Era da un po’ di tempo che avevo voglia di un libro sostanzioso, uno di quelli di cui senti il peso in senso fisico, mentre lo leggi seduto in treno o in poltrona e le dita si stancano a tenerlo. Quel giorno entrai in libreria proprio con questo scopo: trovare un volumone che mi avrebbe impegnato per un po’. Mi tornavano alla mente i tempi in cui avevo letto “Il petalo cremisi e il bianco” o “La montagna dell’anima” (per citare due tra i più recenti), e andavo in cerca tra gli scaffali senza trovare niente che mi stuzzicasse, a parte qualche libro più ‘classico’, tipo “Don Chisciotte”. A un certo punto, quasi se ne stesse in disparte, sbirciò da una mensola questo libro. Lo notai perché il titolo era curioso, e la quarta di copertina mi incuriosì ancora di più. Un occhiata al risvolto fu il colpo finale: andava comprato. Stranamente, non dovette aspettare il suo turno per essere letto, perché avevo magicamente esaurito tutto ciò che avevo comprato negli ultimi mesi. Il tempo di foderarlo con la pellicola trasparente, ed ero pronto a cominciare.
“Perché i pesci non affoghino” parla di un viaggio. Dodici occidentali si avventurano alla volta della Cina meridionale e della Birmania. Ma in realtà sono tredici a viaggiare. Con loro c’è anche Bibi Chen, un’antiquaria di origine cinese, trapiantata a San Francisco, organizzatrice del viaggio e, allo stato attuale,... morta! Bibi muore nel suo negozio in circostanze misteriose, delle quali lei stessa non ricorda nulla, mentre ricorda tutto il resto, tutta la sua vita, dall’infanzia all’età adulta, dalla Cina all’America. Bibi doveva essere la guida del gruppo nel viaggio attraverso l’antica via birmana, il percorso che dalla Cina conduceva a quello che il nuovo governo militare ha ribattezzato Myanmar, per tagliare i ponti col passato. Ma i suoi amici, un gruppo variegato di benestanti occidentali, decidono in suo onore di partire ugualmente, anche senza di lei, perché Bibi vorrebbe così. E lei non può fare niente per evitarlo, perché in realtà sa bene che è una pessima idea per delle persone che non sanno nulla della cultura e delle tradizioni orientali avventurarsi in quei luoghi. Ma non può fare altro che seguirli con lo spirito, e con la nuova coscienza che il suo stato gli ha concesso, ‘i doni del Buddha’, che le permettono di sentire i loro pensieri.
Il romanzo unisce in sé molti motivi. Uno è quello dell’esperienza familiare di Bibi, disprezzata dalla madre adottiva, costretta a scappare con la famiglia dalla Cina e a rifugiarsi in America, a sperimentare l’esperienza dell’emigrazione. Un altro, forse quello che più balza agli occhi insieme al primo, è quello delle vicende personali dei dodici protagonisti, e dei complessi rapporti che si intrecceranno tra alcuni di loro. Ma se si guarda con attenzione si scorge un terzo motivo, molto interessante: la difficile situazione politica di quella regione, complicata ancora di più da episodi come il rapimento di turisti, e soprattutto la profonda ignoranza che gli occidentali hanno della cultura dell’estremo Oriente. Insomma, un romanzo che, sotto la veste apparentemente ironica e bonaria del racconto di viaggio, non risparmia critiche a nessuno: né all’autoritarismo dei regimi illiberali e fascistoidi tuttora presenti in molte regioni, né all’individualismo narcisistico del nostro mondo che vive avvolto nella bambagia.
“Un uomo pio spiegò ai suoi discepoli: Togliere la vita è un’azione malvagia, salvare la vita è un’azione nobile. Ogni giorno giuro di salvare cento vite. Getto la rete nel lago e la ritiro con dentro un centinaio di pesci. Metto i pesci sulla riva, dove si contorcono e si dibattono goffamente. ‘Non abbiate paura’ dico loro. ‘Vi ho salvato impedendo che affogaste’. Poco dopo i pesci si calmano e restano immobili. Eppure, è triste dirlo, arrivo sempre troppo tardi. I pesci muoiono. E siccome ogni spreco è un male, porto i pesci morti al mercato e li vendo ricavandone un certo guadagno. Con il denaro compro altre reti, così potrò salvare un maggior numero di pesci”.
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