Già eravam dalla selva rimossi
tanto, ch’io non avrei visto dov’era,
perch’io indietro rivolto mi fossi;
quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardar un altro sotto nuova luna;
e sì ver noi aguzzavan le ciglia,
come ‘l vecchio sartor fa nella cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un che mi prese
per lo lembo, e gridò: “Qual maraviglia!”
E io, quando il suo braccio a me distese,
ficcai gli occhi per lo cotto aspetto,
sì che il viso abbruciato non difese
la conoscenza sua al mio intelletto;
e chinando la mano alla sua faccia,
risposi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”
E quegli: “Figliol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna indietro e lascia andar la traccia.”
Inferno, canto XV versi 13-33
mercoledì 30 aprile 2008
L'eterna illusione
È la prima e credo unica volta che parlo di una storia di Dylan Dog. È uno dei fumetti che leggo fin dai suoi esordi, e nel passato ci sono state storie davvero molto belle, ma negli ultimi anni (parecchi anni) mi ha deluso sempre più. le storie originali sono praticamente svanite, sostituite da scialbe citazioni di film, romanzi, persino di altri fumetti, più o meno distorte ma sempre poco originali. Continuo a prenderlo per quel malsano spirito di collezionismo che mi impedisce di abbandonare una serie a fumetti che ho iniziato parecchi anni fa (lo stesso accade con gli X-Men, ma questa è un’altra storia). Solo ogni tanto salta fuori una storia che mi colpisce veramente. “L’eterna illusione” è una di queste. È la numero 193 della serie, il che significa che non è poi tanto recente, essendo già passati oltre cinque anni dalla sua pubblicazione. Eppure, è l’unica che rileggo spesso. La ragione è semplice: si parla di un argomento a cui sono molto sensibile. L’eterna illusione del titolo è quella di un amore felice e duraturo, uno di quelli che ti cambia la vita, uno di quelli che anche il più cinico, il più materialista, il più insensibile degli esseri umani non può fare a meno di sognare almeno una volta nella vita.
Il protagonista della storia è Fallen, che rappresenta la morte. Anzi, rappresenta una morte. Siamo abituati a raffigurarla come uno scheletro incappucciato con la falce, per mietere letteralmente le sue vittime, ed è rigorosamente donna. Invece Fallen è diverso. È un uomo schivo, va in giro su una bicicletta, con degli occhialetti scuri che non toglie neanche di notte, e una borsa a tracolla, dentro la quale porta uno strano pugnale con cui colpisce le sue vittime. Perché Fallen uccide per pietà, anche se per lui è solo un dovere. Esegue il suo compito con precisione, e poi sparisce, diretto verso un’altra vittima. Eppure, se solo riuscissimo a ricordarci delle sue visite, non potremmo fare altro che ringraziarlo per quello che fa. Perché Fallen è uno strano tipo di morte. Fallen è la morte dell’amore. Quando qualcuno ci lascia, quando scopriamo che la persona con cui stiamo non è quella che sembra, quando qualcuno ci tradisce, ecco che lui arriva sulla sua bicicletta sgangherata, non ci guarda neanche, e con un colpo secco ci trafigge al cuore. Così uccide un amore, e ci dà la possibilità di dimenticare, per tornare ad amare di nuovo. Solo chi ha amato molto riesce a vederlo, a volte perfino a parlarci. Ma lui è un tipo di poche parole, non vuole ringraziamenti, fa quello che fa perché è il suo lavoro. Però mi chiedo come faremmo se non ci fosse lui. Come faremmo ad andare avanti, a voltare pagina. Non credo che sarebbe possibile. Forse è solo un sogno, un’illusione, ma quel pugnale ricurvo lascia dentro di noi una ferita che ci permette di tornare a vivere. Quelli di noi che l’hanno incontrato non possono non essergli grati. Quelli che lo aspettano, stiano tranquilli: Fallen arriva sempre. A volte bastano pochi giorni, altre volte ci vuole più tempo, ma non c’è da preoccuparsi. Fallen non dimentica nessuno. Quanto a me, spero che questa volta arrivi prima dell’ultima. Allora ci vollero parecchi mesi. Magari stavolta sarò più fortunato, e dovrò aspettare di meno.
martedì 29 aprile 2008
In memoria 24 - Bestemmiatori
Lo sprazzo era un’arena arida e spessa,
ma d’altra foggia fatta che colei
che fu da piè di Caton già soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto agl’occhi miei!
D’anime nude vidi molte gregge,
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente;
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente.
Quella che giva intorno era più molta,
e quella men che giaceva al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto il sabbion, d’un cader lento,
piovean di fuoco dilatate falde,
come di neve in alpe senza vento.
Inferno, canto XIV versi 13-30
ma d’altra foggia fatta che colei
che fu da piè di Caton già soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto agl’occhi miei!
D’anime nude vidi molte gregge,
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente;
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente.
Quella che giva intorno era più molta,
e quella men che giaceva al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto il sabbion, d’un cader lento,
piovean di fuoco dilatate falde,
come di neve in alpe senza vento.
Inferno, canto XIV versi 13-30
Someone said goodbye
Non ho mai amato molto l’inglese, anzi le lingue in generale. Le ho sempre viste come qualcosa che limita la mia capacità di espressione. Conosco solo l’inglese scientifico, e anche se mi ci destreggio a fatica, quando devo leggere un articolo su nuove linee guida non ho grandissime difficoltà. Però a volte, quando sento certe canzoni, mi viene voglia di tradurle. È stato così con “Someone said goodbye” di Enya, tratta dall’album “Amarantine”. Non so perché. Quando l’ho ascoltata la prima volta, mi ha trasmesso qualcosa. Volevo sapere con precisione quello che diceva. Non posso certo essere dentro la testa di chi l’ha scritta, e mi hanno insegnato che una canzone non si può mai tradurre completamente nel suo significato profondo, ma per quello che ho capito, è la storia di un abbandono. Dite che ultimamente questo tema ricorre troppo spesso da queste parti? Forse avete ragione, meglio girare al largo, la malattia può essere contagiosa. Per esempio, potrebbe capitarvi di ascoltare questa canzone ed essere presi anche voi da quel senso di confortevole tristezza (scusate l’ossimoro!) che sta prendendo anche me in questo momento. Perché ogni tanto bisogna essere tristi, soprattutto in certi momenti, quando succedono certe cose. Niente di grave, attenzione. Solo cose come... vivere. Come quando “Qualcuno ha detto addio”.
Someone said goodbye
Summer. When thw day is over
There’s a heart a little colder;
Someone say goodbye,
But I don’t know why.
Somewhere ther is someone keeping
All the tears they have been weeping.
Someone say goodbye,
But I don’t know why.
Is there a reason
Why a broken heart begins to cry?
Is there a reason
You were lost although you don’t know why?
Give me a reason
Why you never want to say goobbye.
If there’s a reason
I don’t know why.
Always lokng for a meaning,
All the time you keep believing,
But I don’t know why
You won’t say goodbye.
Even when the sun is shining
You don’t see the silver lining,
But I don’t know why
You won’t say goodbye.
Is there a reason
Why a broken dream can never fly?
Is there a reason
You believe and then you close your eyes?
Give me a reason
Why you hide away so much inside.
If there’s a reason
I don’t know why.
Is there a reason
Why a broken heart begins to cry?
Is there a reason
You were lost although you don’t know why?
Give me a reason
Why you never want to say goobbye.
If there’s a reason
I don’t know why.
I don’t know why.
I don’t know why.
I don’t know why.
Qualcuno ha detto addio
Estate. Quando I giorni finiscono
C’è un cuore un po’ più freddo;
Qualcuno ha detto addio,
Ma non sai perché.
Da qualche parte c’è qualcuno che custodisce
Tutte le lacrime che hanno versato.
Qualcuno dice addio,
Ma non sai perché.
C’è una ragione
Perché un cuore infranto inizi a piangere?
C’è una ragione
Che ti sia perso sebbene non sappia perché?
Dammi una ragione
Perché non vuoi mai dire addio.
Se c’è una ragione,
Non so perché.
Cercando sempre un senso
A tutto il tempo che sei stato fiducioso,
Ma non so perché
Non vorresti dire addio.
Anche quando il sole è tramontato
Non vedi la striatura d’argento,
Ma non so perché
Non vuoi dire addio.
C’è una ragione
Perché un sogno spezzato non possa volare?
C’è una ragione
In cui credi e poi chiudi gli occhi?
Dammi una ragione
Perchè ti sei rinchiuso così tanto dentro.
Se c’è una ragione
Non so perché.
C’è una ragione
Perché un cuore infranto inizi a piangere?
C’è una ragione
Che ti sia perso sebbene non sappia perché?
Dammi una ragione
Perché non vuoi mai dire addio.
Se c’è una ragione,
Non so perché.
Non so perché.
Non so perché.
Non so perché.
Someone said goodbye
Summer. When thw day is over
There’s a heart a little colder;
Someone say goodbye,
But I don’t know why.
Somewhere ther is someone keeping
All the tears they have been weeping.
Someone say goodbye,
But I don’t know why.
Is there a reason
Why a broken heart begins to cry?
Is there a reason
You were lost although you don’t know why?
Give me a reason
Why you never want to say goobbye.
If there’s a reason
I don’t know why.
Always lokng for a meaning,
All the time you keep believing,
But I don’t know why
You won’t say goodbye.
Even when the sun is shining
You don’t see the silver lining,
But I don’t know why
You won’t say goodbye.
Is there a reason
Why a broken dream can never fly?
Is there a reason
You believe and then you close your eyes?
Give me a reason
Why you hide away so much inside.
If there’s a reason
I don’t know why.
Is there a reason
Why a broken heart begins to cry?
Is there a reason
You were lost although you don’t know why?
Give me a reason
Why you never want to say goobbye.
If there’s a reason
I don’t know why.
I don’t know why.
I don’t know why.
I don’t know why.
Qualcuno ha detto addio
Estate. Quando I giorni finiscono
C’è un cuore un po’ più freddo;
Qualcuno ha detto addio,
Ma non sai perché.
Da qualche parte c’è qualcuno che custodisce
Tutte le lacrime che hanno versato.
Qualcuno dice addio,
Ma non sai perché.
C’è una ragione
Perché un cuore infranto inizi a piangere?
C’è una ragione
Che ti sia perso sebbene non sappia perché?
Dammi una ragione
Perché non vuoi mai dire addio.
Se c’è una ragione,
Non so perché.
Cercando sempre un senso
A tutto il tempo che sei stato fiducioso,
Ma non so perché
Non vorresti dire addio.
Anche quando il sole è tramontato
Non vedi la striatura d’argento,
Ma non so perché
Non vuoi dire addio.
C’è una ragione
Perché un sogno spezzato non possa volare?
C’è una ragione
In cui credi e poi chiudi gli occhi?
Dammi una ragione
Perchè ti sei rinchiuso così tanto dentro.
Se c’è una ragione
Non so perché.
C’è una ragione
Perché un cuore infranto inizi a piangere?
C’è una ragione
Che ti sia perso sebbene non sappia perché?
Dammi una ragione
Perché non vuoi mai dire addio.
Se c’è una ragione,
Non so perché.
Non so perché.
Non so perché.
Non so perché.
lunedì 28 aprile 2008
In memoria 23 - Piero della Vigna
“Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e disserrando, sì soavi
che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi.
Fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’io ne perdei li sonni e i polsi.
La meretrice, che mai dall’ospizio
di Cesare non tolse gli occhi putti,
morte comune e delle corti vizio,
infiammò contra me gli animi tutti;
e gl’infiammati infiammar sì Augusto,
che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo con morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nuove radici d’esto legno
vi giuro che giammai non ruppi fede
al mio signor, che fu d’onor sì degno!”
Inferno, canto XIII versi 58-75
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e disserrando, sì soavi
che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi.
Fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’io ne perdei li sonni e i polsi.
La meretrice, che mai dall’ospizio
di Cesare non tolse gli occhi putti,
morte comune e delle corti vizio,
infiammò contra me gli animi tutti;
e gl’infiammati infiammar sì Augusto,
che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo con morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nuove radici d’esto legno
vi giuro che giammai non ruppi fede
al mio signor, che fu d’onor sì degno!”
Inferno, canto XIII versi 58-75
Come sconfiggere l'invidia
È sera. Non proprio notte fonda, ma quel momento crepuscolare in cui non ti va ancora di accendere una luce ma allo stesso tempo non riesci più a leggere chiaramente le parole di un libro. È aprile. Non fa freddo, ma nemmeno caldo, si sta bene con una felpa leggera, fuori in terrazza. Si sta ancora meglio se si hanno gli auricolari del lettore mp3 nelle orecchie. Si sta ancora meglio se il lettore mp3 suona le canzoni di “Non al denaro, non all’amore né al cielo”.
Ho scoperto questo disco che avevo dodici anni, e allora era proprio un disco, nel senso letterale della parola. Era l’originale 33 giri in vinile di mia madre che ho ancora conservato. Il fatto che poi si sia passati al cd e all’mp3 non toglie nulla al fascino di quel pezzo di plastica, nero e gracchiante, che andava sul piatto del mio primo stereo ormai scassato. Su questo disco si potrebbero scrivere decine di pagine, ma non è mia intenzione farlo. Volevo solo ricordare che tutte le canzoni percorrono due filoni fondamentali (allora erano il lato A e il lato B del disco!): l’Invidia, che si conclude con “Un malato di cuore”, e la Scienza, che si conclude con “Il suonatore Jones”. Voglio parlare un po’ della prima. A parte la prima canzone, “Dormono sulla collina”, che è l’introduzione a tutta l’opera, l’Invidia si snoda attraverso i primi tre ritratti: “Un matto”, “Un giudice” e “Un blasfemo”, e si chiude, come dicevo, con “Un malato di cuore”. Si chiude vuol dire che il malato di cuore è l’unico che sconfigge l’Invidia, mentre gli altri tre la affrontano ma la subiscono, risolvendola, alcuni positivamente altri negativamente, ma senza sconfiggerla. La ragione, ce lo dice lo stesso Fabrizio in un’intervista in calce rilasciata a Fernanda Pivano, è che i primi tre provano un’invidia senza substrato, senza ragione, quasi fine a se stessa, mentre il malato di cuore, che avrebbe davvero di che invidiare gli altri, non cede a questo sentimento ma viene spinto dall’unica forza in grado di sconfiggere l’invidia: l’amore. Un amore che gli costa tutto, che lo priva della vita, ma che gli regala un istante. Quell’unico istante per cui vale la pena vivere, per cui vale la pena aspettare. Un unico istante per il quale bisogna lottare, sudare, gridare, soffrire. A volte, rinunciare. Ci vuole del coraggio a morire per una causa, per un’idea, per una speranza. Ce ne vuole molto di più a morire per un amore.
Ma che la baciai, questo sì, lo ricordo,
col cuore ormai sulle labbra,
ma che la baciai, per dio sì, lo ricordo,
e il mio cuore le restò sulle labbra.
Riascolto queste canzoni da più di quattordici anni ormai, e ogni volta ci ritrovo dentro una strofa, una frase, una parola, persino una sillaba, che ancora non avevo scoperto, che non conoscevo, che mi fa sussultare. La vita è fatta di momenti, tutti speciali, nel bene e nel male. I momenti non sono la laurea, il matrimonio, i figli o cose del genere. I momenti sono un disegno, un incidente, una penna, un film, un paio di scarpe, un sacchetto arancione, una tutina verde, una canottiera, una lastra, una scala, un corridoio... Un sorriso. Una parola. E un cuore che si spezza. Un cuore che resta sulle labbra.
giovedì 24 aprile 2008
In memoria 22 - La selva dei Suicidi
Io credo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser tra que’ bronchi
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse il maestro: “Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi.”
Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel d’un gran pruno;
e il tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”
Da che fu fatto poi di sangue bruno,
ricominciò a gridar: “Perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietate alcuno?
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossim’anime di serpi.”
Inferno, canto XIII versi 25-39
che tante voci uscisser tra que’ bronchi
da gente che per noi si nascondesse.
Però disse il maestro: “Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi.”
Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel d’un gran pruno;
e il tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”
Da che fu fatto poi di sangue bruno,
ricominciò a gridar: “Perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietate alcuno?
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossim’anime di serpi.”
Inferno, canto XIII versi 25-39
Si potrebbe trattare...
Qualche giorno fa con una cara amica parlavamo di bellezze femminili, e io le dicevo che secondo me una dele donne più belle del mondo è Charlize Theron. Così mi è venuto in mente lo spot di una nota marca di orologi e gioielli che da un po’ gira in televisione, con lei protagonista. La colonna sonora dello spot è “Pensiero stupendo”, con la magnifica voce di Patty Pravo. Ma un verso in particolare mi risuona nelle orecchie in questi giorni:
"Si potrebbe trattare
di bisogno d'amore.
Meglio non dire".
L’attrice ha una sensualità unica al mondo, e in questo spot di un minuto scarso di durata lo dimostra in maniera prorompente. Ma niente, neanche il suo muoversi sinuosamente tra le stanze, ha il minimo accenno di volgarità. E le parole di sottofondo confermano quanto dicono le immagini. Un bisogno d’amore di cui è meglio non parlare... Forse perché ne risulterebbe solo sofferenza. Forse perché si ha paura di cedere a certi sentimenti. Forse perché si ha la consapevolezza che è un sogno impossibile, ma, dopotutto, a ciascuno di noi è concesso di sognare. Almeno per un po’.
mercoledì 23 aprile 2008
Il fascino del male - Il Pinguino
Non ci sarebbe bisogno della mia ripetizione, l’ha già scritto molto meglio di quanto potrei fare io Chuck Dixon nell’introduzione al volume relativo: la serie di nemici con i quali si è dovuto confrontare Batman in quasi settant’anni di storie è straordinaria. Il Joker, Due facce, Catwoman, lo Spaventapasseri... tutti personaggi molto particolari, bizzarri, folli, inconsueti. È strano, o meglio può sembrare strano, che uno come il Pinguino non sia stato dimenticato poco dopo la sua creazione,, come è successo ad altri. Ad essere onesti, alcuni motivi per farlo ci sarebbero stati. Oswald Cobblepot è un uomo comune, per niente affascinante ma neanche tanto brutto da suscitare sgomento. Non è molto forte, ma compensa la mancanza con l’agilità. Non ha tratti psicotici nella sua personalità ma non è certo uno stinco di santo. Non è ossessionato dal desiderio di uccidere Batman, anche se la cosa gli farebbe parecchio comodo. Si limita a studiare meticolosamente i suoi piani criminali per poi mandare degli scagnozzi ad attuarli. Raramente uccide, non per scrupolo morale ma per comodità, e sempre a scopo di rapina, dato che il furto di preziosi è la sua attività principale, anche se non disdegna il denaro in quanto tale. L’unica stranezza, se così si può chiamare, è la sua mania per i volatili, dei quali spesso si serve a scopo criminoso, e magari anche la bizzarra tendenza ad usare gli ombrelli come armi.
E quindi torniamo alla domanda: perché il Pinguino è ancora in giro? Perchè non è scomparso in uno degli spazi bianchi che separano una vignetta dall’altra? La spiegazione sta proprio in tutto quello che si è detto finora. Il Joker è l’irrazionalità per eccellenza, l’Enigmista è contorto e accattivante, Poison Ivy è incredibilmente sexy e ammaliatrice, lo Spaventapasseri è terrore puro... e il Pinguino è assolutamente... normale. La sua sanità mentale è una perla rara nella galleria di folli con i quali il cavaliere oscuro deve fare quotidianamente i conti. I suoi uccelli sono un mero mezzo per entrare in un museo e rubare un diamante, non una firma, un marchio di sfida che sottintende un desiderio di essere trovato, di scontrarsi con l’antagonista. L’unica cosa che gli interessa è il denaro, e solo per questo è dentro il giro della criminalità. Perché senza denaro, Oswald non è altro che un goffo e barcollante ometto senza nessun valore, ma con i suoi soldi si può circondare di bellissime donne, può permettersi cibi e bevande da re, può far parte, come losco ma influente uomo d’affari, se non dell’alta società, almeno degli ambienti malavitosi di più alto livello. Ecco perché il Pinguino cerca il più possibile di evitare di sporcarsi le mani. Il suo è più un lavoro di cervello: concepisce e mette a punto il piano che eseguiranno altri, mentre lui si gode la comodità di un alibi inattaccabile.
Intendiamoci, con questo non voglio dire che il Pinguino non abbia qualità criminali di alto livello. Magari non potrebbe vedersela con alcuni mostri sacri (mostri anche in senso letterale), ma regge perfettamente il confronto, in quanto a crudeltà e spregiudicatezza, con la maggior parte dei suoi ‘colleghi’. Ma allo stesso tempo la sua intelligenza ha mitigato l’ostinazione che altri invece non abbandonano, portandolo ad evitare quanto più è possibile lo scontro con Batman, arrivando a diventare il padrone dell’Iceberg Lunge, un nightclub e casinò quasi legale, anche se spesso funge da copertura per i suoi traffici.
In definitiva, quindi, la figura del Pinguino è quello che serve per valorizzare l’aspetto umano di Batman, che se quando deve affrontare mostri spietati e folli è costretto a tirare fuori tutte le tenebre che affollano la sua anima, contro il Pinguino può mettere a frutto la sua intelligenza e le sue capacità deduttive. È per questo che il Pinguino torna sempre: per dimostrare che nessuno può impedire ad un uccello di volare, anche se non ha le ali.
lunedì 21 aprile 2008
In memoria 21 - Tiranni
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facean alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e il gran centauro disse: “Ei son tiranni,
che dier nel sangue e nell’aver di piglio.
Quivi si piangon gli spietati danni.”
Inferno, canto XII versi 100-107
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facean alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e il gran centauro disse: “Ei son tiranni,
che dier nel sangue e nell’aver di piglio.
Quivi si piangon gli spietati danni.”
Inferno, canto XII versi 100-107
domenica 20 aprile 2008
Eredi di un mondo lucente
Ecco un’altra di quelle saghe familiari che mi piacciono tanto e di cui ho già parlato a proposito de “Il quinto esilio”. Stavolta però, c’è una variante: le vicende della famiglia Mitwisser non sono narrate da uno dei suoi membri, ma da un’estranea.
Rose Maedows, diciottenne, brillante, istruita, è l’unica a rispondere ad un annuncio di lavoro trovato sul giornale. Buttata fuori di casa dalla fidanzata del cugino, Rose accetta di fare ‘l’assistente’ per la famiglia Mitwisser, da poco trasferitasi da Berlino a New York. Ma non sa di preciso se è stata assunta per essere la segretaria di Rudolf, il capofamiglia, o l’infermiera di Elsa, la moglie malata, o ancora la governante dei loro cinque figli, complicati e particolari. Comincia così la dicotomia tra il sentimento della vita del migrante dei Mitwisser e l’intrusione della americanissima Rose nella loro fragile struttura. Un’antitesi, quella tra la vecchia Europa e la nuova America, che si acuisce nello scontro, a volte aperto a volte velato, tra Rose e la maggiore dei figli Mitwisser, Anneliese. A complicare le cose, si inserisce un altro personaggio, James, ambiguo come e più degli altri membri della famiglia, che si comporta come se ne facesse parte ma in realtà è un estraneo.
Così si aggiunge un mistero sull’altro: cosa ha costretto i Mitwisser a lasciare Berlino, qual è l’origine della malattia di Elsa, cosa scatena l’astio di Anneliese nei confronti di Rose, chi è in realtà James e perché è ritenuto così importante dalla famiglia. Ad uno ad uno, tutti verranno risolti sotto lo sguardo curioso e allo stesso tempo angosciato della giovane Rose, alle prese anche con i suoi problemi personali e con i difficili rapporti con il cugino Bertram e la sua fidanzata.
Bellissimo romanzo di Cynthia Ozick, che è insieme racconto romantico, fiaba allegorica, satira sociale e saggio di riflessione. Ma soprattutto, è una splendida galleria di ritratti, di soggetti particolari ed unici, degli outsiders messi insieme dal caso, costretti dalla sorte ad intrecciare le loro esistenze, consapevoli allo stesso tempo della loro mancata appartenenza ad alcun contesto di identità. Anche se nella narrazione non ci sono momenti di stanca, tutti i personaggi, dal primo all’ultimo, sono, e sanno benissimo di essere, irrimediabilmente soli.
venerdì 18 aprile 2008
In memoria 20 - Il compito di Virgilio
“Mostrargli mi convien la valle buia:
necessità il c’induce, e non diletto.
Tal si partì dal cantare alleluia,
che mi commise quest’officio nuovo;
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cui io muovo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa;
chè non è spirto che per l’aer vada.”
Inferno, canto XII versi 86-96
necessità il c’induce, e non diletto.
Tal si partì dal cantare alleluia,
che mi commise quest’officio nuovo;
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cui io muovo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa;
chè non è spirto che per l’aer vada.”
Inferno, canto XII versi 86-96
giovedì 17 aprile 2008
...tra le gambe - Il gioco di Ausonia
Su segnalazione dell'amico Filippo Messina, mi aggiungo anch'io al già nutrito numero di persone coinvolte in questo simpatico (e ormai del tutto fuori controllo) giochetto, proposto da Ausonia, artista italiano di fumetti, di cui ricordo, tra le altre, l'opera "Pinocchio" (non è una favola per bambini!). Il gioco si svolge sul blog dell'autore, "Ausonia's Serious Toyz", e si intitola appunto "Tra le gambe". Il regolamento dettagliato è presente all'inizio del post, ma in sintesi consiste nel segnalare, attraverso uno o più commenti, titoli di film ai quali può essere aggiunta alla fine la frase '...tra le gambe', stravolgendo il senso del titolo. Un esempio potrebbe essere "Il padrino...tra le gambe"! Sono ormai più di trecento i partecipanti al gioco, e lo stesso Ausonia a quanto sembra non si aspettava un tale riscontro. Al di là del divertimento, lo trovo un modo interessante per esercitare la propria memoria cinematografica, la propria fantasia ed estrosità, e soprattutto una dimostrazione della potenza della rete, visto che in soli quattro giorni (il post originale è di domenica 13 aprile) sono 335 tra bloggers e utenti vari quelli che hanno lasciato un commento. Per ulteriori informazioni, rimando al post in questione, ma mi fa piacere notare che un titolo più volte segnalato è: "Cose preziose...tra le gambe"! E buon divertimento a tutti!
martedì 15 aprile 2008
In memoria 19 - Flagetonte, il fiume di sangue
“Ma ficca gli occhi a valle; chè s’approccia
la riviera del sangue, in la qual bolle
qual che per violenza in altri noccia.”
O cieca cupidigia, o ira folle,
che sì ci sproni nella vita corta,
e nell’eterna poi sì mal c’immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto il piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra il piè della riva ed essa, in traccia
correan centauri armati di saette,
come solean nel mondo andare a caccia.
Inferno, canto XII versi 46-57
la riviera del sangue, in la qual bolle
qual che per violenza in altri noccia.”
O cieca cupidigia, o ira folle,
che sì ci sproni nella vita corta,
e nell’eterna poi sì mal c’immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto il piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra il piè della riva ed essa, in traccia
correan centauri armati di saette,
come solean nel mondo andare a caccia.
Inferno, canto XII versi 46-57
lunedì 14 aprile 2008
Meltin' pot
Per chiunque abbia la passione per la scrittura, non ci può essere maggiore soddisfazione che venire apprezzati per quello che si scrive. Per me era già una bella soddisfazione vedere i numeri di quel contatore poco più in basso salire con una certa costanza, come pure ricevere i commenti lusinghieri delle persone che dedicavano un po’ del loro tempo a leggere le mie pagine. Ma vi assicuro che sono stato veramente felice quando mi è stata offerta l’occasione di cui vi sto parlando. Qualche tempo fa Valentina Ariete (Eyes wide ciak!) mi aveva contattato via mail, chiedendomi se ero disposto a collaborare con lei alla sezione scientifica della rivista on line Meltin’ pot (da qualche tempo presente nella mia lista dei link da visitare), sulla quale lei stessa già scrive da molto tempo, prevalentemente di cinema. La proposta era quella di dedicarmi ad articoli di argomento medico, da un punto di vista abbastanza specifico per non apparire banale, ma allo stesso tempo accessibile a chi medico non è. Inizialmente ero stato tentato di rifiutare la proposta, non sapendo se avrei potuto onorare gli impegni di consegna degli articoli, visto che le cose da fare non mancano mai e il tempo è sempre meno di quello che servirebbe. Poi mi sono deciso ad accettare, l’ho voluta prendere come una sfida. Valentina mi aveva già espresso la sua opinione sui due articoli che le ho inviato, ma sono molto contento di vedere che hanno ottenuto l’approvazione di tutto il gruppo di lavoro, per cui, da oggi, sono ufficialmente un redattore di Meltin’ pot (ovviamente insieme a tanti altri). Ci tengo quindi a segnalare non solo il mio articolo (“Danno epatico da alcol”, nella sezione Scienze e High-tech) ma tutta la rivista in generale, dato che non avrei accettato di scrivere qualcosa su una testata che non avessi giudicato seria e interessante. Ringrazio ancora Valentina per l’opportunità che mi sta dando, e auguro buona lettura a tutti quelli che vorranno leggermi su quelle pagine. Ovviamente, libero spazio a commenti e opinioni, nonché a richieste di approfondimenti, fonti bibliografiche e quant’altro.
domenica 13 aprile 2008
In memoria 18 - I mali della Frode
“La frode, ond’ogni convenienza è morsa,
può l’uomo usare in colui che ‘n lui fida,
ed in quei che fidanza non rimborsa.
Questo modo di retro par ch’uccida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida
ipocrisia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l’altro modo quell’amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria:
onde nel cerchio minor: ov’è il punto
dell’universo in su che Dite siede,
qualunque trade, in eterno è consunto.”
Inferno, canto XI versi 52-66
può l’uomo usare in colui che ‘n lui fida,
ed in quei che fidanza non rimborsa.
Questo modo di retro par ch’uccida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida
ipocrisia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l’altro modo quell’amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria:
onde nel cerchio minor: ov’è il punto
dell’universo in su che Dite siede,
qualunque trade, in eterno è consunto.”
Inferno, canto XI versi 52-66
giovedì 10 aprile 2008
Il fascino del male - Due facce
Anche stavolta sono alle prese con uno dei geni del male di Gotham city, uno degli avversari storici di Batman, che da più di sessant’anni ha ispirato, e ancora oggi continua a ispirare, sceneggiatori e disegnatori a cimentarsi con le sue gesta. Per Due facce potrebbe valere un discorso per certi versi opposto a quello che ho fatto per il Joker. Due facce non ha nulla di misterioso, non ha nulla di imprevedibile, e anche se nel corso degli anni nelle sue storie è emerso un qualche elemento innovativo, non ha certo quella duttilità che va riconosciuta al pagliaccio del crimine.
Le sue origini sono chiarissime, e note a tutti. Harvey Dent (in principio era Kent, ma il nome fu cambiato per non fare confusione con il più nobile Superman) è il procuratore distrettuale di Gotham, uno dei più brillanti e combattivi che la città abbia conosciuto. Nel bel mezzo di un’udienza, un boss della malavita gli rovescia addosso una boccetta di acido. Batman, presente nell’aula, tenta di deviare il getto, ma questo colpisce Harvey sulla metà sinistra del volto, deturpandolo irrimediabilmente. Questo trauma fa emergere dalla sua psiche una seconda personalità, contorta e malvagia, che si dedicherà da allora al crimine e all’annientamento di Batman, che ritiene responsabile delle sue condizioni.
Fa così il suo ingresso nel mondo della letteratura disegnata un protagonista storico di quella scritta, il binomio Jekyll/Hyde di Robert Luis Stevenson. Due facce non è affatto una banalizzazione del complesso personaggio del romanziere inglese, anzi è forse arricchito di elementi nuovi, che però non lasciano spazio alle sorprese, ma sono, per così dire, perfettamente comprensibili. Se ad esempio stupisce e sconcerta che il più grande rammarico del Joker sia stato non aver ucciso di persona Stephanie Brown nei panni del nuovo Robin, non stupisce il fatto che alla base delle turbe psichiche di Harvey Dent ci sia una storia di violenze inflittegli dal padre alcolizzato, che in preda alla furia lo riempiva di botte, per poi tornare a scusarsi nei rari momenti di lucidità. Né tanto meno stupisce che la sua ossessione per la giustizia, scaturita per reazione alla sua infanzia, lo portasse spesso a pensare, quando era procuratore, che potesse essere giusto in certe occasioni passare dalle vie legali alle vie di fatto. Sotto questo aspetto, Due facce può essere considerato tutto quello che Batman è riuscito a non essere. Mentre Harvey Dent reagisce alla violenza subita ammettendo l’uso dell’omicidio come strumento di giustizia, Bruce Wayne è riuscito, anche se spesso a stento, a non superare quella pericolosa linea di confine.
Come dicevo, in questi aspetti del criminale non c’è gran che di imprevedibile. L’aspetto sicuramente più interessante è quello della moneta. Due facce ha sempre con sé un dollaro d’argento con due teste, una buona e l’altra sfregiata, in cui si identifica. Ogni volta che deve prendere una decisione, lancia la moneta: testa buona agisce seguendo un certo principio morale, testa cattiva si dedica al male fine a se stesso. Questo non vuol dire che se esce il lato buono non commetterà un crimine, ma solo che ne devolverà il ricavato in beneficenza, o che sarà commesso di giorno invece che di notte, o che si consegnerà subito dopo alla polizia. Come succede per esempio alla festa di pensionamento del commissario Gordon, in cui prende in ostaggio una donna, poi va dal vecchio Jim e lancia la moneta: se uscirà la testa buona ne tesserà le lodi ricordando i tempi in cui lavoravano insieme per la giustizia, se esce la testa cattiva lo ucciderà, per far sì che il suo sia un addio definitivo. Esce testa buona. E Harvey Dent, con estrema naturalezza, come se davvero quella parte malvagia venisse messa a tacere, consegna l’arma che ha in mano, si avvicina al microfono e riserva all’amico Jim parole lusinghiere, ma soprattutto pronunciate con estrema sincerità.
Ma il lato malvagio non è solo un parassita di Harvey, o un essere parallelo. Molto spesso è una risorsa, in desiderio. Al punto che in più occasioni, quando gli serve quel suo lato oscuro, la sua determinazione, la sua violenza, arriva a sfregiarsi la faccia da se stesso, incurante degli sforzi che aveva fatto per guarire le sue ferite fisiche e mentali. Perché gli servono la freddezza e la forza. Gli serve il male. E sa benissimo che l’unica cosa che potrà fare dopo è aspettare che Batman lo trovi e venga a prenderlo, per riportarlo ad Arkham, insieme agli altri folli.
mercoledì 9 aprile 2008
In memoria 17 - Farinata degli Uberti
“O Tosco, che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
alla qua’ forse fui troppo molesto.”
Subitamente questo suono uscio
d’una dell’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed ei mi disse: “Volgiti: che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
dalla cintola in su tutto il vedrai.”
I’ avea già il viso nel suo fitto,
ed ei s’ergea col petto e colla fronte
come avesse lo inferno in gran dispitto.
E l’animose man del duca pronte
mi pinser tra le sepolture a lui,
dicendo: “Le tue parole sien conte.”
Com’io al piè della sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fur li maggior tui?”
Io, ch’era di ubbidir desideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in soso,
poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a’ miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi.”
“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte,”
rispuos’io lui, “l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte.”
[...]
E: “Se,” continuando al primo detto
“S’egli hanno quell’arte,” disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia della donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.”
Inferno, canto X versi 22-51 e 76-81
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
alla qua’ forse fui troppo molesto.”
Subitamente questo suono uscio
d’una dell’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed ei mi disse: “Volgiti: che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
dalla cintola in su tutto il vedrai.”
I’ avea già il viso nel suo fitto,
ed ei s’ergea col petto e colla fronte
come avesse lo inferno in gran dispitto.
E l’animose man del duca pronte
mi pinser tra le sepolture a lui,
dicendo: “Le tue parole sien conte.”
Com’io al piè della sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fur li maggior tui?”
Io, ch’era di ubbidir desideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in soso,
poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a’ miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi.”
“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte,”
rispuos’io lui, “l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte.”
[...]
E: “Se,” continuando al primo detto
“S’egli hanno quell’arte,” disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia della donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.”
Inferno, canto X versi 22-51 e 76-81
lunedì 7 aprile 2008
Solitudine
L’idea di utilizzare questo spezzone mi tentava da parecchio tempo, eppure solo adesso le ho dato forma. C’è un motivo. Qualche sera fa ho parlato con un’amica, la conosco da poco, ma mi sento davvero in sintonia con lei. È strano come una persona che sta tanto lontano da me riesca a conoscermi molto meglio della maggior parte di quelle che ho intorno tutti i giorni. L’argomento di cui si è parlato era proprio questo, ma non mi va di rendere pubbliche quelle parole che ci siamo scambiati, per quanto poche possano essere le persone che leggeranno queste pagine. Quello che mi importa dire è che il mio stato d’animo attuale è molto simile a quello di JD in questo frammento, e la cosa mi rende un po’ triste. Ma sapere di avere persone come questa amica su cui poter contare e con le quali confidarmi è molto rassicurante, in questo momento. Per questo, visto che so che fai spesso un salto da queste parti, ci tengo a dirti grazie per le parole che mi hai detto. E lo so che la vita non è un telefilm e i telefilm non sono la vita, ma nel caso di “Scrubs”, come ho avuto già modo di dire in occasione del post “A spasso con il camice”, le due cose si avvicinano molto. Almeno, questo è quello che trasmette a me. Non mi dilungo oltre sull’argomento, come vedete, e, a parte il titolo, non ho fatto parola di quello di cui si parla. Tutto quello che potrei dire io, è espresso magnificamente nel monologo finale di JD, e soprattutto nello sfogo con i suoi amici alla mensa. Perché vorrei che tutti vi rendeste conto di quanto siete fortunati ad avere certe cose, e non auguro a nessuno di scoprire come ci si sente senza.
“Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non l’avrai mai”.
domenica 6 aprile 2008
L'orgoglio di Baghdad
Forse è troppo facile, troppo banale, troppo scontato parlare in questi anni della guerra in Iraq. Forse, anche se non vorremmo, non possiamo non tirare un sospiro di sollievo quando un silenzio ristoratore copre queste notizie, e al contrario uno sbuffo ci esce inconsapevolmente dalle labbra ogni volta che sul giornale leggiamo dell’ennesima bomba, da qualunque parte essa venga. Figuriamoci cosa può voler dire fare un fumetto, anzi una graphic novel, proprio su questo tema.
Conoscevo Brian K. Vaughan per altre sue opere, le più importanti delle quali sono certamente “Y: l’ultimo uomo” e “ Ex machina”. Non avevo idea di chi fosse Niko Henrichon, ma è bastata una rapida occhiata alla copertina per farmi dire che volevo questo fumetto. Era sigillato, quindi non ho potuto neanche sfogliarlo prima di comprarlo, e non conoscevo nessuno che l’avesse già letto, quindi andavo totalmente alla cieca. Eppure, qualcosa mi diceva che non me ne sarei pentito, perché quegli occhi in copertina mi dicevano che c’è qualcosa di sbagliato in quel silenzio ristoratore, che è necessario parlare. E scrivere. E disegnare.
Nell’aprile 2003, il cielo di Baghdad è caduto. Quattro leoni (un maschio, due femmine e un cucciolo) fuggono dallo zoo dove vivevano, semidistrutto dalle bombe. Non capiscono cosa sia successo, non sanno dove andare, come procurarsi il cibo. Fino ad allora erano vissuti all’ombra dei custodi, che davano loro da mangiare e li accudivano. Eppure, qualcosa si risveglia dentro di loro: il desiderio di essere liberi, l’orgoglio di essere leoni. Si avventurano in un mondo che non conoscono, incontrano altre bestie che non hanno mai visto e altre ancora che invece conoscono. Il senso del branco, sopito ma non estinto in una vita di cattività, li fa andare avanti, uno accanto all’altro. Fino a trovare il loro orizzonte. E la morte, ironica e beffarda, che li attende non appena lo raggiungono.
La storia può sembrare triste, ma non è la melanconia fine a se stessa il motivo conduttore delle vicende. Quello che risalta è invece, ancora una volta, la scelleratezza della razza umana. Una razza disposta a distruggere la natura che la circonda, a massacrarsi tra simili per il denaro, per quello da cui questo deriva, e per il potere che ne scaturisce. In antitesi alla pochezza delle azioni degli uomini, spicca la nobiltà delle scelte animali. Quelli che dovrebbero essere i rappresentanti del puro istinto, trovano invece la maturità spirituale per onorare un vecchio patto, o per mostrare rispetto per coloro che li hanno accuditi fino ad allora, anche se questo vuol dire rinunciare alla possibilità di avere cibo facilmente. Laddove invece gli umani non riescono a rinunciare al loro unico, vero istinto, quello che li porta a guidare carri armati, a lanciare bombe, a impugnare fucili: l’odio. Non è un caso che gli animali dai comportamenti più bassi siano proprio le scimmie, i più vicini all’uomo nella scala evolutiva.
Un romanzo a fumetti intenso e coinvolgente, che vale la pena avere in libreria per tornare a rileggerlo ogni tanto, giusto quando è necessario ritrovare qualcosa su cui soffermarsi a pensare.
“C’è una cosa nera, sotto la terra, ragazzo. Veleno. Quando i bipedi combattono, lo sputano in cielo, e lo versano in mare.”
“Bipedi? Vuoi dire i custodi?”
“Custodi, bipedi, Uomini... Non importa come li chiami, sono tutti uguali.”
“E per cosa combattono?”
“E che ne so, figliolo... Che mi importa, ormai.”
sabato 5 aprile 2008
In memoria 16 - Eresiarchi
“La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? Già son levati
tutti i coperchi, e nessun guardia face.”
E quelli a me: “Tutti saran serrati,
quando di Josafat qui torneranno
coi corpi che lassù hanno lasciati.
Suo cimiterio da questa parte hanno
con Epicuro tutti i suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.”
Inferno, canto X versi 7-15
potrebbesi veder? Già son levati
tutti i coperchi, e nessun guardia face.”
E quelli a me: “Tutti saran serrati,
quando di Josafat qui torneranno
coi corpi che lassù hanno lasciati.
Suo cimiterio da questa parte hanno
con Epicuro tutti i suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.”
Inferno, canto X versi 7-15
Perchè i pesci non affoghino
Era da un po’ di tempo che avevo voglia di un libro sostanzioso, uno di quelli di cui senti il peso in senso fisico, mentre lo leggi seduto in treno o in poltrona e le dita si stancano a tenerlo. Quel giorno entrai in libreria proprio con questo scopo: trovare un volumone che mi avrebbe impegnato per un po’. Mi tornavano alla mente i tempi in cui avevo letto “Il petalo cremisi e il bianco” o “La montagna dell’anima” (per citare due tra i più recenti), e andavo in cerca tra gli scaffali senza trovare niente che mi stuzzicasse, a parte qualche libro più ‘classico’, tipo “Don Chisciotte”. A un certo punto, quasi se ne stesse in disparte, sbirciò da una mensola questo libro. Lo notai perché il titolo era curioso, e la quarta di copertina mi incuriosì ancora di più. Un occhiata al risvolto fu il colpo finale: andava comprato. Stranamente, non dovette aspettare il suo turno per essere letto, perché avevo magicamente esaurito tutto ciò che avevo comprato negli ultimi mesi. Il tempo di foderarlo con la pellicola trasparente, ed ero pronto a cominciare.
“Perché i pesci non affoghino” parla di un viaggio. Dodici occidentali si avventurano alla volta della Cina meridionale e della Birmania. Ma in realtà sono tredici a viaggiare. Con loro c’è anche Bibi Chen, un’antiquaria di origine cinese, trapiantata a San Francisco, organizzatrice del viaggio e, allo stato attuale,... morta! Bibi muore nel suo negozio in circostanze misteriose, delle quali lei stessa non ricorda nulla, mentre ricorda tutto il resto, tutta la sua vita, dall’infanzia all’età adulta, dalla Cina all’America. Bibi doveva essere la guida del gruppo nel viaggio attraverso l’antica via birmana, il percorso che dalla Cina conduceva a quello che il nuovo governo militare ha ribattezzato Myanmar, per tagliare i ponti col passato. Ma i suoi amici, un gruppo variegato di benestanti occidentali, decidono in suo onore di partire ugualmente, anche senza di lei, perché Bibi vorrebbe così. E lei non può fare niente per evitarlo, perché in realtà sa bene che è una pessima idea per delle persone che non sanno nulla della cultura e delle tradizioni orientali avventurarsi in quei luoghi. Ma non può fare altro che seguirli con lo spirito, e con la nuova coscienza che il suo stato gli ha concesso, ‘i doni del Buddha’, che le permettono di sentire i loro pensieri.
Il romanzo unisce in sé molti motivi. Uno è quello dell’esperienza familiare di Bibi, disprezzata dalla madre adottiva, costretta a scappare con la famiglia dalla Cina e a rifugiarsi in America, a sperimentare l’esperienza dell’emigrazione. Un altro, forse quello che più balza agli occhi insieme al primo, è quello delle vicende personali dei dodici protagonisti, e dei complessi rapporti che si intrecceranno tra alcuni di loro. Ma se si guarda con attenzione si scorge un terzo motivo, molto interessante: la difficile situazione politica di quella regione, complicata ancora di più da episodi come il rapimento di turisti, e soprattutto la profonda ignoranza che gli occidentali hanno della cultura dell’estremo Oriente. Insomma, un romanzo che, sotto la veste apparentemente ironica e bonaria del racconto di viaggio, non risparmia critiche a nessuno: né all’autoritarismo dei regimi illiberali e fascistoidi tuttora presenti in molte regioni, né all’individualismo narcisistico del nostro mondo che vive avvolto nella bambagia.
“Un uomo pio spiegò ai suoi discepoli: Togliere la vita è un’azione malvagia, salvare la vita è un’azione nobile. Ogni giorno giuro di salvare cento vite. Getto la rete nel lago e la ritiro con dentro un centinaio di pesci. Metto i pesci sulla riva, dove si contorcono e si dibattono goffamente. ‘Non abbiate paura’ dico loro. ‘Vi ho salvato impedendo che affogaste’. Poco dopo i pesci si calmano e restano immobili. Eppure, è triste dirlo, arrivo sempre troppo tardi. I pesci muoiono. E siccome ogni spreco è un male, porto i pesci morti al mercato e li vendo ricavandone un certo guadagno. Con il denaro compro altre reti, così potrò salvare un maggior numero di pesci”.
mercoledì 2 aprile 2008
In memoria 15 - Le Erinni
Però che l’occhio mi avea tutto tratto
ver l’altra torre, alla cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra femminine avevano e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
della regina dell’eterno pianto,
“Guarda,” mi disse, “le feroci Erine.
Questa è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifone è nel mezzo;” e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendean ciascuna il petto;
batteansi a palme; e gridavan sì alto,
ch’io mi strinsi al poeta per sospetto.
Inferno, canto IX versi 35-51
ver l’altra torre, alla cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra femminine avevano e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
della regina dell’eterno pianto,
“Guarda,” mi disse, “le feroci Erine.
Questa è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifone è nel mezzo;” e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendean ciascuna il petto;
batteansi a palme; e gridavan sì alto,
ch’io mi strinsi al poeta per sospetto.
Inferno, canto IX versi 35-51
martedì 1 aprile 2008
D'un tratto nel folto del bosco
Anche questo è uno di quei classici libri tappabuchi, che compro perché di dimensioni contenute, perché magari vengo da una lettura di mille pagine e voglio qualcosa di più leggero, o semplicemente per fare ‘conto paro’ con il prezzo di un altro acquisto. Quel giorno, contrariamente a quanto succede di solito, capitai in libreria per caso. Di regola, la libreria è una meta ragionata, esco di casa apposta per andare lì e passare una o anche due ore a sfogliare copertine. Quel giorno invece ero in zona per tutt’altro motivo, e entrai come si entrerebbe in un mercatino di quartiere. Cominciai a girare per gli scaffali, gettando un occhio qua e là, senza cercare niente in particolare. Avevo già visto altre volte questo libro, e mentalmente era finito nella casella del ‘forse un giorno lo prenderò, ma non oggi’. Invece quel giorno continuavo a guardare quella copertina blu elettrico con l’albero giallo al centro. Mi frugai le tasche, e incredibilmente c’erano proprio dieci euro (non porto mai soldi con me, tranne quando so che devo comprare qualcosa, e non era quello il caso). Combaciava tutto alla perfezione, non poteva non essere un segno, così lo comprai. Era un venerdì mattina, avevo appena finito di dare un esame, e dovevo tornare a casa a preparare la valigia per tornare in paese. Mi ci vollero dieci minuti per farlo, poi mi sedetti sul divano e cominciai a leggere. In poco più di un’ora ero arrivato a metà, ma si era fatto il momento di andare a prendere il treno. Incontrai una persona che conoscevo, ma non potevo resistere, e dovetti continuare a leggere, anche se sapevo che non è una cosa carina incontrare qualcuno che si conosce e ignorarlo per leggere. Chiusi il libro quando si cominciarono a vedere dai finestrini le prime case di Cefalù: l’avevo finito. Poco più di due ore di lettura. Credo sia il mio record assoluto.
“D’un tratto nel folto del bosco” è più una fiaba che un racconto. Non sfigurerebbe affatto in un libro dei fratelli Grimm. Amos Oz dà prova di tutta la sua maestria descrittiva nel raccontare di un paese stregato, senza tempo e senza nome, da cui misteriosamente sono sparite tutte le forme di vita animale tranne gli uomini. E a nulla valgono le domande dei bambini curiosi, a nulla valgono le ombre che strisciano silenziose nella notte: gli adulti non parlano, non vogliono riportare a galla segreti che sono tenuti nascosti nel fondo di un pozzo buio. Eppure trapela qualcosa di strano, in alcuni gesti, in alcuni atteggiamenti, come i curiosi disegni della meastra Emanuela, o la solitudine del pescatore Almon, o lo spargere briciole della fornaia. E Mati e Maya, spinti dalla curiosità e dall’incoscienza dei bambini, decidono di partire per il loro viaggio avventuroso, in cerca del villaggio nel quale credono si siano rifugiati gli animali scomparsi. E nel folto del bosco trovano Nimi, lo strano bambino malato di nitrillo, Nehi, il demone del bosco, e la triste verità che si cela dietro questi personaggi.
Con la sua straordinaria capacità di raccontare sia attraverso le voci che attraverso i silenzi, Amos Oz ci conduce, attraverso gli occhi dell’innocenza, in un viaggio onirico e ultradiemensionale, a contatto con profondi e struggenti umori dell’animo. E come in tutte le fiabe che si rispettino, ci consegna una morale, affidata al profondo valore della lingua degli animali, una lingua che prevede tanti suoni, ma non la possibilità di articolarli per formare parole come esclusione, emarginazione, diversità. Cosa in cui invece i rappresentanti della razza umana si rivelano maestri.
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