venerdì 5 settembre 2008

Rimorsi

A volte sbagliamo. So benissimo che non è facile ammetterlo, né con noi stessi né con gli altri, soprattutto. Perché nel nostro lavoro, a volte gli errori si pagano cari. E metterli da parte non è una soluzione accettabile. Non voglio dire che il nostro lavoro è il peggiore, sotto questo punto di vista. In effetti, se un ingegnere sbaglia a fare i calcoli per costruire una diga e la diga crolla, possono morire decine di persone. Se un avvocato commette un errore, qualcuno può ritrovarsi a perdere ingiustamente tutto quello che ha, e a volte questo può essere una cosa peggiore della morte. Ci sono solo due differenze tra queste responsabilità e le nostre, perché sono diverse le situazioni in cui lavoriamo noi. La prima differenza è che tutti gli altri hanno il tempo per controllare e ricontrollare quello che fanno, per chiedere aiuto se hanno dei dubbi, o per rinunciare se non si ritengono all’altezza, prima che si manifestino le conseguenza dei loro eventuali errori. A noi invece molto spesso questo tempo non viene concesso. La seconda è che, a differenza degli altri, noi giochiamo ad un gioco di cui non conosciamo le regole. Non tutte e non bene. Non perché siamo negligenti o abbiamo studiato poco o non ci impegniamo, ma perché non esistono regole precise per ogni caso. Ci orientiamo con la statistica, le sperimentazioni, le linee guida e l’esperienza, ma nessuno avrà mai certezze nel nostro lavoro. Quando studiavo, alcuni professori amavano dirci a lezione che in medicina due più due non fa mai quattro. Niente di più falso. Due più due fa sempre quattro. Il nostro problema è che noi non abbiamo a che fare con equazioni così semplici. Le nostre formule hanno decine di variabili, alle quali bisogna cercare di attribuire un valore il più preciso possibile, per ottenere un risultato che è comunque sempre e solo orientativo, mai certo. Molte di queste incognite non sappiamo nemmeno che entrano in gioco nell’equazione, e ad altre non riusciamo ad attribuire un valore. Ecco la differenza tra il nostro lavoro e tutti gli altri: noi siamo chiamati a dover prendere delle decisioni difficili sulla base di informazioni incomplete e senza avere molto tempo a disposizione. È questo il nostro compito, ed è una scienza che non avrà mai certezze. E quando sbagliamo, ne rispondiamo noi personalmente. Se non siamo in grado di prendere queste decisioni, senza pause, senza poter riflettere, non abbiamo il minimo diritto di chiamarci medici.

Ecco a cosa servono i rimorsi. A ricordarci che possiamo fallire. A farci capire che è necessario essere in grado di trovare la soluzione per tutte quelle incognite. Molto spesso chi fa il nostro lavoro si difende dagli errori scaricando le colpe su qualcun altro. Invece, dovremmo avere il coraggio di considerare ogni fallimento come se fosse un nostro fallimento. Quando qualcosa va storto, a prescindere da chi sia il responsabile, dovremmo pensare che lasciamo famiglie addolorate, figli orfani, coniugi vedovi. Noi li vediamo uscire dalla porta e già pensiamo agli altri pazienti, perché è questo il nostro dovere ed è giusto saper andare avanti. Ma quello che non è giusto, e non è nemmeno vantaggioso, è scrollarsi le spalle dicendo ‘Non potevamo fare nient’altro’. C’è sempre qualcosa che si poteva fare, e non ne siamo stati capaci. “In ospedale, se vuoi imparare dai tuoi errori, devi portarli con te”. È questa la nostra vera forza, e guarda caso, anche questo non c’è scritto su nessun libro.


3 commenti:

Valentina Ariete ha detto...

Oppure chiedi al dottor House!

:-)

Adryss ha detto...

Tutti noi abbiamo dentro qualche aspetto alla dottor House! E' utile averlo... ma anche lui ha dei rimorsi, anche se magari non li considera dal punto di vista dell'altro ma solo come fallimento personale... ricordi l'episodio 17 della seconda serie, "Tutto per tutto", quello del bambino con la stessa malattia della donna morta dodici anni prima... Anche quello è un rimorso, che a volte si trasforma in ossessione.

Yama ha detto...

Diciamo che sono "quasi collega".

Non sai quanto io concordi con quello che hai scritto in questo post.
Fare il medico, ormai l'ho capito, non è un lavoro, è una scelta di vita. Perchè ti trovi ad avere nelle mani - direttamente, intendo - la salute delle persone e a decidere se vive o muore. E se muore - perchè hai fatto un errore o perchè semplicemente era la sua ora - sai che porterai con te il rimorso che accompagna il dubbio amletico "e se avessi fatto..."
Sai che dovrai convivere una vita con queste sensazioni, sai che però non potrai soffermarti a pensarci perchè ci sono altre persone che necessitano del tuo aiuto e devi restare presente a te stesso e concentrato per dare il meglio. E per questo, spesso, i medici passano per persone insensibili.
A volte lo diventano anche, abituati come sono a vivere in mezzo alla sofferenza e al dolore. Ma anche in quel cinismo, in quell'indifferenza, c'è dolore.

Per fortuna o purtroppo non siamo delle macchine. Per fortuna perchè questo ci rende "umani" e vicini alle persone. Purtroppo perchè, in quanto esseri umani, siamo soggetti ad errore, non siamo infallibili. E questo genera il rimorso e, talvolta, il desiderio di estraniarsi da esso. In un circolo che sembra non avere fine.

Dicono che per fare medicina ti devi impegnare, che però è una cosa bellissima. Vero. Ma non sempre è tutto come appare, come sai bene. Nessuno ti dice, prima di cominciare, quello che ti aspetta realmente. Nessuno ti dice che ci vuole CORAGGIO per fare il medico e una forza d'animo fuori dal comune.
Forse è per questo che i medici stanno bene tra loro. Perchè si supportano, si capiscono, sanno...

Come al solito sono partita da una cosa e sono andata poi per la tangente. Spero di non essere andata troppo fuori!
A presto.