia stata messa insieme da Dio con gli avanzi che aveva in magazzino, e se il risultato era quell’uomo così stranamente bello, chissà cos’altro doveva esserci, nel magazzino di Dio. Questa è una delle tipiche frasi che ritroviamo in tutto il romanzo. È difficile parlare di una storia quando non puoi dire nulla che riveli la trama, quindi non posso certo dire cosa siano i cerchi azzurri, o chi sia l’uomo che li traccia, o chi sia il morto (o i morti...) e chi l’assassino. Sarebbe maleducato nei confronti di chi volesse leggerlo. Ma forse potrei anche farlo (tranquilli, non lo farò). Potrei perché in questo romanzo è la storia che fa da contorno ai personaggi. Adamsberg esiste già, non ha bisogno che qualcuno uccida nella sua città per essere quello che è. Il romanzo potrebbe benissimo parlare di aquiloni, e lui non perderebbe una briciola del suo fascino. Così come l’arguto e razionale Danglard, l’eterea Camille e tutti i comprimari che fanno la loro comparsa nella storia. Il desiderio di girare pagina non è dato dal voler conoscere le risposte alle domande poste dal caso, ma dal voler scoprire perché il commissario Adamsberg passa le sue giornate scarabocchiando sulle ginocchia. O perché ci sono volte in cui deve camminare. O perché pensa che un cerchio tracciato su un marciapiede sia preludio di una tragedia, quando tutto fa pensare che sia solo lo scherzo di un burlone che vuole far parlare di sé. Meravigliosi in questo senso i duetti tra Adamsberg e Danglard, una lenta approssimazione contrapposta a una veloce razionalità. Potrei anche dirvi chi è l’assassino, non vi rovinerei niente di questa intensa lettura.

Non mi spingo in analisi di ordine stilistico (non ne sarei molto capace), vi riporto solo un commento della stessa autrice alla sua opera di scrittrice di gialli. “Il poliziesco è come una favola, ironica o tragica o cerebrale. Non sopporto i gialli ultraviolenti che raccontano crimini complicatissimi (che nella realtà non esistono): un delitto è sempre semplice”.

Nell’auto, Danglard mormorò:
- Un tappo di bottiglia e una donna sgozzata, non colgo il nesso, non ci arrivo. Non riesco a capire cos’abbia in testa questo qui.
- Quando si guarda l’acqua in un secchio, - disse Adamsberg, - si vede il fondo. Metti dentro un braccio e tocchi qualcosa. Anche in una botte, ci riesci. In un pozzo, non ce la fai. Anche lanciarci dentro dei sassolini per cercare di capire non serve a niente. Il dramma è che ci si prova lo stesso. L’uomo ha sempre bisogno di “capire”. E questo gli crea solo grane. Lei non ha idea della quantità sterminata di sassolini che ci sono in fondo ai pozzi. E la gente non li lancia per sentire il rumore che fanno quando cadono nell’acqua. è per capire. Ma il pozzo è una cosa terribile. Quando quelli che l’hanno costruito sono morti, nessuno può più saperne niente. Ci sfugge, ride di noi dal profondo del suo ventre sconosciuto pieno di acqua cilindrica. Ecco cosa fa il pozzo, secondo me. Ma quanta acqua? fino a dove, l’acqua? bisognerebbe sporgersi, sporgersi per sapere, lanciare delle corde.
- Roba da annegarci, - disse Castreau.
- Certo.
- Ma non vedo che rapporto c’è con l’omicidio, - disse Castreau.
- Non ho detto che ce ne sia uno, - disse Adamsberg.
- Allora perché ci racconta la storia del pozzo?
- Perché no? Mica si può sempre parlare per essere utili. Ma Danglard ha ragione. Un tappo di bottiglia, una donna, non si capisce il nesso. È questa la cosa importante.

2 commenti:

Fra ha detto...

Anche io sono una novizia in fatto di gialli. Avevo letto qualche classico ma poi mi ci sono avvicinata maggiormente con Lucarelli e Ammaniti. Però più che gialli sono noir...Mi incuriosiscono molto i libri della Vargas e di Montalban spero presto di riuscire a leggere qualcosa di questi due bravissimi scrittori. nel frattempo grazie per questa "non-recensione" :D
Un abbraccio
Fra

Adryss ha detto...

Grazie per i complimenti, sempre graditissimi! a quanto pare, la tua wishlist non fa che allungarsi per 'colpa' mia! Anche questo mi fa piacere! Tanti baci!